Scacchi, quando i Kasparov e i Fischer venivano dalla Calabria

Tra i grandi maestri furono diversi i nostri corregionali che, a cavallo tra il Cinquecento e il Settecento, si distinsero nelle corti europee trionfando su campioni celebrati ovunque. Alcuni di loro inventarono mosse ancora famose e fanno parte dell'élite degli immortali del gioco

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Nel Cinquecento e nel Seicento il gioco degli scacchi era molto diffuso in Calabria e già nel Quattrocento alcuni alti prelati di Cosenza ne erano appassionati. Bartolomeo Florido, arcivescovo della città, accusato di avere falsificato alcuni brevi papali nel 1497, mentre languiva in prigione passava il tempo con gli scacchi.

L’intensa attività agonistica spiega perché dal Cinquecento al Settecento la Calabria abbia dato i natali a scacchisti ammirati e celebrati in tutte le corti europee. Qualche esempio? Michele di Mauro, Leonardo di Bona, Gioacchino Greco, Ludovico Lupinacci e Luigi Cigliarano.

Il buen retiro dopo aver spennato il principe

Salvio nel 1636 scriveva che uno dei più grandi giocatori del Viceregno era Michele di Mauro, detto «il Calabrese». Divenne famoso soprattutto in seguito alla sfida con Tommaso Caputi, scacchista napoletano emigrato in Spagna, dove lo conoscevano con lo pseudonimo di Rosces. Di Mauro giocava soprattutto a Napoli, dove incontrò i più grandi scacchisti italiani, ma soggiornò per diversi anni all’estero, specie a Madrid. Oltre che un maestro imbattibile, era considerato un «buon teorico» del gioco, su cui scrisse alcuni trattati che purtroppo andarono dispersi. Ormai stanco e avanti negli anni, dopo aver vinto al principe di Gesualdo tremila scudi, di Mauro si ritirò a Grotteria, accasandosi con una gentildonna da cui ebbe alcuni figli.

Il Puttino contro i corsari

Giovanni Leonardo di Bona, detto il Puttino, era nato a Cutro nel 1542. Salvio, suo biografo, racconta che studiava legge a Roma e, nonostante la giovane età, era uno scacchista capace di vincere «ciascheduno giocatore». Giunto nella capitale Rui López, il Clerico di Zafra, considerato il «primo giocator» di scacchi del tempo, il Puttino disputò con lui alcune partite. Nulla poté contro l’esperienza del grande campione. In seguito alla sconfitta decise di trasferirsi a Napoli, dove restò per due anni ospite del principe don Fabrizio Gesualdo, appassionato del gioco. La sua fama di scacchista talentuoso si sparse tra i maestri italiani.

Ruy Lopez Segura
Lo scacchista Ruy López Segura celebrato in un francobollo secoli dopo la sua morte

Paolo Boi, alias il Siracusano, mosso da «generosa invidia», volle sfidarlo e, al termine di alcune partite, i due «restarono di pari onore». Qualche tempo dopo Leonardo decise di tornare a Cutro e fu allora che i corsari saraceni attaccarono il paese e catturarono anche suo fratello. Si racconta che tornati a bordo delle galee «alzarono la bandiera di riscatto» e sembra che fu proprio il Puttino a negoziare col rais fissando un prezzo di duecento ducati per ogni prigioniero.

Secondo la leggenda, durante le trattative notò che a poppa del veliero era approntata una scacchiera. L’arabo si accorse che egli la guardava con interesse e lo invitò a giocare. Fu concordata una posta di cinquanta scudi e il Puttino vinse con facilità una partita dopo l’altra. Alla fine non solo riscattò il fratello, ma intascò altri duecento ducati. Il rais, riconoscendo e apprezzando il suo talento, lo invitò a Costantinopoli dove avrebbe potuto accumulare grandi ricchezze, ma egli non accettò.

Niente tasse per i cutresi

Consapevole di aver migliorato le tattiche di gioco, di Bona partì insieme con Giulio Cesare Polerio da Lanciano per la Spagna, nella speranza di incontrare il grande Lopez e ottenere la sospirata rivincita. Arrivati a Madrid, ospiti di donna Isabella, si recarono nel cenacolo dove solitamente si esibiva Ruy López. Leonardo, tra lo stupore dei presenti, chiese di giocare con lui proponendo una posta di cinquanta scudi a partita. Quella del primo giorno finì in pareggio, ma in quello seguente il Puttino vinse. La clamorosa notizia si diffuse velocemente nell’ambiente degli scacchisti spagnoli e tutti volevano battersi con lui.

Partita a scacchi fra Ruy López de Segura e Leonardo da Cutro (di Luigi Mussini)
Partita a scacchi fra Ruy López de Segura e Leonardo da Cutro (Luigi Mussini, 1883)

Correva l’anno 1575 e il re Filippo II chiese di assistere nel suo palazzo a una nuova sfida tra Lopez e il Puttino. Fu stabilito che i due avversari giocassero in piedi sopra un «buffetto» e furono messi in palio mille scudi. Leonardo batté l’avversario e il re, ammirato, gli consegnò i mille scudi, una salamandra d’oro ornata di pietre preziose e una pelliccia di zibellino. Gli domandò anche se avesse qualche desiderio particolare. Il giovane chiese e ottenne l’esenzione dalle tasse per gli abitanti di Cutro per vent’anni.

Omicidio a corte

Recatosi a Lisbona giocò col Moro, il più grande giocatore del Portogallo. La partita si concluse senza vinti e vincitori e alcuni giorni dopo re Sebastiano volle vedere i due sfidarsi a corte. Leonardo vinse molte partite con gran soddisfazione del sovrano che non provava simpatia per il Moro, la cui «superba natura lo portava a disprezzare tutti i giocatori stimandosi non aver pari». Re Sebastiano ricoprì Leonardo di doni e lo chiamò «cavaliere errante» perché, come gli antichi cavalieri, sconfiggeva i rivali e umiliava i superbi. Al termine della sua attività Leonardo di Bona decise di ritirarsi a Cutro. Ne1 597, all’età di quarantacinque anni, «morì avvelenato per invidia» nella corte del principe di Bisignano.

Da Celico alle Indie

Gioacchino Greco, conosciuto anche come «il Calabrese», secondo alcuni era nato nel 1590 a Celico, casale di Cosenza. Di umili condizioni, studiò in un convento dei Gesuiti dove apprese anche l’arte degli scacchi. Nel 1619, grazie alla protezione di alcuni monsignori della corte pontificia, Gioacchino ne fece la sua professione. In quegli anni scrisse anche un trattato sugli scacchi delle cui copie, fatte da esperti amanuensi, faceva dono a personaggi influenti. Nel 1621 Greco si trasferì a Nancy e dedicò al duca di Lorena, Enrico II il Buono, una raffinata copia del suo manoscritto, noto poi come «Codice di Lorena». Nel 1622, a Parigi, grazie al suo gioco vivace e combattivo, il «povero giovane» ebbe la meglio sui più grandi giocatori di Francia riuscendo a guadagnare cinquemila scudi.

Dopo questi successi, accompagnato da grande fama, Greco si recò a Londra. Anche lì vinse forti somme di denaro ma, derubato di tutto quel che possedeva, decise di tornare a Parigi. Nel 1626 andò a Madrid alla corte di Filippo IV e lì primeggiò su tutti i grandi campioni, che celebrarono pubblicamente il suo genio. Secondo quanto racconta Salvio, nel 1634 lasciò l’Europa per seguire un ricco signore spagnolo nelle Indie Occidentali. Non fece mai ritorno. Lasciò tutti i beni ai Gesuiti, che insegnandogli a giocare a scacchi erano stati artefici inconsapevoli del suo destino.

Un artista degli scacchi

Genoino osserva che il Calabrese col suo genio aveva messo in discussione le monotone regole del gioco, anticipando la vivacità che avrebbe avuto nei secoli seguenti. Egli fu un vero artista della scacchiera. Capace di infondere con i suoi attacchi dinamicità a un gioco che mostrava segni di stanchezza e staticità, inventò nuove mosse quale l’arrocco, detto alla «calabrista» o alla «calabrese». A Gioacchino viene riservato un posto tra gli immortali degli scacchi, poiché il suo talento, le sue mosse, i suoi successi e il suo codice hanno contribuito ad accrescere la popolarità del gioco.

Il prete e il freddo

Nel Settecento un campione di scacchi fu il prete cosentino Luigi Cigliarano. Secondo alcuni, per le sue memorabili partite che lo resero famoso in Italia e in Europa, addirittura avrebbe superato il «vanto» e la fama di Gioacchino Greco. A Napoli Cigliarano era seguito da decine di appassionati che scommettevano su di lui ogni volta che sfidava qualche noto giocatore giunto in città. Memorabili furono le partite col Casertano, uno dei più grandi scacchisti del secolo, che aveva una personalità e un gioco diverso dal cosentino.

Ludovico Lupinacci, gentiluomo cosentino, alla sua morte, avvenuta nel 1732, fu compianto anche dai suoi avversari, che riconoscevano in lui uno dei più grandi giocatori del tempo. L’abate Rocco lo descrive come uno freddo, «contro il costume de’ calabresi» parlava poco, si muoveva lentamente, «in somma parea il re dell’ozio». Quell’uomo calmo e schivo davanti alla scacchiera si trasformava in un aggressivo leone. La sua fama aumentò dopo aver battuto un «orgoglioso» campione francese.

Sei di fila

Questi, giunto a Napoli, lanciò una sfida al migliore scacchista del regno proponendo come posta una grossa somma di denaro a chi avesse vinto sei partite senza interruzione. I napoletani indicarono subito come avversario Lupinacci, ma «impallidirono» quando perse le prime cinque. Il solo a non scomporsi tra il numeroso pubblico fu il Casertano, che, conoscendo il valore del cosentino, aveva capito che aveva perso ad «arte». Il francese spaccone, mostrandosi annoiato per l’andamento dell’incontro, suggerì che a quel punto era inutile proseguire. Ma Lupinacci con la sua solita calma lo pregò di continuare. E si aggiudicò sei partite di fila «ordendo de’ tratti bellissimi, indicanti l’acume, e ‘l valore della nazione anche ne’ giuochi e negli scherzi».

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