Finisce sepolto sotto 13 anni e due mesi di reclusione il sogno di Mimmo “il curdo” Lucano. Un sogno fatto di integrazione reale, di solidarietà dal basso, di ricerca della pari dignità tra uomini di terre diverse. Un sogno che si infrange su una sentenza piombata come un asteroide in una terra di frontiera come la Locride, dove gli sbarchi dei disperati in fuga da guerra e fame si susseguono al ritmo di uno ogni due giorni.
Una condanna pesantissima – praticamente il doppio della richiesta avanzata dai Pm durante la requisitoria – arrivata in coda ad un processo dai tratti vagamente surreali e che, in poco meno di due anni, potrebbe avere posto una pietra tombale su un modello di accoglienza unico nel panorama europeo. Un modello, nato a due passi e in contrapposizione agli slum per immigrati di Rosarno, che era riuscito nel doppio intento di tendere la mano ai migranti e di ripopolare un paese, Riace, che aveva visto i propri abitanti originari, emigrare alla ricerca di lavoro e stabilità. Una sorta di sistema di vasi comunicanti interrotti dall’indagine che ha portato alle condanne di oggi.
La tarantella in Prefettura
Alla genesi dell’indagine della Guardia di finanza ci sono una serie di relazioni della Prefettura che, a leggerle, raccontano realtà completamente diverse: tra gennaio e giugno del 2017, sono cinque le ispezioni che si susseguono a Riace inviate dall’allora prefetto Michele Di Bari, il funzionario che durante il suo mandato in riva allo Stretto si fece notare per il numero di comuni commissariati e che, con nomina del governo Conte 1 e in seguito alla inarrestabile chiusura dei progetti Sprar in provincia di Reggio, fu promosso nel 2019 a capo del dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione al ministero dell’Interno, all’epoca sotto la gestione di Matteo Salvini.
Ed è in quelle relazioni così diverse tra loro che emergono le differenze più marcate sul modello finito sul banco degli imputati. Nella prima relazione consegnata dai funzionari sbarcati a Riace, con gelido linguaggio burocratico, si evidenziano numerose criticità legate ai residenti “a lungo termine”, sulla condizione delle case e sulla gestione del denaro. Una relazione che, nella sostanza, sembra guardare solo all’aspetto burocratico dell’integrazione senza accorgersi della quotidianità “diversa” di Riace e che tra i suoi estensori vedeva anche la presenza di un funzionario, Salvatore Del Giglio, finito invischiato pochi mesi dopo, ironia della sorte, in un’indagine della Procura di Palmi che lo accusava di avere steso una relazione falsa sul progetto Sprar operativo a Varapodio, sul versante tirrenico d’Aspromonte. Sarà questo il documento che darà il via all’inchiesta.
E se la prima relazione aveva “smontato” il modello Riace, nel maggio del 2017 arrivano nel piccolo borgo jonico altri tre funzionari della Prefettura di Reggio che di quel piccolo paese, tracciano un quadro che sembra venire da un’altra dimensione rispetto a quello precedentemente redatto dalla Prefettura. I funzionari ministeriali girano per il paese, ne respirano il profumo e raccontano di una scuola riaperta che grazie alla nuova linfa dei bambini venuti dal mare era diventata «un miscuglio di razze, dialetti, diademi e treccine» perché, annotano «una scuola senza bambini è la conclusione ingloriosa di un mondo, un universo senza futuro. Riace ora ha la sua scuola, degli insegnanti, dei ragazzi che apprendono».
Un mondo al contrario
Scuola che, in seguito alla serrata dei progetti d’accoglienza, ha mestamente richiuso i battenti, costringendo i pochissimi bimbi rimasti in paese a raggiungere l’istituto della Marina, dieci chilometri a valle. E poi le case «umili ma pulite e confortevoli» e le botteghe e le cooperative per la raccolta rifiuti a dorso di mulo, per una realtà che rappresenta «un microcosmo strano e composito che ha inventato un modo di accogliere e investire sul proprio futuro e che ha ricominciato a fare tante cose» per un’esperienza «che è segno distintivo di quelle buone pratiche che possono far parlare bene di questa regione».
Una relazione che, superando l’aspetto burocratico, raccontava di un paesino minuscolo che splendeva di luce propria, nel deserto sociale ed economico della Locride, finendo per incuriosire intellettuali e artisti, da anni in pellegrinaggio sulle colline dello Jonio reggino per toccare con mano quel mondo al contrario creato nella Calabria degli ultimi. Wim Wenders, per dirne uno, a Riace ci ha girato anche un film. Una relazione che, a leggere il dispositivo della sentenza e in attesa delle motivazioni, sembra non avere rivestito nessun ruolo.
Il valzer dei processi
E poi i vari giudizi così diversi che, nel tempo, sono arrivati dai magistrati che si sono occupati dell’affaire Riace. Dai pm di Locri che ipotizzavano l’associazione che «mitizzava l’accoglienza sulle spalle dei migranti», al Giudice per le indagini preliminari che, in prima istanza, disponendo gli arresti domiciliari per Lucano, ridimensionava fortissimamente le accuse, dispensando bordate sulla fragilità delle indagini, passando per il Gup Monteleone, che quelle accuse di associazione a delinquere, abuso d’ufficio, concussione e malversazione le aveva resuscitate rinviando Lucano e altri 26 a giudizio, finendo al Presidente Accursio che, nel disporre il giudizio, raddoppia di fatto, la richiesta di condanna avanzata dalla Procura.
E mentre la parola fine, almeno in primo grado, chiude il discorso sul modello Riace, nei 13 anni inflitti a Lucano, finisce anche la carta d’identità che l’ex sindaco rilasciò a un bambino di una manciata di mesi e alla sua mamma: documento senza il quale il bambino non avrebbe potuto accedere alle cure mediche di cui necessitava (cure garantite dalla Costituzione) che per Lucano rappresenta una bandiera, ma che per la giustizia italiana invece, resta solo un illecito amministrativo.