Due chilometri di corteo funebre, decorato da mazzi di garofani rigorosamente rossi, e venti anni di nostalgia.
Il corteo, che si svolse il 12 aprile 2002, lo raccontò Fabrizio Roncone sul Corriere della Sera. La nostalgia, invece, è roba di queste ore e di questi giorni.
Giacomo Mancini se ne andò l’8 aprile del 2002 a ottantasei anni, cinquantotto dei quali vissuti da protagonista politico di primo piano. E da allora è diventato il mito incapacitante di Cosenza, che usa l’ultimo decennio da sindaco dell’illustre vegliardo come un parametro per valutare i successori.
Ma anche questi ultimi hanno provato a rivendicare, ciascuno a modo suo, l’eredità mancinana. La rivendicazione fu scontata per Eva Catizone, erede diretta a Palazzo dei Bruzi. Un po’ meno per gli altri.
Tutti i sindaci… manciniani a parole
«Io mi candido a guidare la città che fu di Mancini», esclamò da un palco nei pressi della Villa Comunale Mario Occhiuto. «Fui presidente del Consiglio comunale quando era sindaco Mancini», gli rispose Salvatore Perugini, sindaco uscente e avversario di Occhiuto su problematica designazione del Pd. E che dire del terzo incomodo, cioè Enzo Paolini, altro presidente del Consiglio di quel decennio, che si portò sul palco Gaetano Mancini, ex senatore socialista e cugino di Giacomo? Anche lui aveva bisogno di un pezzo di mancinismo…
Era la campagna elettorale del 2011, a cui sarebbe seguita l’esperienza di Occhiuto, che ha trascorso buona parte della sua sindacatura a realizzare o terminare opere progettate dal vecchio Giacomo: il rifacimento di piazza Bilotti e il ponte di Calatrava su tutte. Infine, la metro leggera, finita in nulla dopo una vicenda a dir poco travagliata.
In compenso, i debiti maturati nel decennio, sono esplosi e il dissesto, di cui si parlava dai primi Duemila, è diventato realtà. L’era Occhiuto, che inaugurava la stagione del centrodestra, doveva essere il superamento del mancinismo, già tentato da Perugini. In realtà ne è stato il remake fatto male.
Di padre in figlio… in nipote
Per i malevoli, non pochi anche tra i calabresi, Mancini fu una specie di satrapo. Del «califfo della Calabria Saudita», come lo ha definito di recente (ma in maniera benevola) Filippo Ceccarelli, si ricorda la prepotenza, la personalizzazione del potere, iniziata ben prima di Craxi, e la propensione dinastica.
Figlio di Pietro, storico leader socialista, Giacomo Mancini fu padre di Pietro, che fu sindaco di Cosenza al crepuscolo della Prima Repubblica, e nonno di Giacomo, che è stato consigliere comunale, deputato e assessore regionale. E continua a rivendicare l’aggettivo jr, appiccicatogli quando il nonno era vivo, con un misto di orgoglio e devozione.
Ma tant’è: il tradizionalismo, ribadito dal passaggio generazionale dei nomi e del potere, è una curvatura inevitabile della politica del Meridione profondo, anche di quella progressista.
Mancini dinasty
Ma le tradizioni familiari (e familistiche) di quella generazione erano anche scuole, in cui l’apprendistato poteva essere severo. È ciò che fa la differenza tra un figlio d’arte e un figlio di papà.
Per il vecchio Giacomo, essere figlio di Pietro ha significato la possibilità di misurarsi coi gigantissimi come Pietro Nenni, di esordire nel movimento clandestino della Roma ancora occupata dai tedeschi e di farsi le ossa nella difficile accademia del riformismo, allora quasi azzerata dalla presenza ingombrante del Pci.
Ha significato, soprattutto, avere la possibilità di dialogare col potere democristiano per spostare a sinistra l’asse della politica italiana.
Non si diventa ministri per caso, specialmente non allora. Il vecchio Giacomo approdò ai governi di centrosinistra di Moro e Rumor, in cui fu ministro del Lavori pubblici e della Sanità, dopo un rodaggio di dodici anni come deputato.
Il vaccino contro la polio e l’autostrada Salerno-Reggio
L’ascesa alla segreteria del Psi fu per lui un coronamento quasi naturale. Se la sua carriera si fosse fermata lì, ai primi anni ’70, Mancini sarebbe passato comunque alla storia come il politico calabrese di maggior successo e potere, con la sola eccezione di Riccardo Misasi (che, tuttavia, fu ministro quasi a vita ma mai segretario).
L’ambivalenza tra il radicamento nella sua città e la frequentazione romana, fu alla base di una visione politica (oggi merce rara) particolare, per cui il disagio sociale del Sud diventava il simbolo del disagio del Paese, perché i poveri si somigliano tutti, e la questione meridionale era una questione nazionale. Con questa logica, Mancini impose in tutt’Italia la vaccinazione contro la poliomielite. E poi vagheggiò la modernizzazione del Sud, a partire dalla Calabria.
Con tutti i loro difetti, la Salerno-Reggio e i tanti tentativi di industrializzazione della regione sono frutto di questa visione, secondo cui il lavoro e il benessere erano le basi della democrazia. E le “tute blu” l’antidoto alle coppole.
Cosenza rinasce grazie a Mancini
Giacomo Mancini fu sindaco di Cosenza per la prima volta a metà anni ’80. Ma solo nel decennio successivo divenne “il” per davvero.
Contestato dagli oppositori e dai rivali per i metodi autoritari e per la propensione alla spesa facile, il vecchio Giacomo terminò la carriera politica (e la vita) dando una sonora sveglia alla sua città, fresca reduce da una feroce guerra di mafia.
In quei nove anni e rotti Cosenza esibì un dinamismo inedito e tentò di imitare le città del Centronord in cui parecchi cosentini “bene” facevano l’università. Vogliamo dire che il Festival delle Invasioni costava un po’ troppo? Diciamolo. Ma aggiungiamo che fu l’unico tentativo di creare, a Sud, un rivale credibile ai Festival che contavano (Umbria Jazz in testa).
Vogliamo dire che il ricorso massiccio alle cooperative sociali sarebbe diventato un’eredità impossibile da gestire? Certo. Ma all’epoca fu un calmiere sociale che riportò la pace e la sicurezza.
Vogliamo constatare che il recupero del centro storico alla lunga si rivelò effimero? Senz’altro. Ma il tentativo mantiene un suo innegabile successo: una zona negletta e borderline, fino ad allora sinonimo di povertà estrema, divenne un attrattore.
Anche il duello con la vicina Rende, sostenuto con fermezza, si sarebbe rivelato perdente sulla lunga distanza. Tuttavia, quello di Mancini resta il tentativo più forte di dare al capoluogo una centralità che non ha più.
Il limite più vistoso di questo modo di amministrare fu il ricorso quasi esclusivo alle casse pubbliche, che ne uscirono stremate. Certo, Mancini indebitò il Comune quando il “deficit spending” vecchia maniera era ancora praticabile, perché il Trattato di Maastricht, in quel lontano ’93, era appena firmato e i suoi vincoli non mordevano ancora. Ma quel debito non lo colmò nessuno…
Craxi driver?
Mancini fu l’ultimo grande politico della Prima Repubblica a gestire potere in Calabria e a Cosenza. Ma fu anche il primo sindaco della Seconda, cioè eletto col voto diretto, che fu la seconda mazzata al sistema dei partiti.
La prima era stata la preferenza unica, con cui si svolsero le Politiche del ’92 e proprio Mancini, candidato da capolista ne fece le spese: non rientrò in quel Parlamento che frequentava dal ’48.
Tra la mancata rielezione a l’ascesa a Palazzo dei Bruzi, ci fu la controversa deposizione resa al pool di “Mani Pulite” a carico di Craxi il 18 novembre del ’92. Per i malevoli, quelle dichiarazioni spontanee sarebbero state il ticket pagato da Mancini per avere cittadinanza nella Seconda repubblica. Per altri, ancora più cattivi, il vecchio Leone si sarebbe vendicato del suo ex segretario, che lui stesso aveva aiutato a trionfare al Midas nel ’76. Per altri, invece, Mancini avrebbe detto solo la verità sui finanziamenti illeciti del Psi. Comunque sia, quel «non poteva non sapere» che inchiodava Craxi e sminuiva un po’ le responsabilità del tesoriere Vincenzo Balzamo, confermava il teorema di Tangentopoli…
Stampa e procure
La micidiale battuta di Cuore, il settimanale satirico de l’Unità, («Scatta l’ora legale, panico tra i socialisti») potrebbe non riferirsi al solo Craxi.
Nei primissimi anni ’70 Mancini fu bersaglio di una terrificante campagna stampa condotta dal giornalista di destra Giorgio Pisanò sul Candido, con linguaggio e metodo che anticipavano non poco le celebri inchieste di Mino Pecorelli su Op.
«Mancini, ladro e cretino», oppure: «Si scrive leader si legge lader». O infine: «Quelli che rubano con la sinistra si chiamano Mancini», erano gli slogan del battagliero settimanale di satira, trasformatosi per circa due anni in una testata d’inchiesta.
Per quelle espressioni pesanti (che riportiamo per mero dovere di cronaca) e per alcuni errori giornalistici, Pisanò passò i guai e si fece pure un po’ di galera, da cui lo tirò fuori il celebre avvocato Francesco Carnelutti. Mancini, oltre al fango, non ebbe conseguenze. L’unico che ebbe problemi seri fu il produttore cinematografico Dino De Laurentis, finito nel tritacarne di Pisanò assieme al segretario del Psi, che lasciò l’Italia.
Il secondo round di guai fu l’inchiesta per mafia, intentatagli dalla Procura di Palmi, dalla quale derivò un processo lungo e pesantissimo. Ne sarebbe comunque uscito assolto, se non fosse morto prima.
L’eresia a Cosenza
Tutto si può dire di Mancini, tranne che fu un riciclato. Al contrario, divenne sindaco di Cosenza alla guida di una coalizione di liste civiche, in cui gli eretici della destra (Arnaldo Golletti e Benito Adimari) coesistevano coi reduci dei Movimenti (ad esempio, la Lista Ciroma, guidata da Paride Leporace) e i duri e puri del Psi convivevano con le vecchie glorie dell’autonomia (ad esempio, Franco Piperno, che visse la sua seconda giovinezza come assessore del Vecchio Leone).
Mancini non entrò in alcun partito, ma fece il sindaco a dispetto dei partiti, spesso colonizzati da ex socialisti cresciuti sulle sue gambe (è il caso di Pino Gentile…).
A prescindere da ogni valutazione, Cosenza fu un laboratorio interessante. Che ebbe un limite: l’incapacità di sopravvivere al suo stregone.
Un gigante senza eredi politici
Della Mancini dinasty resta pochissimo: il nipote Giacomo, dopo una prima fiammata come deputato della Rosa nel pugno, riuscì a farsi battere da Salvatore Perugini. Poi, dopo il salto nel centrodestra, effettuato fuori tempo massimo, e l’esperienza di assessore per Scopelliti, ha perso consensi elettorali e si limita a sortite in nome della nostalgia.
Stesso discorso per suo padre Pietro, che esibisce ora simpatie salviniane. Quasi sparita, invece, Giosi, la figlia di Giacomo (che ha tentato solo una candidatura come consigliera nelle ultime Amministrative a Roma). Sparita del tutto Ermanna Carci Greco, la figlia di prime nozze di donna Vittoria, più manciniana, forse, dello stesso Patriarca.
Eva Catizone, dopo la sindacatura, ha tentato più volte la carta elettorale in ciò che restava del Psi. Poi è passata con Mario Occhiuto. E Cosenza? Langue. Fuori da quel contesto politico, le nuove opere del vecchio Mancini, piazza Bilotti e il Ponte, sembrano fuor d’opera. E molte di quelle vecchie, i ponti sul Crati e il Palasport ad esempio, sono fatiscenti.
Polvere e rughe: tutto ciò che resta di un’esperienza politica forte, che ha bruciato in dieci anni uomini e risorse per cinquanta. È lo specchio di una città dal declino irrimediabile che si rifugia nella nostalgia: «Le rughe han troppi secoli, oramai, e truccarle non si può più». Cantava Lucio Battisti.
Oggi, a truccarle, non basterebbero dieci Mancini redivivi.