Nell’estate 1959, a Roma, Pier Paolo Pasolini 37enne non era ancora l’autore di successo che sarebbe diventato di lì a poco grazie al cinema. Scriveva qualche sceneggiatura, aveva appena pubblicato il suo secondo romanzo e collaborava sporadicamente con delle riviste. Per Successo, il mensile milanese diretto da Arturo Tofanelli, accettò di realizzare un reportage da pubblicare a puntate sui litorali italiani in piena stagione balneare.
Il reportage di Pasolini
Al volante della sua Fiat Millecento, accompagnato dal fotografo Paolo di Paolo, iniziò il suo periplo partendo dal confine franco-italiano, Ventimiglia, e da quello contrapposto, Trieste. Poi passò per le spiagge liguri e toscane (San Remo, Portofino, Santa Margherita, Forte dei Marmi, Viareggio, Tirrenia), le spiagge e le balere dell’Emilia-Romagna, arrivò a Roma (dove a Fregene incontrò gli amici Moravia e Fellini intenti al lavoro). Infine, prima di fare ritorno al nord, affrontò la parte del viaggio che più doveva attirarlo: il sud d’Italia.
Napoli, Ischia e Capri, Maratea, Taranto, Gallipoli, Santa Maria di Leuca, Rodi Garganico, e quindi la Calabria e le sue spiagge. Pasolini non è un cronista turistico, è un poeta, e come tale descrive ciò che vede ma tende anche a idealizzare (le città biancheggianti, i grandiosi lungomari, i villini liberty incrostati d’ornamenti, le rotonde scrostate), a volte va oltre, ricorre al tipico immaginario pasoliniano, usa il linguaggio metaforico.
Sulla strada per Crotone
Sulla strada per Crotone incontra, illuminati dal sole, due uomini che gli fanno segno di fermarsi. Gli è stato consigliato di non farlo, ma lui, figuriamoci, si ferma e li fa salire a bordo: la curiosità dello scrittore è più forte della prudenza. Nei discorsi di quelle persone emerge la durezza della loro vita, il lavoro precario, i mezzi di trasporto che mancano (ogni giorno devono fare venti chilometri ad andare e tornare). Gli dicono anche che quella è una zona pericolosa, di notte è meglio non passarci, fermano le macchine e rapinano, qualche tempo prima c’è scappato pure il morto. Forse un po’ suggestionato da quelle parole ecco che Pasolini arriva a Cutro, che spicca in una specie di altopiano.
Cutro, il paese dei banditi
E scrive così: «Lo vedo correndo in macchina: ma è il luogo che più mi impressiona di tutto il lungo viaggio. È, veramente, il paese dei banditi, come si vede in certi western. Ecco le donne dei banditi, ecco i figli dei banditi. Si sente, non so da cosa, che siamo fuori dalla legge, o, se non dalla legge, dalla cultura del nostro mondo, a un altro livello. Nel sorriso dei giovani che tornano dal lavoro atroce, c’è un guizzo di troppa libertà, quasi di pazzia».
In realtà, nel suo testo, Pasolini precisa che il “paese di banditi” deve intendersi alla maniera dei western, poi ha anche parlato del fervore che precede la cena, l’omertà che in quel luogo ha una forma lieta, vociante. Ma non basta, non basterà. Sarà lo scandalo, abbastanza devastante, anche perché il sindaco di Cutro querelò Pasolini per diffamazione a mezzo stampa, e questo avvenne, non a caso, proprio nei giorni in cui il suo romanzo Una vita violenta riceveva il Premio Crotone per la narrativa.
La Calabria non si tocca, il sindaco querela Pasolini
Nell’esposto del sindaco, si difendeva: «La reputazione, l’onore, il decoro, la dignità delle laboriose popolazioni di Cutro… le dune gialle, altro termine africano usato da Pasolini, sono punteggiate di centinaia e centinaia di casette linde, policrome, gaie, dell’Ente di Riforma dove la laboriosa gente del Sud, della Calabria, di Cutro, fedele al biblico imperativo, guadagna il pane col sudore della propria fronte». Una penosa questione ingigantita non solo dall’orgoglio e dal campanilismo, ma anche da un’astiosa polemica politica (il sindaco di Cutro era democristiano, l’amministrazione comunale di Crotone era comunista) e da una serie di interventi istituzionali (le aziende di soggiorno locali, il prefetto di Reggio Calabria).
Poi per fortuna tutto rientrò, la querela fu archiviata e soprattutto ci furono le spiegazioni. Pasolini scrisse lettere aperte e accettò incontri chiarificatori con intellettuali e studenti cutresi. Per lui – spiegò – «il termine “banditi” voleva dire “emarginati”, uomini banditi dalle classi dominanti che li sfrutta e spinge al crimine».
Uno scandalo tra i tanti
Era dunque uno spiacevole equivoco ma lo scandalo rimase e andò ad aggiungersi ai tanti scandali, più o meno gravi e dolorosi, che hanno accompagnato la vita privata di Pasolini (le denunce per corruzione di minori, addirittura un processo “per rapina a mano armata”) e la sua opera (da Accattone, suo esordio nel cinema, a Salò e le 120 giornate di Sodoma, uscito postumo, tutti i suoi film hanno avuto censure e sequestri). E questo fatto può spiegarsi solo con il modo di Pasolini di vivere il suo ruolo e il suo personaggio nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta.
Cento anni dalla nascita
Amato o odiato, lodato o rifiutato sempre sull’onda del pregiudizio, a cento anni dalla sua nascita (che ricorre il 5 marzo) e a quasi mezzo secolo dalla sua morte tragica, Pier Paolo Pasolini (1922-1975) è ancora con noi con le sue prese di posizione spiazzanti, le sue provocazioni, le sue anticipazioni quasi tutte avverate: la globalizzazione, il consumismo dell’effimero, lo sviluppo senza progresso, l’ecologia, le nuove forme di sfruttamento. Ma al di là dei giudizi di merito su un’opera così vasta e proteiforme (poesia e narrativa, cinema e teatro, saggistica politica, pittura, musica, danza), c’è una cosa che resta indiscutibile: la vera rivoluzione operata da Pasolini riguarda proprio la figura dell’intellettuale.
Con lui si realizza per la prima volta quella che Tullio Kezich chiamò «l’integrazione dell’intellettuale italiano con la società contemporanea». Una figura, quella dell’intellettuale, fino allora chiusa nell’isolamento editoriale e accademico, e che solo con Pasolini si aprirà, in maniera violenta e irresistibile, ai mezzi di comunicazione di massa.
Fuori dagli agi e dai comportamenti borghesi, intempestivo e provocatorio, agendo senza calcoli e cautele, c’era in lui certamente una voglia di protagonismo, quasi una spinta masochistica a “venire alle mani” con il giudizio corrente e nel mettere in discussione i valori di quella borghesia italiana da lui giudicata “la più ignorante di Europa”.
Di qui, conseguentemente, l’infinita serie di scontri e scandali, di volta in volta con gli studenti del Movimento studentesco (quando prese le parti dei poliziotti “figli del popolo” dopo gli incidenti di Valle Giulia a Roma), con i radicali e le femministe (quando si schierò contro la legge sull’aborto), contro i comunisti (quando li sfidava sul piano della moralità e del conformismo), contro la DC (i famosi articoli-invettiva pubblicati sul Corriere della sera, poi raccolti in Scritti corsari).
Pasolini e la Calabria: poca sintonia, tanto amore
In questo contesto può apparire quasi secondario l’incidente di Cutro “città di banditi” e invece è significativo per comprendere la difficoltà di Pasolini a entrare in sintonia con la cultura del suo tempo e anche con una regione come la Calabria da lui sicuramente ammirata, come avrebbe dimostrato più volte con i fatti e con le opere. Tornò infatti a girare spesso in Calabria, proprio a Crotone e nelle vicinanze, alcune parti di Comizi d’amore (1963) e Il Vangelo secondo Matteo (1964, le scene del lago Tiberiade). Era di famiglia calabrese Ninetto Davoli, che accompagnò a lungo la sua vita e partecipò a gran parte della sua filmografia, erano calabresi la Madonna giovane de Il Vangelo (Margherita Caruso) e San Tommaso (il partigiano Rosario Migale).
Ma con Pasolini non si smette mai di avere sorprese. Gianni Scalia, scrittore e suo amico affettuoso, avvertiva: «Su Pasolini bisogna essere sospettosi e interrogarlo nell’unico modo possibile. Dovremmo forse essere cattivi interpreti, non prenderlo alla lettera, e prendendolo alla lettera, trascinarlo nelle nostre contraddizioni, mescolarlo alla “nostra” vita». In molti casi la “nostra vita” erano le beghe politiche, i pregiudizi culturali, le ritorsioni. Tradurre Pasolini, interpretarlo, è quindi necessario, mai imbalsamarlo. Che è un’indicazione di lavoro utile e, insieme, anche la conferma della particolare attualità di un’opera che a distanza di anni continua a parlare al cuore e all’intelligenza delle persone.
Ma che cos’è questo onore?
A me è capitato, facendo la curatela di un libro dedicato all’opera omnia di Pasolini, di rivedere tutti i suoi film e rileggere tutti i suoi scritti. Le sorprese non sono mancate, e una riguarda proprio la Calabria e i calabresi. All’inizio degli anni Sessanta, Pasolini girò il film-inchiesta Comizi d’amore, ancora una volta in anticipo sui tempi, dedicato all’educazione sessuale degli italiani. Quella era l’Italia del “miracolo economico” (tassi di crescita quasi del 6%, indici di produzione e consumi costantemente positivi), ma sulla cultura e sul sesso il risultato è di un’arretratezza spaventosa. E questo dato riguarda il nord esattamente come il sud, gli operai delle fabbriche di Monfalcone come i frequentatori delle discoteche romagnole, come i bagnanti delle spiagge meridionali.
Pasolini interroga intellettuali (Ungaretti e Moravia), psicoanalisti (Musatti), cantanti famosi (Peppino Di Capri) e calciatori del Bologna (Bulgarelli e Pascutti), ma soprattutto gente comune. Ai bambini chiede se sanno come sono nati, agli adulti l’importanza data alla verginità nelle donne, l’infedeltà coniugale, il divorzio, l’omosessualità. Un po’ si diverte, un po’ provoca, un po’ s’indigna per il maschilismo di certe risposte, per l’arrendevolezza complice delle donne.
Anticonformismo a Crotone
In uno stabilimento balneare di Crotone intervista soprattutto le donne, e le risposte sono di un’incredibile chiusura: la sacralità della famiglia unica e indivisibile, la supremazia del maschio, il dovere della donna a non dare scandalo.
Ma ad un certo punto Pasolini si trova di fronte una ragazzina che davanti alla madre scandalizzata e furente dice che no, che secondo lei è giusto separarsi quando l’amore finisce. Pasolini l’inquadra a lungo in primo piano, il sorriso, la sicurezza.
E per la prima e ultima volta nel film, lascia il suo ruolo di intervistatore neutro e con la sua voce fuori campo, un po’ emozionato, le dice: «Senti, treccina, voglio proprio dirti che la bella sorpresa della mia inchiesta è una ragazza come te, nel generale conformismo voi ragazze siete le uniche ad avere idee limpide e coraggiose». Questo accadeva sessant’anni fa a Crotone.
Piero Spila
giornalista e critico cinematografico