Questione vecchia, che si trascina sin dalla nascita: la fotografia è o non è un testimone affidabile di verità? Per chi non l’avesse letta, una notizia di qualche giorno fa mette insieme fotografia e preti, uno vivo, l’altro non più: una coppia di promessi sposi va in parrocchia per richiedere il certificato di cresima necessario per il matrimonio, ma il nuovo parroco non trova traccia del documento nei registri. Anzi, scopre che si tratta di un problema comune addirittura a 15 anni di cresime, non registrate dal vecchio parroco.
Ed è qui che entra in gioco la fotografia: il nuovo parroco, don Paolo Tomassetti, ha un’illuminazione, e per risolvere l’impasse propone di ricorrere alle fotografie della cerimonia come prova che dimostri l’avvenuto sacramento. Consapevole o meno di aderire alla scuola di pensiero barthesiana della fotografia come attestazione che “ciò che vedo nella foto è effettivamente stato”, per cui le foto sono sicuramente rappresentazioni di referenti, il parroco lancia dunque una caccia al tesoro collettiva in cerca delle foto della cerimonia della cresima.
Mutuando la teoria di Nelson Goodman (filosofo, prof universitario eccetera), per cui non è tanto il “cosa” è stato davanti all’obiettivo, ma il “quando” è possibile stabilire un funzionamento della fotografia in quel senso, si può dire che in questo caso ricorrono sicuramente le condizioni di affidabilità, per cui le foto della cresima funzionano come una sorta di mugshot. Quelle foto segnaletiche cioè che testimoniano un’identità non tanto di per sé, ma per la costruzione che fa sì che ne siano abilitate.
Quanto alla dimenticanza del vecchio parroco, personalmente sono più propenso a credere alla trama di un film buonista, con un ultimo regalo alla sua comunità che la tiene unita con questo gioco di ricordi e riconoscimenti tra una casa e l’altra, fra cassetti e cantine che rafforza l’identità collettiva intorno alla propria parrocchia. Proprio come il famoso campanile di Marcellinara di Ernesto De Martino…
Attilio Lauria