Ci sono libri che sono figli di altri libri. Ripercorrono uguali sentieri, ma con occhi nuovi, perché le cose cambiano e anche in fretta. È il caso de La partecipazione politica (Il Mulino), l’ultimo lavoro di Francesco Raniolo.
Con autoironia l’autore avverte che è come il «tornare sul luogo del misfatto» dopo circa vent’anni dalla prima edizione. Vent’anni sono ere geologiche per chi osserva i mutamenti politici e Raniolo – che insegna Scienze politiche all’Unical ed è coordinatore del dottorato in Politica, cultura e sviluppo – è tornato a rivolgere lo sguardo verso i modi che caratterizzano la partecipazione politica. «Il tempo che separa i due libri accompagna un ciclo di vita», spiega Raniolo e in questo non breve periodo è accaduto di tutto. In Scienze politiche si chiamano “giunture critiche”, o semplicemente crisi.
I tempi cambiano
Ma il punto è che in certe fasi storiche si presentano in forma multipla, quasi uno sciame. Sono chiamate poli-crisi. Si tratta di fenomeni complessi che attraversano le società generando incertezza. Sono rappresentate da mutamenti profondi, crisi economiche innanzitutto, migrazioni di massa, guerre e terrorismo internazionale, perfino una pandemia. Tutto ciò non poteva non riflettersi su forme e intensità della partecipazione e sulla qualità della democrazia. Questa è rappresentata dall’esistenza di spazi di dibattito, talvolta di conflitto, che ne costituiscono una componente cruciale. In sintesi, sono le distinte “arene” all’interno delle quali viene esercitata la democrazia. Per questo osservare come queste arene siano cambiate è fondamentale.
Raniolo dedica grande attenzione a questi spazi, sia istituzionali che collegati alla società civile o ai media, ma presenti pure nelle pieghe della comunità e nei movimenti di protesta, essendosi questi rivelati incubatrici di mutamenti e innovazioni.
Nei territori spesso troviamo aggregazioni di persone, accomunate da interessi condivisi e da valori, che hanno dato vita a pratiche sociali tese a creare beni comuni e a sviluppare reti di solidarietà. Le riflessioni del docente riportano alla mente il ruolo solidale svolto, ad esempio a Cosenza nel corso della pandemia, da realtà come La Terra di Piero, che ha provato a soddisfare i bisogni essenziali affrontando fragilità sociali diffuse in molti quartieri della città. Si è trattato di un ruolo di supplenza, laddove le istituzioni e la politica erano distratte o semplicemente non efficaci.
Raniolo e i partiti di oggi
In realtà i movimenti e le esperienze che da lì scaturiscono dovrebbero spingere i partiti a «rinnovarsi, nel tentativo di ricucire quel patto mitico che dovrebbe legarli ai cittadini, che restano le molecole della Polis».
Il libro di Raniolo significativamente ripropone i passaggi chiave che potrebbero riattivare la partecipazione e cioè l’allargamento decisionale sulla scelta dei leader e delle linee programmatiche, lo spazio al pluralismo delle voci protagoniste del dibattito, la presenza diffusa di reti che collegano i partiti al contesto, la capacità inclusiva delle pratiche politiche.
Nel meraviglioso mondo della teoria questi passaggi dovrebbero funzionare, ma calati nel terribile mondo reale non tanto. Per esempio, si pensi all’incapacità dei partiti di trasmettere le domande e sfide che giungono dalla società . Per Raniolo l’esempio probabilmente più significativo riguarda l’esperienza delle primarie, «che non hanno retto al tempo e ai conflitti interni, finendo per essere neutralizzate, riassorbite dalla competizione tra leader».
Altre forme di inclusione che hanno visto il fallimento sono le famose “parlamentarie”, del M5S, esperienza tutt’altro che inclusiva che si costruiva sull’inganno della Rete come nuovo e prefetto luogo della democrazia. Oggi le forme di inclusione sperimentate si sono rivelate modi per legittimare i leader e non per allargare la base partecipativa, perché sono prevalse le logiche funzionali a dinamiche di potere e di autoreferenzialità.
Il fantasma della partecipazione politica
Ma cosa sono oggi i partiti? Quanto resta attuale la definizione offerta da Maurice Duverger che li immaginava come comunità? Raniolo sa bene che dai tempi in cui scriveva l’intellettuale francese ogni cosa è diversa. Tuttavia resta dell’opinione che «i partiti non possono rinunciare tanto facilmente ad essere comunità di destino, un equivalente laico dell’esperienza religiosa».
Tra i cambiamenti intervenuti c’è stata la scomparsa dei luoghi tradizionali di confronto e la presunzione, da parte dei partiti, di sostituirli efficacemente con i media che rimbalzano la figura dei leader. L’effetto è stato una ulteriore atomizzazione dell’elettorato, cui oggi viene fornita l’illusione della partecipazione stando comodamente seduti sul divano guardando la televisione o chattando sui social. Forme di esperienza solitaria, che sembrano dare ragione alla Thatcher quando affermava che non esiste la società, ma solo individui.
La democrazia se la passa male
Questa deriva assunta dai partiti rappresenta una più marcata separazione tra essi e i cittadini ed è l’opposto di quanto necessario alla vivificazione del rito della partecipazione. Una delle conseguenze di questa atomizzazione è il sopraggiungere di una fragilità sociale sulla quale si avventano con successo forme di populismo.
«Il populismo in passato ha avuto un ruolo importante nel percorso graduale e contorto (perché implicava anche tappe autoritarie come in America Latina) verso la democratizzazione delle società – spiega Raniolo – ma oggi riflette un malessere profondo della democrazia. Una tappa nel processo di de-democratizzazione o di deterioramento della qualità democratica».
Raniolo e i populismi
Il populismo di oggi ha anche diverse facce. «Una – spiega ancora Raniolo – è quella che possiamo definire includente o rivendicativa, volta all’allargamento dei diritti, l’altra più rischiosa è quella che chiamiamo identitaria o escludente».
Accanto al populismo che vuole espandere democrazia autentica e diritti c’è un populismo sovranista. Risponde al disagio sociale e alle paure individuali generate dalle crisi promettendo di serrare i ranghi e maggiormente si offre non solo all’identificazione con un leader (in alcuni paesi manifestamente autoritario, si pensi all’Ungheria di Orbán), ma anche al trasferimento di delusioni e paure su capri espiatori interni o esterni.
Questi sentieri conducono verso democrazie illiberali e irresponsabili. Ma sono purtroppo i sentieri più facili e perciò più seducenti, perché le sfide che attendono le democrazie sono cruciali e riguardano l’attuale frammentazione del tessuto sociale, la radicalizzazione delle domande, ma anche le forme del comunicare che con il web scivolano facilmente nella manipolazione dell’informazione, fino a quello che nel libro viene indicato come “totalitarismo digitale”.
La posta in gioco è altissima e non pare che le leadership dei partiti siano attrezzate ad affrontarla nel modo più giusto. Forse abbiamo bisogno di un nuovo protagonismo dei cittadini.