Nel corso dei secoli politici e letterati calabresi hanno spiegato i mali della regione individuando dei colpevoli esterni. Il meccanismo dei loro ragionamenti è semplice ed efficace: la Calabria è una terra ricca, ma impoverita per colpa degli altri. La sua popolazione è stata sempre descritta dagli stranieri come arretrata, chiusa in secolari abitudini, non disponibile al confronto civile e, quindi, autocondannata a fame, ignoranza, miseria e isolamento. Calunniati e privati di tutto, i calabresi sono stati costretti a vivere in condizioni misere e, nonostante d’animo buono e ospitale, spinti ad assumere comportamenti rudi e aggressivi.
I vittimisti
Queste figure si presentano come coloro che svolgono un servizio per la comunità. Prendono la parola in nome degli altri, interpretano e rappresentano i valori della gente a cui appartengono. Non esprimono sentimenti autentici, non appartengono a una scuola di pensiero e spesso polemizzano tra loro. Ma immancabilmente descrivono i calabresi come vittime e, per questo motivo, si potrebbe chiamarli «vittimisti».
Vittimista è chi si atteggia a vittima senza esserlo, chi si convince di essere in balia delle circostanze, chi finge di aver patito una prepotenza. Se la vittima è il soggetto passivo di un’azione ingiusta, il vittimista è un attore perché lamenta guai che non ha. Interpreta il ruolo del perseguitato: è un artista della simulazione, pretende la scena e le sue rappresentazioni della realtà sono artefatte.
L’attendibilità non conta
I calabresi teorici del vittimismo ancora oggi non si propongono di liberare il popolo dalle rappresentazioni mentali che offuscano le cause della condizione in cui vive, né di combattere pregiudizi, superstizioni e ignoranza. Il fattore potente e unificante delle loro argomentazioni retoriche non è contenuto nelle cose che affermano. Sta nella pratica della lamentazione: indicare colpevoli che giustifichino l’essere vittima, elencare i mali della regione addossando le responsabilità ad «altri».
Consapevoli della genericità di certe affermazioni, sanno bene che la loro efficacia emotiva è più importante dell’attendibilità. E per dare credibilità alle proprie opinioni, utilizzano in maniera disinvolta le fonti, modificano o inventano i fatti, affermano idee che, fatte circolare insistentemente, diventano in qualche modo plausibili ed accettate: il tempo avrebbe dato autorità e credibilità alle loro storie.
Come i pagliettari
Essi si comportano come quei loquaci uomini di toga, dottori in legge o procuratori chiamati volgarmente dal popolo paglietti o pagliettari i quali, come scriveva Rampoldi nel 1832, con artifici, sottigliezze, cabale, raggiri, trappolerie, frodi e falsi giuramenti erano capaci di mutare il bianco in nero per proprio tornaconto e il meno infelice dei clienti non era chi alla lunga vinceva la causa ma chi più presto la perdeva.
Il vittimista calabrese, come il pagliettaro, è abile nell’uso della parola, un chiacchierone ostinato, capace di dire tutto e il contrario di tutto, di sostenere cose che non corrispondono a ciò che pensa. È incapace di legare i suoi discorsi a un principio di verità. Le sue affermazioni si basano su feticismo verbale e su conoscenze superficiali che lo portano a esprimere concetti sommari con cui catalizzano l’attenzione della gente, favoriscono convinzioni e consolidano credenze.
Consenso e deresponsabilizzazione
Le sue argomentazioni sono vaghe ma non per questo opache e senza forza di suggestione. Anzi, è proprio la genericità di affermazioni non suscettibili di verifica a funzionare efficacemente come strumento di consenso. Ripetute ossessivamente, alcune idee si rivelano talmente efficaci da contagiare la popolazione fino a diventarne un aspetto fondamentale di identità e imporsi come modo di vivere.
Il vittimista attacca chi muove critiche alla sua terra non perché si sente ferito, ma per riaffermare le sue lamentele. Non è interessato tanto alla riparazione del danno subito, quanto alla possibilità di impiegarlo utilmente per difendere i suoi privilegi. Smonta ogni accusa che mette al centro le responsabilità dei calabresi e sottolinea in ogni occasione la loro posizione di perseguitati in modo da perpetuarla.
Egli sa che la litania dei torti sofferti deve essere recitata costantemente, che bisogna tenere sempre alta la tensione in modo che le vittime non dimentichino mai chi sono.
Una scusa per ogni problema
Se la miseria economica e sociale è responsabilità degli altri e se le ingiustizie sono state compiute da altri, spetta ad altri eliminarle. Il vittimista difende una realtà verso cui non vuole o non sa porre rimedio: basta dichiararsi vittime per avere ragione, perché le vittime, per definizione, sono innocenti e non possono essere ritenute responsabili di quel che subiscono.
Quando non vi sono colpevoli o potenziali carnefici utili a rafforzare la posizione degli oppressi, quando le responsabilità dei calabresi sono evidenti, il furbo vittimista giustifica i comportamenti e le azioni come conseguenza dei mali sofferti. Se la Calabria negli ultimi cinquant’anni è stata sommersa dal cemento che ha completamente distrutto il paesaggio, la responsabilità è dei calabresi. Ma tutto è frutto di necessità, voglia di riscattare l’ancestrale miseria e desiderio di vivere una vita più dignitosa.
Ogni problema che attanagli la regione trova per il vittimista una giustificazione. Riconosce il clientelismo come una pratica disonesta in cui un personaggio influente instaura un sistema di potere. Ma nello stesso tempo lo legittima sostenendo che in fondo funge da argine contro l’ingiustizia dello Stato che da sempre ignora le classi deboli. I potenti che fanno clientele sono considerati uomini particolarmente sensibili ai problemi della gente e, sia pure in cambio di qualche voto, offrono aiuto anche al di fuori della rete parentale.
Il pessimismo diffuso
L’atteggiamento dei vittimisti ha favorito un diffuso pessimismo, la convinzione che gli eventi negativi si sarebbero succeduti senza soluzione di continuità, che la regione fosse perseguitata da forze negative, sfuggenti ed ignote, impossibili da combattere. Pasquale Rossi, agli inizi del Novecento, scriveva che l’indole del popolo calabrese era pessimista e il pessimismo favoriva apatia, sfiducia, egoismo, invidia, maldicenza e individualismo.
Il sentimento d’ineluttabilità e d’impotenza tanto diffuso nella popolazione ha dato linfa all’idea dell’esistenza di un destino sempre avverso. Ha fatto sì che generazioni di uomini si sentissero perseguitate da potenze oscure colpevoli del fallimento di tutte le loro azioni: nessuno può sfuggire al proprio destino, la realtà si subisce e si accetta.
La convinzione che il corso della vita sia determinato a priori ha incoraggiato un atteggiamento fiacco e rassegnato, a dire e fare le stesse cose pensando che cambia qualcosa. Ha spinto all’autocommiserazione e alla mancata assunzione di responsabilità finendo per scoraggiare chi rivendicava la volontà di autodeterminarsi.
La falsa coscienza
Nelle loro asserzioni i vittimisti descrivono i mali che gravano da secoli sugli abitanti della Calabria ma, attribuendone agli altri la responsabilità, hanno finito per essere dei recriminatori, per dare importanza più ai problemi che alla loro soluzione.
Non volendo o non riuscendo a comprendere il reale, si difendono producendo una falsa coscienza che, nel momento in cui acquista la forma di una coscienza completa trova una sistemazione teorica dei suoi contenuti in vere e proprie ideologie.
La falsa coscienza elaborata nel corso dei secoli dai calabresi ha rappresentato un solido argine alla confusione della realtà, un mezzo più o meno consapevole per fornire una rappresentazione del mondo, un modo facile ed efficace per rimuovere i mali e proiettarli al di fuori dei propri confini.
Considerare i calabresi come il bersaglio costante di ingiustizie terrene o ultraterrene è un modo per non ammettere i propri limiti e le proprie colpe e per giustificare tutto quello che di negativo esiste nella regione. Pur se mosso dall’amore verso la propria terra, il giustificazionismo dei vittimisti ha contribuito a radicare nella popolazione la concezione della propria debolezza e a rifuggire dalle responsabilità.