Lucano visto dai giudici: l’accoglienza? «Solo per trarre profitto»

Un sistema che, secondo i magistrati, non avrebbe tenuto in alcun conto i migranti ma badato solo a tornaconti economici, tutto per questioni d'immagine. Mimmo il Curdo non fa un passo indietro in vista dell'appello: «Rifarei tutto»

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Il frantoio e le carte d’identità, le case dell’albergo diffuso e quelle dei migranti, gli ammanchi di denaro e le gare di solidarietà: ci sono tre anni di “progetto Riace” dentro il monumentale faldone della sentenza Xenia. Migliaia di intercettazioni, decine di controlli, cinque diverse relazioni prefettizie e due anni di dibattimento serrato con (più) di un occhio alla forte pressione mediatica che l’indagine ha sollevato sin dalle prime battute. Una mole di materiale imponente che i giudici del Tribunale di Locri sgranano con puntigliosità per costruire le basi di una sentenza pesantissima su un sistema d’accoglienza che si sarebbe trasformato in un mezzo «solo per trarre profitto» e senza «nessuna connotazione altruistica, né alcunché di edificante».

Un sistema collaudato

Una ricostruzione durissima che, basandosi sulla gestione economica dei vari progetti (Sprar, Cas e Msna), demolisce l’idea stessa dell’intero “sistema Riace”, o almeno di quello degli ultimi tre anni. Altro non sarebbe stato che «un sistema che si basava su una piattaforma organizzativa collaudata e stabile che si avvaleva dell’esperienza e della forza politica che Lucano possedeva». Ed è proprio sulla figura dell’ex sindaco, e sui suoi comportamenti anche durante il dibattimento, che il presidente Fulvio Accursio punta l’indice. Secondo il giudizio di primo grado infatti, Mimmo Lucano sarebbe a capo di «un’organizzazione tutt’altro che rudimentale che rispettava regole ben precise a cui tutti puntualmente si assoggettavano».

Modello o illusione?

Secondo la ricostruzione dei giudici, il gruppo avrebbe attirato verso Riace buona parte dei disperati che arrivavano in Italia, solo per tornaconto personale. Da una parte lo stesso Lucano, che avrebbe agito oltre che per interesse, anche «a beneficio della sua immagine pubblica». Dall’altra i suoi sodali che lo avrebbero aiutato a mettere in piedi “l’illusione Riace”, per poter saccheggiare i fondi dei progetti d’accoglienza. L’equazione tracciata dal tribunale di Locri è semplice: più migranti ci sono in paese, più soldi arrivano. E più i numeri possono confondersi, più il gruppo ne può approfittare.

Il contesto ignorato

Un’equazione da cui però manca la variabile umana, il contesto dentro cui si è sviluppata l’intera vicenda: nessun accenno all’emergenza che inondava di richiedenti asilo e varia umanità disgraziata, il piccolo centro jonico; nessun riferimento alle decine di persone ospitate oltre i numeri consentiti, in abitazioni vere, proprio per soddisfare le richieste di Prefettura e ministero dell’Interno né ai tanti risultati raggiunti nel rilancio del paesino abbandonato dai suoi stessi abitanti.

Condanna raddoppiata

Associazione a delinquere, falso in atto pubblico, peculato, abuso d’ufficio e truffa: 21 i reati contenuti in 10 capi d’accusa (sui 16 totali in cui era stato coinvolto) alla base della condanna dell’ex primo cittadino che è invece stato assolto dalle ipotesi di concussione e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Dieci capi d’accusa divisi in due, differenti, ordini di reati che sono alla base della condanna per Lucano. Due ordini di reati la cui «sommatoria dei segmenti di pena comporta la condanna alla pena complessiva di anni 13 e mesi 2».

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I giudici del Tribunale di Locri pronunciano la sentenza di condanna nei confronti di Mimmo Lucano

Secondo i calcoli del collegio locrese quindi, da una parte si deve considerare l’associazione a delinquere con tutti i delitti individuati durante il processo e che sono da considerarsi in continuità, dall’altra gli altri reati legati agli abusi d’ufficio e alla falsità ideologica, anche questi da considerarsi in continuità. Ed è sommando questi due distinti «disegni criminosi» che il presidente Fulvio Accursio dispone la condanna a 13 anni e due mesi, praticamente il doppio di quanto richiesto dall’accusa che quelle stesse ipotesi di reato, le aveva invece considerate come un unico insieme.

Nessuna attenuante

Una condanna a cui, scrive ancora il tribunale nelle motivazioni della sentenza, per due ordini di motivi, non vanno conteggiate neanche le attenuanti generiche. Da una parte il fatto che Lucano si è sottratto ad interrogatorio durante il dibattimento limitandosi a due dichiarazioni spontanee, e dall’altra, nonostante si parli di un imputato incensurato, non «vi è alcuna traccia dei motivi di particolare valore morale o sociale per i quali egli avrebbe agito, essendo invece emerso… che le finalità per cui egli operò per oltre un triennio non ebbe nulla a che vedere con la salvaguardia degli interessi dei migranti».

Lucano: «Rifarei tutto»

Un giudizio impietoso che ha provocato l’immediata reazione dello stesso Lucano che, in trasferta in Emilia Romagna, ha rilanciato la sua battaglia. «Rifarei tutto, anche più forte di prima – ha dichiarato Lucano a margine di una manifestazione organizzata in suo sostegno – ci sono tante contraddizioni e il giudice mi ha condannato dicendo che pensavo al futuro, ma sono cose non vere. Il modello Riace è stato un modello di libertà e di rispetto dei diritti umani».

La battaglia continua

Dello stesso tenore anche le dichiarazioni dei difensori dell’ex sindaco, Giuliano Pisapia e Andrea Daqua: «Dopo la lettura approfondita delle motivazioni, siamo ancora più convinti dell’innocenza di Mimmo Lucano. Queste infatti contrastano con le evidenze processuali emerse in un dibattimento durato oltre due anni. I giudici poi – dicono ancora gli avvocati – in contrasto anche con una sentenza delle sezioni unite di Cassazione sull’uso delle intercettazioni telefoniche, negano la verità sullo stato di povertà dell’ex sindaco, confermata invece da tutti i testimoni e le acquisizioni documentali. Contrasteremo nel merito i singoli capi d’imputazione e le argomentazioni dell’accusa e del Tribunale, a partire da quelle sui reati più gravi: associazione a delinquere e peculato».

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