Primo Maggio, la festa del precario

Spariti i diritti, restano flessibilità e culto del profitto. Col futuro che non promette nulla di buono

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Il Primo Maggio è un rito stanco, cui il tempo, la modernità e diverse scelte politiche hanno sottratto senso. Semplicemente il lavoro, per come intere generazioni hanno imparato a concepirlo, non c’è più.
Lo hanno sostituito forme di impiego precarie e sottoposte a forme di sfruttamento rapaci e del tutto legalizzate da una legislazione sedotta dal mito della flessibilità. In pratica, ci hanno raccontato che per avere lavoro occorreva stimolare la crescita, ma per avere la crescita dovevamo rassegnarci a rinunciare a qualche diritto.
Oggi siamo rimasti senza diritti, la crescita c’è stata, ma il prezzo pagato è stato altissimo.

Lavoro e flessibilità

Del resto l’allarme era già giunto, quando Gorz avvisava che «Il sistema economico produce ricchezze sempre crescenti con una quantità decrescente di lavoro». In altre parole: oggi siamo capaci di produrre la stessa quantità di ricchezza di ieri, ma con meno ore di lavoro e l’impegno di meno persone. Questa condizione, però, invece di liberarci dalla fatica ha aggiunto una sofferenza sociale diffusissima e straziante, perché all’idea di flessibilità lavorativa si è assommata la frustrazione della precarietà sociale: in una società in cui ci hanno insegnato che siamo quel che facciamo, essere disoccupati, non fare niente, corrisponde allo smarrimento del proprio status.

Gli effetti della precarietà

Ma non basta: la precarietà genera fragilità sociale e con essa la rassegnazione che viene dall’antipolitica, una forma di disinteresse che è tra le ragioni dell’astensionismo, vera minaccia per le democrazie liberali.
La precarietà del lavoro non è solo fatica presente, ma anche minaccia futura. La società e le persone ne pagheranno il prezzo più tardi, quando dopo decenni di lavori a termine, sempre differenti, si scoprirà che avremo un numero grande di persone che non hanno potuto accumulare esperienze, competenze e saperi.

Se il lavoro uccide

Nell’immediato la precarietà si è trasformata spesso in tragedie sul lavoro, morti causate dalla necessità di massimizzare i profitti, dall’assenza di sicurezza e dalla vulnerabilità sociale dei lavoratori stessi.
In alcuni casi i morti non erano nemmeno lavoratori, ma studenti macinati letteralmente nel meccanismo del perverso rapporto “Scuola–Lavoro”, ragazzi che invece di stare nelle aule erano in fabbrica a “imparare” la flessibilità, cioè ad essere sempre pronti a piegarsi ai tempi mutevoli della produzione.

Reddito e lavoro

Le responsabilità di tutto quanto non è solo della destra tradizionalmente neoliberista, ma pure delle forze riformiste. La seduzione ingannevole di una modernità veloce e luccicante le ha abbagliate e non hanno saputo immaginare una risposta diversa ai mutamenti che ci hanno travolto.
Dentro questo discorso entra prepotente il tema del reddito separato dal lavoro, cui le forze politiche dovrebbero guardare senza moralismi. La redistribuzione della ricchezza in una società opulenta sarebbe una forma di giustizia sociale. Ma al di là di questo, molto più prosaicamente sarebbe uno strumento necessario per non fare appassire i consumi, altrimenti il giocattolo si rompe.
Per il resto ci piace ancora pensare che la sola festa del lavoro sia quella del lavoro liberato.

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