Il FAI (Fondo per l’Ambiente Italiano) ha eletto la linea Cuneo-Ventimiglia-Nizza “Luogo del cuore” per il 2021. Ovunque cresce l’interesse, anche turistico, per le ferrovie storiche. Nessuno in Calabria ha finora pensato che valesse la pena di fare sul serio qualcosa per salvare e ridare valore a quel che resta del tracciato dismesso dell’epica tratta Paola-Cosenza. Eppure ha una storia che richiama fatti, personaggi e circostanze che sono patrimonio comune e meritano di ritornare a fare memoria, per tutti.
La vecchia cremagliera
La Paola-Cosenza fu una straordinaria realizzazione dell’ingegneria ferroviaria dei primi del ‘900. Ai suoi tempi sfidò i limiti fisici e i vincoli geografici della vecchia Calabria preunitaria per creare finalmente il primo collegamento moderno tra la costa e l’interno. Rompeva così, col suo tracciato ripido e pericoloso, vinto con la potenza delle grandi macchine a vapore, una separatezza plurisecolare. Cosenza poteva vedere il mare che non aveva mai visto. La vecchia linea ferrata fu dismessa dalle Ferrovie dello Stato nel 1987. Cessò la sua vita a favore della nuova tratta veloce in galleria, la Santomarco, che buca ben 25 chilometri di Appennino calabro e unisce Paola e il resto d’Italia a Cosenza in meno di 25 minuti.

La prima vaporiera
“Il treno speciale” cominciò solo il 2 agosto del 1915 a risalire la china tortuosa verso la costiera con tre carrozze e un bagagliaio. Il convoglio partito dal capoluogo era «folto di sindaci, deputati e autorità prefettizie, e reso più gentile dalla partecipazione di alcune distintissime signore del pubblico». Quel giorno «fu accolto in trionfo alla stazione di Paola, alle 18 e mezza, dopo appena due ore e mezza di comodo viaggio».
Prima dei treni si percorrevano i 40 chilometri tra Paola e Cosenza in non meno di 14 ore. Era un viaggio incerto e fortunoso su una scomoda vettura postale a cavalli, o un tragitto solitario a dorso di mulo o a cavallo. Chi non aveva fretta e denaro sufficiente per pagarsi la diligenza o non disponeva di un mezzo proprio (ed erano i più) non di rado si recava al capoluogo a piedi per sentieri di montagna. Non solo per il disbrigo di affari. Anche ogni giorno, a piedi, per frequentare le scuole d’avviamento o il liceo Telesio, come ricorda nelle sue memorie il medico paolano Francesco Ferrari.
Dai soldati agli emigrati
A Paola la stazione della tratta Battipaglia-Reggio Calabria, prima tra le “Grandi Opere” costruita dallo Stato unitario per il Sud, inaugurata nel 1895 dopo 20 anni di lavori, collegava già la costa al resto del paese. Scarsi i passeggeri, rarissime le merci movimentate. Questa prima grande strada ferrata per il Sud servirà per decenni, sin dalla guerra di Libia (1912) e poi oltre il primo conflitto mondiale, quasi esclusivamente, come le grandi strade dell’antichità romana, al trasporto di truppe nelle interminabili tradotte ferroviarie. Poi al deflusso umano di quell’altro immenso esercito in esodo che partirà dal Sud verso le due Americhe. E, dagli anni del boom in poi, per alimentare l’ininterrotta emorragia dell’emigrazione interna ed europea.
La morte corre sui binari
Questi binari ricordano anche l’orgoglio del lavoro dei ferrovieri, custodi delle ansimanti locomotive a vapore, e poi delle automotrici. Le eleganti littorine si arrampicavano un dente dopo l’altro su un percorso temerario e pendenze massime, solo grazie a tre tratte armate con “cremagliere speciali di tipo Strub”, dipanate per 23 chilometri sempre in salita tra boschi e burroni. Il convoglio solitario attraversava alti viadotti ad archi e gallerie buie e lunghe prima di aprirsi all’orizzonte chiaro e libero del Tirreno e alla vista liberatrice dell’agave.
In “Aurora”, un vecchissimo film di Murnau, c’era un treno a vapore che attraversava una di queste foreste minacciose come se avesse appunto fretta di uscirne. Su una cartolina inviata da Cosenza negli anni ‘20 la mano anonima di un viaggiatore di passaggio aveva aggiunto a penna, accanto alla legenda stampigliata sull’immagine della “Stazione ferroviaria di Cosenza”, la parola “liberatrice”. Da quei primi tempi per anni sulle carrozze di terza classe della Paola-Cosenza è sfilata un’anonima moltitudine umana. Di questi eventi minuti rimasti senza memoria le cronache restituiscono come sempre soltanto le tracce più spesse e rumorose. Come gli incidenti mortali, i viaggi fatali di cui purtroppo la vicenda della Paola-Cosenza non è mai stata avara. Sin da principio.

Era la primavera del 1916 quando «una tradotta militare, percorrendo la tratta da San Lucido a Falconara Albanese, subì uno svio all’imbocco di uno dei ponti provvisori in legno gettati sul vallone di San Giovanni. Lo svio, dovuto al cedimento della sponda su cui poggiava il ponte, causò il ribaltamento di un paio di carrozze della tradotta affollata di militari e conseguentemente il precipitarsi delle stesse verso il fondo del vallone». Alla fine fra le lamiere sul fondo del burrone «si contarono 5 militari morti e il ferimento di numerosi altri». La tragedia si ripeté nel 1942, l’incidente fece allora 17 morti e 41 feriti.
Testimoni di un’altra epoca
La storia di questa ferrovia è anche storia della fatica degli uomini che giorno e notte, in condizioni spesso difficili e pericolose, vi hanno lavorato insieme lungo 72 anni. «Negli ultimi anni di servizio della tratta – mi raccontava un vecchio macchinista della Paola-Cosenza, Salvatore Manes (1923-2019) – il convoglio, stracarico di gente, per l’usura dei mezzi qualche volta scivolava sulle livellette. Oppure bisognava ripartire dopo una sosta urgente per riparazioni, sempre frequenti, che eseguivamo lungo la linea. Nel dopoguerra era ancora fresco il ricordo del disastro del ‘42 con tutti quei morti, e anche dei crolli sul vallone di San Giovanni, sempre lesionato e rabberciato alla meglio. Attraversarlo era un problema per tutti, per i viaggiatori e per noi ferrovieri. Ogni volta tiravamo un sospiro di sollievo. Mi è capitato di farlo finanche con le macchine a bassa velocità per le prove di carico, partendo dopo qualche scossa di terremoto. C’era sempre una nuova lesione. Ma quel ponte ancora sta lì».
Il lungo addio
Poi ci sono i ricordi «di quegli anni Cinquanta così poveri, o degli anni Sessanta. Gli anni dell’emigrazione: ricordo le automotrici ogni giorno stracariche di gente, gli emigranti con le facce scure, le valige logore arrangiate alla meglio. Partivano tutti a cercare lavoro: Milano, Torino, la Germania, la Svizzera, la Francia, il Belgio, il Brasile, l’Australia. Ricordo quegli addii alla stazione fra pianti, baci e lacrime. La gente li salutava e li piangeva come morti quelli che partivano. In quegli anni noi ci sentivamo traghettatori di poveri e di dannati, non ferrovieri! Gente che portavamo via a migliaia dalle case di campagna, dai comuni del Vallo cosentino soprattutto, e della Presila. Li sbarcavamo a Paola sui lunghi marciapiedi della stazione da dove, i treni del sole si chiamavano, i direttissimi a lungo percorso, 12-15 carrozze e più, li avrebbero avviati come deportati, assieme ad altri calabresi, siciliani e lucani, nelle città del Nord o fuori dall’Italia».

Sulle littorine fino al 1981 il vecchio macchinista ha trasportato ogni giorno da Paola a Cosenza anche tanti giovani. Sul vagone che partiva ogni mattina per Castiglione Cosentino e l’Unical, nei primi anni ’80 c’ero anch’io, studente di Filosofia. Figlio di ferroviere. Anche dopo l’apertura della superstrada 107, con l’autoservizio sostitutivo delle FF.SS, i treni della cremagliera Paola-Cosenza non si fermarono. Spesso le vecchie e fedeli littorine restavano l’unico mezzo di trasporto utile a tutti, studenti, lavoratori, pendolari, per raggiungere Cosenza e l’Università.
Il treno per Ferramonti
Col fascismo e la guerra, alla Calabria più povera sulle carrozze di terza classe della Paola-Cosenza si mischiarono i deportati a Ferramonti di Tarsia. Accanto ai contadini di Falconara, ai braccianti poveri di S. Fili e del Vallo di Crati, agli studenti di Paola sedettero, sorvegliati e in catene, ebrei italiani, polacchi, greci, austriaci, ungheresi e tedeschi. Con i suoi 4000 internati Ferramonti divenne il più grande campo di concentramento per ebrei costruito in Italia. Poco lontano dai reticolati del campo, correva la diramazione del tronco ferroviario. Numerosi fra gli ex internati a Ferramonti hanno conservato un ricordo vivido di quei viaggi carichi di angoscia e poi schiusi alla speranza.
L’ingegnere cecoslovacco Erik Novak con altri 300 ebrei stranieri, dopo tre settimane nel carcere di Poggioreale, era stato condotto verso la fine del settembre 1940 alla stazione di Napoli e da lì avviato con un treno sorvegliato verso una destinazione ignota: «Il treno viaggiò molto a lungo costeggiando il mare finché non si fermò alla stazione di Paola». Giunti a Paola, gli internati furono fatti salire a gruppi sui convogli a vapore diretti a Cosenza. «Lì a Paola – prosegue Novak – ci fecero trasbordare su un altro treno che in mezzo alle rotaie aveva una cremagliera. A me pareva di andare su una funivia, come quella del parco Petrìn, di Praga. Salimmo col treno molto in su, verso le montagne, attraverso bellissimi castagneti».

A Cosenza gli internati cambiavano nuovamente per andare ancora più a nord, verso quel «un campo che sembrava costruito da poco». Molti ebrei in fuga da Ferramonti dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 ricordano ancora il trenino come un’immagine liberatrice: «Dalla collina dove presto ci trovammo si vedeva la ferrovia per Paola e si sentiva il treno che passava sotto il tunnel». Il 6 settembre 1945, «ultimo giorno di vita del campo», un convoglio partito dai binari di Mongrassano avrebbe riportato i profughi rimasti fino a Paola e da qui verso la libertà.
L’ultima cremagliera della notte
Anche nella letteratura il fato ha inciso indelebilmente la storia della cremagliera da Paola a Cosenza nell’ansiosa geografia dei viaggi dei fuggiaschi. Un giorno d’estate del 1938 il destino si compie per Nora Almagià tra le pagine de La Storia di Elsa Morante. La scrittrice narra nelle prime pagine del suo romanzo sul destino dei vinti la triste vicenda di questa donna ebrea che per paura delle persecuzioni perde il lume della ragione.

Da Cosenza, dove abita insieme al marito, il maestro elementare anarchico Giuseppe Ramundo, fugge via con «l’ultima cremagliera della notte». Va a togliersi la vita lasciandosi annegare nel mare di Paola. «Qualcuno ricorda vagamente di averla vista, nel suo vestituccio estivo di seta artificiale nera a disegni cilestrini, sull’ultima cremagliera serale diretta al lido di Paola. E difatti è là in quei dintorni che è stata ritrovata. Lungo quel tratto della costiera, di là dalla ferrovia, si stendono dei campi collinosi di granturco, che ai suoi occhi vaneggianti nel buio con la loro distesa ondulante potevano dare l’effetto d’un’altra apertura marina. Era una bellissima notte illune, quieta e stellata».
Della vecchia tratta Paola-Cosenza, della piccola stazione di fronte al mare, c’è ricordo anche in un’altra pagina del romanzo. Giuseppe sale ogni dì sul trenino e si reca a Falconara: «Qualcuno, in passato, m’accennava – scrive la Morante – che per arrivarci bisognava prendere una tranvia suburbana, se non forse proprio la cremagliera che sale da Paola su per il fianco della montagna. E io mi sono sempre immaginata che nel suo interno scuro e fresco all’odore del vino nuovo si mescolasse quello campestre dei bergamotti e del legname, e forse anche l’odore del mare, di là dalla catena costiera».

Il progresso divenuto rudere
Un miracolo d’ingegneria, uno scrigno di storie e paesaggi mozzafiato che, come il trenino di Harry Potter, potrebbe richiamare ancora oggi turisti e appassionati di ferrovie storiche da tutto il mondo. Invece ruggine, macerie, depositi dismessi, stazioni disabilitate lungo la linea sono tutto quel che resta del pathos di quella ingenua illusione di progresso. Oggi quei treni non ci sono più. Materiale da fonderia. Le vecchie stazioni sono ruderi scorticati, ricettacoli sfondati di rifiuti e rottami arrugginiti. Tracce di ricordi seppelliti nella fretta del presente.
Scavalcata l’ultima cresta verde della costiera, quelli che una volta erano i chilometri finali percorsi in piano dai binari adesso svaniscono arruffati sotto il sole senza scampo di una periferia urbana. Auto incolonnate e traffico intenso a tutte le ore. Centri commerciali esagerati, capannoni di concessionarie di lusso e palazzoni pretenziosi dove una volta erano distese di olivi, campi verdeggianti di fichi, gelsi, tabacco e granturco che ombreggiavano accanto allo sbuffo delle locomotive. Accanto si alzano gli enormi cubi dell’Università disegnata dall’archistar Vittorio Gregotti.

Siamo alle porte di Rende. Poi i binari soffocati dall’asfalto diventano viale Parco, fin dentro Cosenza, al capolinea della vecchia stazione cancellata, accanto al municipio. Tutt’intorno la conurbazione ingigantita dagli steroidi dall’edilizia intensiva dei quartieri nuovi e dalla crescita aggressiva della speculazione più distruttiva d’Italia. Al posto della ferrovia, sul lato dove più fiorisce il cemento, adesso scorre un filare quasi ininterrotto di costruzioni ecletticamente assiepate sul bordo della 107. La strada trafficatissima per il mare, che dal caos della Statale 18 risale da Paola fino alla Sila. Una vetrina ininterrotta di crescenti orrori urbanistici e di misero sfarzo provinciale. La Calabria di adesso.