Calabria di vino… fatto in casa: il viaggio di Soldati contro guide e influencer

Qualche mese fa la Calabria ha ospitato il "Concours mondial de Bruxelles". Tra passerelle della politica, esperti e comunicatori. Ma resiste negli anni una contro-narrazione: quella di un grande scrittore tra vitigni e contadini

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In primavera si è conclusa a Rende, sotto i capannoni di un’anonima area fieristica, una grande kermesse mondiale del vino, il Concours Mondial de Bruxelles. Erano 310 sommelier professionisti provenienti da 45 nazioni, suddivisi in commissioni, hanno valutato i 7.376 vini internazionali in concorso, di cui 5.083 Rossi e 2.293 Bianchi, provenienti da circa 40 Paesi.

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Erano 310 i sommelier impegnati nel Concours Mondial de Bruxelles

Vino di Calabria: la pattuglia al Concours

L’Italia con 1.396 iscritti, dopo la Francia (1.645) e prima della Spagna (1.368). E tra i tanti vini italiani in competizione insieme a regioni habitué del Concorso come Sicilia (202 etichette in gara), Toscana (186), Puglia (185) e Veneto (105), spicca quest’anno la partecipazione della Calabria, terra enoica sin dalle origini ma sinora piuttosto disdetta dai grandi recensori del vino e dai sommelier mondiali, con ben 143 etichette.

Vino di Calabria: il viaggio di Mario Soldati antidoto a guide e influencer
Istantanee dal Concours Mondial de Bruxelles a Rende

I “produttori” calabresi hanno risposto con grande entusiasmo portando in concorso 11 DOP e IGP tra cui Calabria IGT (82), Terre di Cosenza DOC (24) e Cirò DOC (18). Il Concorso «consente di offrire un’esperienza concreta e autentica di promozione per il nostro settore vitivinicolo, che vanta certamente un primato, quello di essere la terra delle origini del vino, grazie all’arrivo della vite dall’oriente, 2500 anni fa». Dichiarazioni impegnative dell’assessore all’agricoltura Gallo, tra i promotori insieme alla Regione di questa vetrina del vino mondiale.

Gli influencer e il vino di Occhiuto

I vini calabresi negli ultimi decenni sono davvero cresciuti molto di qualità e di prestigio, soprattutto per merito di enologi e vignaioli di territorio, e intorno ai filari e alle vigne cresce anche la solita retorica sviluppista di politici e influencer del vino. Era inevitabile.

Anche in questa occasione si è parlato molto di “grande occasione di visibilità per la Regione”, di “marketing territoriale”, di “settore strategico”, di “vere e proprie eccellenze calabresi”. Il presidente Occhiuto, pure lui produttore di vino, ha dichiarato che «dopo il successo ottenuto al Vinitaly, dimostreremo anche in questa occasione che abbiamo realtà che non hanno nulla da invidiare al resto del Paese e al resto del mondo. E benvenuti in Calabria, terra accogliente, passionale, autentica».

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Il presidente della Regione Roberto Occhiuto

Resta il vino di Calabria dopo la sbornia del Concours

Ora, passata la sbornia retorica dei Concours e delle kermesse enologiche, resta il vino. È utile ricordare che c’è, o almeno c’è stata, un’altra dimensione del vino e della Calabria enoica che fa da contrappeso a una certa vanagloria alla moda dei sommelier e della standardizzazione del gusto in tema di vino. Un mondo sempre più ribaltato sugli interessi dei comunicatori professionali, degli allestitori di fiere, dei compilatori di guide stellate. Apparati economici che, come accade col turismo, fanno business e appaiono sempre più lontani dalla realtà viva della terra, dagli umori di una tradizione, dalla storia e della vicenda concreta di chi vive le vigne.
Troppi ormai gli elementi astratti da un’attenzione antropologica e culturale che incontrava quelli che una volta il vino lo facevano davvero per berlo. I paragoni con l’attualità non reggono.

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“Vino al vino”, libro di Mario Soldati

Mario Soldati: la bibbia del buon bere 

Chi si ricorda, per esempio, di Mario Soldati? Il suo Vino al vino è una summa, un’opera omnia, documento di una sensibilità e di una intelligenza senza eguali. Soldati ci lascia tre volumi, ciascuno dedicato a un itinerario, usciti il primo nel 1969, il secondo nel 1971 e il terzo nel 1975. Per chiunque scriva di vino e di cibi, di luoghi e di incontri, questo di Soldati resta un sacro testo, una sorta di bibbia laica del mangiare e bere bene andando in giro per l’Italia di provincia. Un modello, ancora oggi, per orientare e correggere non solo stile e scrittura, ma anche l’etica e l’estetica del modus operandi e narrandi di certa gastronomia televisiva alla moda che oggi fa audience.

Il pellegrinaggio alcolico di Soldati

Soldati nelle sue divagazioni ci rimette sulle tracce di ambienti inediti e spesso oramai cancellati dalla geografia contemporanea della nostra regione, un tempo ricca di umori provinciali. Così è la sua Calabria del vino, che fu re-visionata da Soldati negli anni settanta, per misurarne lo stacco dei tempi nuovi dopo il tramonto della stagione esotica degli scrittori stranieri del Grand Tour. Soldati se la gustò con i sensi e lo sguardo di un narratore di dettagli, un sapido poeta del quotidiano e delle piccole cose. Un pellegrinaggio fatto in nome della cultura materiale e per il gusto di compiacere la propria vitale golosità, piuttosto che per un’esigenza di marketing turistico.

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Lo scrittore Mario Soldati

Soldati di sé diceva che viaggiava soprattutto per andare da un vino. Amava doppiamente il vino. Come alimento e sostanza dal corpo vitale, come essenza aleatoria e spirituale. Il vino come la vita «è fatto per dare piacere consumandosi». A dispetto della angusta gamma descrittiva di qualità organolettiche e compilazioni tecniche ostentata invece dai degustatori professionali di vini oggi tanto venerati dai media. «Non sono un tastevin, non sono un professionista dell’assaggio».

Sputare sentenze e sputare vino

Chi fa l’assaggiatore di mestiere, chi assaggia vino, sputa sentenze con la stessa facilità con cui sputa il vino (e lo deve sputare se non vuole rapidamente ammalarsi). Ma un dilettante come me non può e non è giusto che possa, e deve dunque affrontare impavidamente il rischio di una malattia». Per Soldati, il vino è individuo. Esattamente come gli uomini, il vino per Soldati è «immisurabile, inanalizzabile se non entro certi limiti, variabile per un’infinità di motivi, effimero, ineffabile, misterioso». Altro che disciplinari e bilancini per le Docg.

Perciò, anzitempo, non sopporta la globalizzazione, la sofisticazione, la genericità del gusto medio, le descrizioni standard. Il vino è da capire e bere, dunque, solo se si va a farselo amico direttamente sul posto. Altro che accontentarsi dei ridicoli referti televisivi da rubrica enologica dei sommelier alla moda: «Come si può descrivere il sapore del vino? Le parole non bastano mai, si articolano al massimo su una ventina di aggettivi, sempre la stessa musica».

Cos’è il vino di Calabria? Le persone che lo fanno

Insomma banalizzarne il carattere è prima che un imbroglio mediatico, un delitto estetico, materiale e morale. E proprio in Calabria, alle prese con la difficoltà a raffigurare a parole la complessità di sensazioni accese dal «gusto concreto del Britto», con la scoperta di un «nuovo» vino Soldati saprà aggiungere una pagina memorabile alla sua fede filosofica e antropologica nel vino. Descrizione e degustazione contano davvero molto poco. Il vino è per sua essenza singolare, un prodotto dell’umanità affabile e fuori mercato. Un dono. Il gusto di un vino per Soldati «significa qualcosa solo in rapporto alla persona che lo beve», e aggiunge che il gusto di ogni vino è imprendibile. Il vino, come gli uomini, «ha sempre qualcosa di astratto».

Cos’è il vino per lo scrittore Mario Soldati? Le persone che lo fanno

A Soldati del vino interessano perciò le persone che lo fanno e, allo stesso modo, pure dei cibi coloro che li cucinano. Con inarrivabile curiosità, arguzia e ironia, una straordinaria capacità descrittiva di uomini e situazioni, Soldati nel 1975 ci raccontava anche nei suoi passi calabresi una tradizione della cucina e dei vini in un Sud del lavoro contadino ancora vivacissimo. Oggi lontanissimo, anzi irrimediabilmente perduto, perché quei paesaggi e personaggi, quelle cucine e quei prodotti non esistono più.

Ruffiane guide enogastronomiche

Oggi quella tradizione locale del buon gusto, ingenua per certi versi, ma profondamente vera e sana, popolata da campagnoli e galantuomini per i quali produrre vino genuino era innanzitutto un imperativo morale, è stata sostituita anche da noi da un mondo variopinto e fatuo, popolato da scaffali pieni di etichette, da cloni locali degli enologi e dei gourmet televisivi, sedicenti esperti, winemakers e redattori di patinatissime e ruffiane guide enogastronomiche. Libertà anarchica dalle mode e autonomia dal mercato. Questo predicava già allora Soldati, scrittore del desiderio, ghiottone e bevitore omerico.

Soldati che ama poeticamente «violenza e resistenza» di una Calabria ancora «isolata e anarchica», «scontrosa e ribelle», percorre per intero la regione evitando cantine di produttori industriali ed etichette griffate, schiva ogni pubblicità e predilige la scoperta e la varietà, l’unicità della specialità domestica da apprezzare affidandosi all’ospitalità «nella religiosa compagnia di pochi amici» calabresi che lo accompagnano in una memorabile serie di tappe locali del suo viaggio che divaga alla ricerca della tradizione enologica e degli umori più genuini della Calabria rurale di allora. La sua ricerca fa appena in tempo a cogliere anche da noi gli ultimi veri sapori autarchici.

La bottiglia di Savuto regalata da Mancini a Soldati

Come per la piccante – e ancora minoritaria – «Sardella di Crucoli», da Soldati mangiata a cucchiaiate «usando una sfoglia di cipolla dietro l’altra». C’è la scoperta della valle del Savuto, con la sua antica tradizione enologica. Istradato al Savuto da una memorabile bottiglia regalatagli dall’amico Giacomo Mancini, Soldati fu a Rogliano alla ricerca degli umori più genuini e meglio custoditi della vecchia Calabria rurale. La valle più alta del fiume Savuto tra le colline di Marzi e Rogliano, non ancora attraversata dalle autostrade, era zona di produzione tipica del Savuto, il vino che «sta a Cosenza come il Barolo sta a Cuneo».

Giacomo Mancini regalò una bottiglia di Savuto allo scrittore Mario Soldati

Il vino del prete di Rogliano

Qui lo scrittore ha la ventura di assaporare questo vino locale in una particolarità mitica, il «Succo di pietra» dei Piro. Un nettare di Savuto purissimo prodotto dalla famiglia di Francesco Piro e dalle sue «cechoviane sorelle» di cui, a Rogliano, Soldati fu ospite. Poi è la volta di un’altra grandiosa rivelazione enologica. Mentore Don Alberto Monti, «l’immagine nera e allungata del parroco di Rogliano». Il prete che in un’apparizione quasi mefistofelica, in un buio da cripta gli si fa incontro per proporgli un indimenticabile assaggio. Ecco allora che dalla sua «tonaca miracolosa» spuntano due magiche bottiglie senza etichetta: «Savuto è solo il Britto», sentenzia solennemente il prete di Rogliano. E il «Britto», che in dialetto locale «vuol dire bruciato», è l’alchimia suprema del Savuto, con l’incanto superbo di un colore «rosso rame».

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Il prete del Britto, don Alberto Monti

Un vino sublimato dal «gusto concreto», che il buon Soldati dichiara «diverso» da tutti gli altri, misterioso e ineffabile, un elisir di lunga vita insieme «giovane e maturo». Il Britto è davvero la varietà di Savuto più fine, ottenuto da un mélange misterioso e ben calibrato di ben sette, anzi, forse, nove-dieci vitigni autoctoni di antichissima origine.
Soldati lo acclama estasiato dalle sue «liquide trasparenze», quasi fosse «il fondo oro-rame di un’icona infernale» che racchiude nel suo mistero etereo il fascino più autentico di una tradizione millenaria, simbolo sopravvivente di un territorio aspro e ricco di storia.

L’umile vino Donnici di Piane Crati

Anche se a ben vedere l’emblema enologico e antropologico di quella Calabria del vino ancora orgogliosamente domestica e antituristica, autarchica e retrò, festeggiata con entusiasmo sovversivo da Soldati, si esprime piuttosto in una bottiglia dell’umile Donnici di Piane Crati «che l’indipendente stradino Eugenio Bonelli pigiò l’anno scorso nella modesta ma onesta cantina dove noi adesso lo beviamo». Con lo stesso spirito Soldati torna anche miticamente a rivisitare altri vini-emblema della Calabria enologica, come il Greco, il «succulento Mantonico», il Pellaro, e infine, giunto nell’enoica e magnogreca terra crotonese, passa in esame il celebre Cirò dal «guizzo vivo e pungente».

Il Cirò Megonio Librandi, fresco vincitore del titolo di Miglior vino d’Italia

A Cirò Soldati fa ragionamenti preveggenti sul futuro del vino nelle società tecnologiche. Di fronte ad un Gaglioppo o Magliocco delle vigne del leggendario marchese cirotano Susanna è spinto a fantasticare pensando che il «sapore che un certo vino ha oggi mentre è giovane sarà vanificato: il mistero del vino di un tempo sarà svelato soltanto il giorno in cui qualcuno inventerà il computer organolettico, capace non di archiviare i componenti chimici del vino, ma di descrivere il suo gusto e il suo profumo, e, soprattutto, di riprodurlo fornendone campioni anche a distanza di secoli. Allora, forse, tutto sarà senza inganni, come nell’Età dell’Oro». Si parla di vino, ma con uno stile che fa già contenuto. «L’assoluta leggerezza della scrittura di Soldati – sono parole di Pier Paolo Pasolini – significa fraternità».

Lo scrittore e regista Pier Paolo Pasolini

L’apocalisse modernista dopo il Boom

Ma anche sul paesaggio Soldati, progressista-conservatore, ha le idee chiare e ragiona da esteta. Della foga edilizia dell’Italietta immemore e caotica che fa spazio all’eclettismo nella bengodi del Boom, scrive: «Ci pare di veder sorgere, sull’immemoriale ragnatela di questi vicoli, la peggiore delle profanazioni, l’abominio di case nuove costruite arieggiando all’antico: con falsi mattoni, false terracotte, false ceramiche falsi ferri battuti: polite hostarie, palazzotti residenziali per i ricchi, e magari nights gotici o rinascimentali. L’unica soluzione, forse sarebbe quella, semplice e poetica, ove l’area del bombardamento, ripulita dalle macerie più trite, e coltivata in un disordine naturale ma non eccessivo di fiori, cespugli ed erbe, circonda i ruderi del del campanile, che si levano così, con la loro grazia, magra e schietta: un’oasi di contemplazione, un monumento di doppia memoria per i cittadini del presente e dell’avvenire, facilmente e pericolosamente dimentichi di tutto il passato».

A Soldati il tempo ha regalato almeno la fortuna di non vedere realizzata ovunque, in Calabria e in Italia, «la peggiore delle profanazioni» che paventava: la perdita della memoria, il gusto che si smorza e si abbassa al falso per assaggiare piacevolmente il peggio. In vino veritas.

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