“Qui non si gode immunità”. Così recita una lapidetta ottocentesca sulla facciata di una chiesa a Morano Calabro. A pensarci bene, messa lì, sulla metaforica porta d’ingresso della regione, oggi suona quasi come un monito: “benvenuti in Calabria, a vostro rischio e pericolo”. Si scherza, ovviamente, ma, d’altro canto, a poche centinaia di metri da lì non venivano esposte le teste dei briganti infilate sulle colonnette ai margini della strada? Senza farla lunga, il fatto è che a cavallo tra Sette e Ottocento la Chiesa e il Regno di Napoli concordarono che taluni luoghi di culto fossero esenti dal dover garantire il rifugio ai colpevoli della maggior parte dei reati.
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La Calabria come un’isola
E però oggi, in tempi di ambite immunità di gregge, questa iscrizione suscita pure qualche riflessione in più. Lo annotavo due anni fa, all’alba del lockdown: «La Sicilia chiude. La Sardegna chiude. La Val d’Aosta idem. Se si escludono due spiagge, due fiumare, due linee ferroviarie, porti e aeroporti, un numero indefinibile di sentieri escursionistici, fiumiciattoli e strade sterrate, gli unici accessi alla Calabria sono 1 autostrada, 3 strade provinciali, 4 statali e circa 14 comunali. Una ventina di strade. Quest’è tutto. Intelligenti pauca».
E, di riflessione in riflessione, viene pure da pensare a quanto in realtà la Calabria sia, sì, geograficamente peninsulare, ma forse assai più intimamente insulare: una metaforica isola vera e propria, tagliata fuori dal resto d’Italia da quell’enorme sipario roccioso del Pollino, che per secoli deve essere stato un discreto deterrente rispetto alla possibilità di fare due passi più a Nord. Lo guardavi da Sud e probabilmente ti passava la voglia di valicarlo. Volendo esagerare si potrebbe dire che è molto più insulare lei che una stessa Sicilia, appiccicata com’è questa a Villa San Giovanni e quindi al ‘continente’ (ponte o non ponte, visto che qualcuno attraversò lo Stretto a nuoto, e ahilui non in omaggio all’Horcynus Orca).
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Ancora una riflessione, alla quarta potenza: mi pare che la perifericità del Sud (tutto) faccia sì che involontariamente, inconsapevolmente, i suoi abitanti abbiano maggiore conoscenza della geografia rispetto ai settentrionali. Un paradosso, ma come a dire: necessità fa virtù. Se non fosse che resta molto spesso una conoscenza, appunto, confinata al bisogno: meramente istintiva e perciò acritica.
La prima grande strada della Calabria
Ma, dicevo, il sipario roccioso: se ne riconoscono a memoria, da sinistra a destra, le cime principali. La rotondità di Serra del Prete, la piramide del Pollino, il triangolo isoscele della Serra Dolcedorme, la linea lunga della Manfriana e poi le rupi sopra Frascineto, e ancora più a destra le obliquità taglienti del Monte Sèllaro…
Eppure a valicare questo massiccio ci riuscirono – ovviamente prima di Cristo (a quei tempi non servivano i miracoli. Nemmeno per i Lavori Pubblici) – con la Via ab Regio ad Capuam, o Popilia, la prima (e ultima?) grande strada calabrese, di cui oggi l’autostrada ricalca paro paro (o giù di lì) tutto il percorso, quantomeno dallo “svincolo” di Nerulum (…), addirittura più di quanto l’avesse ricalcato la Strada Regia delle Calabrie (borbonica, poi napoleonica) che, a differenza della Popilia, oggi sopravvive leggermente meglio e in più punti.
Trattorie e McDonald’s
L’ho voluta percorrere praticamente tutta, questa qui, da Salerno a Palermo, in due sole ed estenuanti tappe, perché lo dico spesso: l’autostrada sta alle vecchie strade come un McDonald’s sta a una trattoria. E mi pare sufficiente. Eppure anche nei luoghi più impensati non c’è verso di salvarsi da certe ovvietà, da certi appiattimenti subculturali inutili, se non altro: perché bisogna chiamare “via Posillipo” un pezzetto della vecchia Strada Regia, peraltro in piena montagna?
Appena un pezzo di strada si infila in un tessuto urbano o, meglio, viceversa: appena un tessuto urbano cresce e ingloba un pezzo di strada antica e usurpa dignità di Comune sopra o sotto gli X abitanti, ecco tutto un fiorire di toponomastica e odonomastica da brivido. In Calabria come altrove. Ricordo, in un paesino nel mezzo del ridente Polesine (sì, certo che è ironico) una stradina intitolata a Eduardo De Filippo. Anzi: ovviamente ad Edoardo. Con la o. C’era da aspettarselo: ‘l male, ‘l malanno e ‘l danno all’uscio, direbbero nel senese.
Non divaghiamo: questa vecchia strada, questa spina dorsale viaria (e scoliotica assai) c’è più o meno tutta, non è scomparsa. Basta cercarla e trovarla senza cascare nei tranelli (sfogliatelo almeno, vi prego, lo straordinario volume di Luca Esposito, La Strada Regia delle Calabrie. Ricostruzione storico-cartografica dell’itinerario postale tra fine Settecento e inizio Ottocento da Napoli a Castrovillari, st. Marostica, 2021).
La Dirupata
Certo, ricordo il tratto campano chiuso per frana (Petina-Polla), un brevissimo tratto lucano (ingresso da Nord nel centro abitato di Lagonegro) ufficialmente riservato ai residenti, e quindi tutto il tratto in Calabria da Laino a Mormanno, ufficialmente chiuso per frana ma regolarmente utilizzato dai locali (almeno al 2014). Poco più oltre si giunge a Campotenese, ignorando un incrocio per una sorta di sentiero dorato da Mago di Oz, che conduce verso luoghi di cui parlerò un’altra volta. E si arriva così alla famigerata Dirupata, a nord-ovest di Morano.
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La Dirupata antica è però fuori uso da almeno 60 anni: se ne intravede qualche tratto dalla Dirupata nuova, che vale comunque la pena di percorrere come surrogato di un ‘battesimo stradale calabro’. Quella vecchia, che sopravvive zigzagando sterrata rispetto al tracciato della nuova, è stata invece l’incubo di generazioni di palafrenieri, postiglioni, viaggiatori di ogni specie.
Il miglior modo di viaggiare in Calabria
Ripidissima, quasi sempre innevata, quasi a strapiombo sulla vallata sottostante. La gente ci moriva, le ruote schizzavano fuori, le diligenze scivolavano a valle tirandosi dietro cavalli e passeggeri. C’è un quadro ispirato proprio a questo luogo. Lo dipinse il calabrese Andrea Cefaly, nel 1866, e lo intitolò Il miglior modo di viaggiare in Calabria. Con dedica (si fa per dire) al Ministro dei Lavori Pubblici (all’epoca il lombardo Jacini, conte di Casalbuttano…).
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Eppure su questa strada sono passati tutti. Tutti, fino alla costruzione dell’autostrada. Che, se ci pensate bene, tanto remota non è. Tutti ci sono passati ma nessuno più se la ricorda. È stata percorsa da briganti, truppe militari, addirittura da quei carcerati tradotti a piedi, da regnanti, dagli stranieri del Grand Tour, da tutti i giovani che per secoli sono andati a studiare a Napoli (compresi tutti i nomi nostrani più celebri) e da chiunque avesse voluto o dovuto per ogni ragione dirigersi da una capitale all’altra, da Palermo a Napoli e viceversa.
Vita da nobili
E tra questi quel danaroso viaggiatore calabrese che nel 1836, di ritorno da un lungo giro dell’Europa, si fece comodamente trasportare addirittura in lettiga, mica in carrozza, da Morano fino ad Amendolara perché, scriveva, “questo modo di viaggiare è molto comodo nei paesi in cui non vi sono strade carrozzabili”. Più che giusto, noblesse oblige, caro il mio Alessandro Mazzario. E si chiude il cerchio, tornando a parlare di pandemie ed epidemie, perché lo stesso giovane calabrese scampò il colera di quegli anni (il colera che non risparmiò Leopardi, per intenderci).
![Viaggiare in lettiga](https://icalabresi.it/wp-content/uploads/2022/02/7.jpg)
Durante la quarantena dentro a un lazzaretto si invaghì prima della figlia del luogotenente di guarnigione. Quindi conobbe due gradevoli imprenditrici toscane che avevano appena inaugurato una loro cappelleria a Madrid. Poi conobbe Edward Leeves col quale scambiava libri. Infine, si invaghì di una cameriera russa: “[…] Vi son poi due cameriere piuttosto graziose, e bastantemente svegliate per essere Moscovite. L’una di esse mi sorride tutte le volte che la guardo, e par che abbia gran voglia di farmi ricominciare la quarantina […]”. Insomma: quando si dice “prenderla con filosofia”.
Il guardiano dell’autostrada
Poco più oltre vale la pena di lasciare un attimo la Strada Regia, e perdersi nelle campagne di Castrovillari – prima di raggiungere la zona delle Vigne, una sorta di miglio d’oro senza mare –, tra le masserie di contrada Cutura, per arrivare fino al convento di Colloreto che tra Sei e Settecento pare fungesse da copertura per ospitare non tanto dei monaci ma qualcosa di equivalente ai Servizi segreti d’oggi, intenti a controllare ogni tipo di traffico obbligato sulla Strada Regia.
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Il convento-fortino, con torre di vedetta anziché consueto campanile, si è salvato – per modo di dire – dalla costruzione dell’autostrada e dal recente ampliamento della stessa. Rudere silenzioso, resta a guardia pure del traffico e del suo rumore costante. In una specie di mise en abyme cronologica, le gallerie dell’autostrada si possono scorgere, tristemente, attraverso brecce e finestre, tra le sue mura di pietra a secco. Una ferita sacrificata per quale progresso?