STRADE PERDUTE| Cetraro, quel km insostituibile sulla SS 18

Un piccolo pezzo di Statale dove antico e contemporaneo si mescolano: torri, mulini e palazzi aristocratici, contrade semiabbandonate e complessi residenziali. Tra scoperte sorprendenti, come quella sulle origini del nome del paese, che con i rinomati cedri locali non ha nulla da spartire

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Certe strade le puoi evitare, altre no. Spesso si fa fatica ad accorgersene, ma esistono tratti di strade insostituibili o quantomeno insostituiti per varie ragioni, innanzitutto per problemi oro – ovvero idro – grafici. Uno di questi lo avete percorso chissà quante volte, senza sapere di questa caratteristica: è un minuto scarso d’auto, un chilometrino e mezzo della SS 18 nel Comune di Cetraro. Non può essere aggirato in nessuno modo, a patto di non voler trasformare 1 minuto in una deviazione di 1 ora e 40’ (provare per credere, interrogate Google Maps). Sto parlando di quel breve tratto tra l’ospedale di Cetraro e “Cavinia”. Anzi, ad essere più precisi, tra il bivio per la contrada Bosco che sale su per le colline – dopo aver lambito l’imponente Casino De Caro con la sua cappelletta – e i tornanti che scendono, appunto, a “Cavinia”.

Tra Cetraro e Cavinia

Tutto ciò perché? Perché da una parte c’è la monumentale scogliera dei Rizzi mentre, dall’altra, a dividere a nord il Comune di Cetraro da quello di Bonifati c’è una vallata abbastanza feroce, decisamente invalicabile (il Fosso S. Tommaso), che si insinua con queste fattezze per un bel po’ di chilometri nel mezzo delle montagne, sconfinando nel Comune di Fagnano, nella zona del Lago della Paglia e di quello dei Due Uomini. Quindi, niente da fare: ci si è messa probabilmente anche una storica inespropriabilità dei possedimenti annessi all’antico Casino Falcone (oggi Grand Hotel San Michele), attraverso i quali forse qualche via di comunicazione d’emergenza avrebbe potuto infilarsi. Roba da poco comunque.

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Cavinia vista dall’alto

Ho messo Cavinia tra virgolette perché Cavinia non esiste. È nome di fantasia dovuto al fatto che il complesso residenziale piazzato nel mezzo di quella caletta fu costruito dall’architetto Cava. Piccola digressione storica: Cavinia non è altro che “l’infame renajo di Santa Maria l’Ascosa” (Leopoldo Pagano, Natura, economia, storia in Calabria: studi sulla Calabria, 1892), “ov’era una chiesetta greca, ed ove è ora un fiumicello, ch’è principio del Cedrarese”. Esatto: ancora oggi, l’infame renaio di Cavinia è diviso esso stesso in due, la metà settentrionale, con il lido, a Bonifati e quella meridionale – un concentrato di palazzine da villeggiatura, ficcate in mezzo a due binari, sotto a un viadotto e di fianco al riverbero bollente della scogliera – a Cetraro. In mezzo al confine, 2022, un ponticello malsicuro, alla faccia dell’ingegneria idraulica ‘i nuàutri.

Le torri sulla scogliera

Sopra la scogliera, deturpata dall’ascensore per il mare, la Torre di Rienzo, infine la foce del torrente Triolo, “luogo anche infame per assassini” – scriveva sempre Leopoldo Pagano – e l’antichissimo Casino Del Trono (un nobile Giovanni Del Trono viveva a Cetraro già nel 1323), oggi soffocato dall’Ospedale. Diciamone anche un’altra: la romanticheggiante Torre di Rienzo non è altro che la vecchia Torre dell’Acqua Perropata o Derupata (com’è registrata nell’elenco di Acton), dal nome della piccola cascata a mare posta lungo lo strapiombo della ‘Ncramata.

Rienzo, o Renzo, proviene probabilmente da quel tale Lorenzo Daniele che ne fu torriere tra il 1668 e il 1669. Della sua stalla annessa, anch’essa seicentesca, non resta che qualche traccia. La torre, invece, fu rimessa in sesto nel 1761 da tre mastri architetti di stanza a Cetraro (un cetrarese e due fratelli originari di Rogliano, vedi ASCS, Atti notarili, Notaio Giacomo Lattaro di Cetraro, atto del 15 marzo 1761, f. 33v).

Cetraro e i suoi toponimi

Anche Cetraro, insomma, parla del passato se la si ascolta sulle strade secondarie, con i suoi toponimi e idronimi che tradiscono origini abbastanza chiare e mescolate: il fiume Aron (da cui appunto Citra-Aron, che nulla ha che vedere con i cedri), il ponte Caprovini, le contrade Arvàra, Caparrùa (caput ad ruam), Dattilo, Sopralirto, Acquicella, Aramaticòie, poi divenuta Rammaticò, San Milanone. Discorso diverso va fatto per la lontana contrada Sant’Angelo, una sorta di zona franca perduta in mezzo alle colline, a 9 km dal centro storico: un piccolo paradiso semiabbandonato, gli abitanti recidivi vi costruiscono ancora palazzine per rimanervi.

Spicca una casa che doveva essere la più importante della contrada, un centinaio d’anni fa, baciata dal sole di sud-ovest anche in pieno inverno, poi la gloriosa scuola elementare “Torino”, chiaramente in disuso, esempio raro di volontariato belle époque (oggi da queste parti è più in voga tramandare una ferocissima morra), una lapide all’educatore Arcangelo Verta, la fredda chiesetta di San Michele Arcangelo, qualche albero di arance, zucche magrissime vicino al cimitero: chiedo a un contadino come mai siano così avvizzite e mi fa «non ha piovuto, povere bestie». Zoomorfia allo stato embrionale, anzi, brado. Forse in onore del leggendario montone che venne risucchiato dalla locale grotta-inghiottitoio dell’Avìsu (l’Abisso, e non ÀvisLavis come troppo spesso viene travisato) e poi ritrovato a mare qualche giorno dopo. Quann’allampa aru Citraru, vat’ammuccia aru pagliaru, ok, ma facendo attenzione a non cadere in buche insondabili.

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Ruderi a contrada Sant’Angelo (foto L.I. Fragale, 15-8-2011)

Verso il centro storico

Da Sant’Angelo si potrebbe tornare direttamente sulla Statale senza passare dal centro storico. Ma occorrerebbe un 4×4 di quelli buoni, piccoli e agili, perché il primo pezzo è sterratissimo, anzi pietroso, e fortemente in pendenza. Ma vale la pena. Vale la pena raggiungere, in fondo al Vallone di Lappe, i meravigliosi ruderi del mulino sul torrente. E, a metà strada, passare per l’abitato (si fa per dire) di contrada Difesa e per quella magnifica masseria abbandonata con cappella annessa, un paio di tornanti più giù, sotto la rupe rossiccia.

Nel centro storico è tutto categoricamente diverso: Cetraro ha un’impronta aristocratica e non la nasconde. Il corso principale assomiglia a qualche scorcio di Napoli, con le volumetrie imponenti dei suoi palazzi nobiliari: i De Caro, i due Del Trono, e ancora i Militerni, Giordanelli, Ranieri; la piazza affacciata sul mare sfoggia un discutibile Nettuno. A me pare più un efebo: barbuto sì ma con cosce e seni da ragazzetta. La cappelletta della Madonna del Pettoruto, paleo-franchising dell’omonimo santuario di San Sosti, riporta una lapide di cui il prelato estensore mi deliziò, anni fa, con la roboante recitazione di un Salve Regina riveduto di proprio pugno, fiero dell’assolutissimo ablativo di un “probante populo” fuori tempo massimo. Microcosmi e diversità, minuscoli habitat.

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Ruderi del mulino del Vallone di Lappe (foto L.I. Fragale, 30-12-2021)

1749, fuga da Cetraro

Torno con la mente all’infame renaio di “Cavinia” e ricordo un atto d’archivio che incrociai anni fa: nel novembre del 1749 le autorità locali e centrali del Regno dovettero cercare di dirimere una questione resa spinosa dalla loro stessa burocrazia. Proprio a “Cavinia” si arenò infatti un’imbarcazione di marinai liparoti, di quelle che arrivavano in Calabria per venire a caricare uva passa, fichi secchi, vino e formaggi anche specialmente nei pressi di Capo Bonifati. L’equipaggio sbarcò per scampare i pericoli di un mare poco promettente. Ma le forze dell’ordine cetraresi lo ricacciarono in acqua, a seguito di un’ordinanza che vietava proprio ai liparoti di approdare nel territorio di Cetraro, in quanto usi al contrabbando e al furto.

Il giorno seguente, l’imbarcazione naufragò e i marinai raggiunsero fortunosamente la riva. Lo zelante luogotenente pose in fermo i naufraghi evitando – a fini sanitari – il contatto di questi tanto con la gente del luogo quanto tra loro stessi. Nel frattempo chiese lumi al Governo centrale. Dopo ben nove giorni, da Napoli si dissero assai poco soddisfatti del resoconto ricevuto. Chiesero perciò che venissero fornite informazioni più dettagliate, con buona pace dei disgraziati che già da due settimane si trovavano confinati sulla spiaggia.

 

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Contrada Acquicella di Cetraro, edilizia rurale (foto L.I. Fragale, 16-8-2007)

La corrispondenza continuò così, con cavillose questione di lana caprina tra le due amministrazioni. Tanto che, nel frattempo, dopo circa 15 giorni trascorsi all’addiaccio, i naufraghi comprensibilmente esausti approfittarono delle condizioni metereologiche favorevoli e si rimisero in mare senza vela e a forza di soli remi (ASCS, Regia Udienza Provinciale, busta 28, fasc. 255). Lavoratori del mare e figli del mare, sulle sue acque si sarebbero nuovamente diretti per ritrovare, con un po’ di fortuna e molta fatica, le proprie dimore, con buona pace della burocrazia borbonica e pure del tirrenico santo calabrese, protettore di pescatori, sì, ma anche di marinai. Ancora una volta: benvenuti in Calabria?

 

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