Dal Galles alla Calabria: John Trumper, il prof superperito degli anni di piombo

Dalla strage di Peteano al delitto Moro, dall'eversione nera alle Br: le consulenze chiave del docente di Arcavacata nei processi più delicati dei terribili anni '70

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È il 1972. Siamo a Gorizia, uno dei confini caldi con l’ex Jugoslavia.
Come tutto il Friuli, anche questa provincia è militarizzata. Ma la vicinanza al regime titino è solo uno dei problemi di questa zona. L’altro, non secondario, è costituito dalla presenza massiccia dei movimenti extraparlamentari di destra, soprattutto Ordine Nuovo. Questi gruppi vivono un rapporto ambiguo con il Msi di Giorgio Almirante, che nello stesso periodo assorbe i monarchici e vara la Destra nazionale.
Infine, in Friuli opera Gladio, l’organizzazione paramilitare che gestisce la Stay Behind in Italia. Gladio non è solo un gruppo anticomunista, che agisce sotto le direttive (e la copertura) della Nato. È anche un ambiente potenzialmente esplosivo, in cui convivono ex partigiani bianchi, reduci di Salò e neofascisti.

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I resti della Fiat 500 usata per la strage di Peteano

Antefatto: Trumper, un professore curioso

Negli stessi anni inizia la sua carriera un giovane linguista gallese, arrivato in Italia per studiarne l’incredibile varietà di dialetti e suoni.
John Trumper, all’epoca non ha ancora trent’anni: è fresco di laurea e si alterna tra la neonata Università della Calabria e, quella, ben più antica, di Padova.
Trumper, che si occupa di fonetica e linguistica, allora non immagina che grazie a queste sue specialità avrà un ruolo importante nelle tragedie giudiziarie degli anni’70, appena iniziati.

Il boato di Peteano

La sera del 31 maggio del ’72 i carabinieri di Gorizia ricevono una telefonata anonima.
Il “telefonista” segnala una strana presenza a Peteano, una frazione del piccolo Comune di Sagrado: una Fiat 500 abbandonata in una stradina. L’auto ha un particolare inquietante: dei fori di pallottola sul parabrezza.
Una pattuglia si reca subito sul luogo. La guida il sottotenente Angelo Tagliari, che, dopo aver ispezionato la zona, apre il cofano della vettura.
La serratura è collegata a una forte carica esplosiva, che si attiva in maniera devastante: il boato sbalza Tagliari di parecchi metri. L’ufficiale si salva solo perché la portiera gli fa da scudo, ma perde una mano e riporta ustioni e altre ferite gravissime.

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Le vittime della strage: da sinistra, Antonio Ferraro, Donato Poveromo e Franco Dongiovanni

Invece, muoiono sul colpo tre carabinieri, tutti meridionali. Sono il brigadiere Antonio Ferraro, un 31enne siciliano, che lascia la moglie incinta, e i militari Donato Poveromo, un lucano di 33 anni, e il leccese Franco Dongiovanni, di appena 23 anni.
Nessuno rivendica l’eccidio, che resterà avvolto nel mistero per oltre dieci anni: solo nel 1984 il neofascista Vincenzo Vinciguerra se ne assumerà la responsabilità dopo una lunga latitanza all’estero.

Una strage “minore”

La strage di Peteano vanta due sinistri primati. Innanzitutto, è l’unica strage su cui sia stata fatta piena chiarezza. Ed è l’unica strage fascista che ha per vittime dei militari.
Ma quella di Peteano è una strage “minore”, che passa quasi in secondo piano rispetto a quelle, mostruose, di piazza Fontana a Milano (1969) e piazza della Loggia a Brescia (1974).
Tuttavia, c’è un tratto sinistro che accomuna questi tre massacri: la difficoltà delle indagini, dovuta a una serie di depistaggi.

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I funerali dei tre carabinieri caduti

Il dirottatore

È il 6 ottobre 1972. Siamo a Ronchi dei Legionari, una cittadina del Goriziano dove c’è l’aeroporto del Friuli Venezia Giulia.
Un uomo sale a bordo di un piccolo aereo civile diretto a Bari. Questi, subito dopo il decollo, minaccia l’equipaggio con una pistola e lo costringe a tornare indietro.
Il dirottatore chiede la liberazione di Franco Freda, leader veneto di Ordine Nuovo, in quel momento accusato per la strage di piazza Fontana.

Le forze dell’ordine tentano prima di trattare. Poi fanno l’irruzione, a cui segue una sparatoria. L’uomo resta ucciso.
È l’ex paracadutista Ivano Boccaccio, noto per la sua militanza in Ordine Nuovo e per lo stretto legame politico con Vinciguerra, ex militante missino di origine siciliana passato a On, e con l’udinese Carlo Cicuttini.
Quest’ultimo non è solo un ordonovista, ma è stato anche segretario della sezione missina del suo paese, San Giovanni al Natisone.

La pistola fumante

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Vincenzo Vinciguerra durante il processo per la strage di Peteano

Se gli inquirenti avessero repertato subito i bossoli trovati vicino alla 500 di Petano, che avevano provocato i fori nel parabrezza, si sarebbero accorti che i colpi provenivano dalla pistola ritrovata addosso a Boccaccio.
E non ci avrebbero messo molto a fare il classico uno più uno, perché quella pistola apparteneva a Cicuttini.
Cicuttini finisce sotto processo assieme a Vinciguerra per il dirottamento di Ronchi. Ma nessuno pensa ai due per Peteano.

I depistaggi

Le indagini su Peteano iniziano in maniera a dir poco strana. Non le coordina la Polizia giudiziaria di Gorizia, ma le gestisce il colonnello Dino Mingarelli, che guida la Legione carabinieri di Udine, su ordine diretto del generale Giovanni Battista Palumbo, comandante della Divisione Pastrengo di Milano e piduista.
La quasi totalità delle stragi fasciste è stata coperta da depistaggi sistematici, che funzionavano con lo stesso meccanismo: attribuire alla sinistra estrema i delitti della destra. Così per piazza Fontana, così per Peteano.
Infatti, gli inquirenti provano ad affibbiare a Lotta Continua la 500 esplosiva.

Ma la pista non regge e ne emerge un’altra, non più “rossa” ma “gialla”. Cioè non una pista politica ma indirizzata alla delinquenza (più o meno) comune.
Inizia così un’odissea giudiziaria per sei giovani goriziani, accusati di aver fatto saltare in aria i quattro carabinieri di Peteano per vendicarsi di torti subiti dall’Arma.
I sei scontano un anno di galera. Vengono prosciolti in primo grado, ma sono costretti a giocarsi la partita vera in Appello, dove interviene Trumper.

Trumper il superperito

Secondo la difesa degli imputati goriziani, è decisiva la telefonata anonima che aveva attirato i carabinieri a Peteano.
Trumper, che nel 1976 è già un’autorità nella fonetica, viene incaricato delle perizie e perlustra il Goriziano armato di registratore.
Il risultato è inequivocabile: la parlata del telefonista non è goriziana ma udinese. Per la precisione, il telefonista del ’72 parlava un dialetto tipico della bassa valle del Natisone. Manca solo il nome: Cicuttini.
Ma è quanto basta per scagionare i sei. Ma che fine aveva fatto Cicuttini?

Almirante: tra doppiopetto ed eversione

Finiti sotto processo per il dirottamento di Ronchi, Cicuttini e Vinciguerra sono assolti in primo grado nel 1974.
Ma scappano proprio mentre si prepara l’Appello e gli inquirenti stanno per incarcerarli.
Cicuttini, in particolare, si rifugia nella Spagna franchista, grazie a un doppio canale: l’Aginter Press, l’organizzazione semiclandestina che gestiva gli estremisti di destra di tutt’Europa, e il Movimento sociale italiano. In particolare, finisce nei guai Giorgio Almirante, che copre la latitanza dell’ex segretario friulano, mentre i Servizi segreti e alcuni inquirenti depistano alla grande. Perché?
Sul ruolo ambiguo dei Servizi e di settori interi delle forze dell’ordine è inutile soffermarsi: al riguardo continuano a scorrere i classici fiumi d’inchiostro.

Giorgio Almirante nei primi anni ’70

Per il leader missino, invece, si può fare un’ipotesi minima. Cicuttini, infatti, era un personaggio a due facce: da un lato era un ordinovista, anche piuttosto pericoloso, dall’altro restava legato al Msi. Cioè a un partito che in quegli anni aveva sposato una linea di destra conservatrice e legalitaria.
Perciò Almirante lo avrebbe coperto per evitare che il suo partito finisse coinvolto in una strage, tra l’altro a danno dei carabinieri. Ma, come ha ricostruito alla perfezione Paolo Morando nel suo recente L’ergastolano (Laterza, Roma-Bari 2022), non sapremo mai la verità. Formalmente incriminato per favoreggiamento, Almirante si sottrae al processo grazie a un’amnistia. Tuttavia il cerchio attorno a Cicuttini e Vinciguerra si stringe lo stesso.

Trumper e Toni Negri

Grazie anche alla vicenda di Peteano, la reputazione di Trumper cresce a dismisura. Una fama meritata, di cui il glottologo gallese dà prova in un altro celebre processo: quello sul delitto Moro.
Anche in questo caso, la perizia di Trumper è fondamentale per scagionare un sospettato illustre: Toni Negri, accusato di essere il telefonista che aveva segnalato la Renault rossa col cadavere di Moro in via Caetani (in realtà, il “messaggero” era Valerio Morucci).

Toni Negri

L’intervento del prof di Arcavacata, in questo caso, è cruciale per confutare un teorema, accarezzato allora da non pochi inquirenti, secondo cui tra Potere Operaio – di cui Negri era stato leader assieme a Franco Piperno – e le Br ci fosse una continuità assoluta.
Scagionare Negri, come ha fatto Trumper, ha evitato una pista falsa anche se non ha chiarito tutti i dubbi.
Giusto una suggestione per concludere: Trumper è stato collega sia di Negri a Padova sia di Piperno all’Unical. Ma è inutile, al riguardo, aggiungere altro: sarebbe solo l’ennesima dietrologia.

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