Forse, chissà, tra mille anni i reperti archeologici da cui si ricostruirà la storia della nostra epoca saranno pilastri grigi da cui fuoriescono barre di ferro tendenti al cielo. I tour virtuali tra i resti del cemento antico, magari, sostituiranno l’attuale feticismo fotografico dei tramonti e dei panorami. Le nuove rovine, gli edifici non finiti, sono ormai parte del paesaggio. Sono i segni lasciati da partenze e non ritorni. Sempre lì, fermi, come a narrare la necessità di rimandare all’infinito ciò che si voleva fare e che è rimasto incompiuto, una speranza che si rinnova e mai si realizza.
L’anormalità diventa invisibile
Se dovesse nascere davvero un giorno il culto del cemento la Calabria potrebbe divenirne la capitale e Angelo Maggio, fotografo di Catanzaro che da anni segue e immortala le tracce del «non finito calabrese», sarebbe una star. Ma quelli che fotografa, spiega lui stesso, sono dei «monumenti alle aspettative deluse» e non certo opere d’arte. Per capirne la dimensione sociale bisognerebbe parlare con quei padri che hanno alzato muri mai intonacati e piani interi rimasti vuoti. E con i figli che, per scelta, necessità o entrambe le cose, non li abiteranno mai.
Le foto del non finito restituiscono una realtà più cruda della realtà stessa. Non si sforzano di determinare il contesto fino a renderlo rispondente a un’idea precostituita ma, al contrario, ne illuminano le contraddizioni. Quegli edifici sono per noi così normali da risultare ormai quasi invisibili. Eppure raccontano, più di tante narrazioni stereotipate, più della retorica delle eccellenze e delle negatività, la storia della Calabria contemporanea, fatta di crepe che non si ricompongono mai. Di cemento e di vuoto.
Annunci e stereotipi elettorali
Ecco, cemento e vuoto non sono (solo) delle tracce antropologiche, ma elementi con cui misurare come e quanto sia lontana dalla realtà l’idea di paradiso naturale tracciata da molti attuali e aspiranti decisori politici che, statene certi, con la campagna elettorale già in corso rinverdiranno presto il filone con nuove e più immaginifiche dichiarazioni sulle «potenzialità inespresse» e sugli intramontabili «volani di sviluppo».
C’è un posto che è l’emblema di questa incompiutezza, un mausoleo di occasioni mancate: l’area industriale di Lamezia Terme, oggi nota per l’aula bunker del maxiprocesso Rinascita-Scott – prima ospitava un call center – e per la sede della Fondazione Terina. Era nata negli anni ’70 come sogno industriale della Calabria centrale – l’ex Sir in cui lo Stato mise bei miliardi ma che non partì mai – e oggi in mezzo a capannoni abbandonati e pecore che pascolano tra l’immondizia si promette di realizzare una specie di piccola Hollywood.
Ma l’emblema, a pensarci bene, sono quasi tutti gli abusati «800 km di costa» soffocati dalla cementificazione, costellati di villaggi, residence, resort, lidi, lungomari e parcheggi. Come lo sono le (poche) città in cui i palazzi si mangiano i marciapiedi e le persone vanno in terapia per un parcheggio. E come lo è anche l’entroterra dei «borghi», dei piccoli centri storici fatti di pietra dove interi vicoli scompaiono perché piano piano, negli anni, allunga un muro di là e chiudi una tettoia di qua, qualcuno se ne appropria gli spazi. Li chiude, magari per farne dei nuovi vuoti.
Un report che fa riflettere
Si chiama consumo di suolo, un logoramento continuo che trasforma il territorio e causa la perdita di importanti servizi ecosistemici. Un rapporto ogni anno ne documenta lo stato di avanzamento e anche quello del 2021, che analizza cosa sia successo nell’anno della pandemia, non porta buone notizie. Lo realizza il Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente (Snpa) grazie al monitoraggio congiunto di Ispra e delle Agenzie regionali come l’Arpacal.
Il Rapporto dice questo: «Nell’ultimo anno, le nuove coperture artificiali hanno riguardato altri 56,7 kmq, ovvero, in media, più di 15 ettari al giorno. Un incremento che rimane in linea con quelli rilevati nel recente passato, e fa perdere al nostro Paese quasi 2 metri quadrati di suolo ogni secondo, causando la perdita di aree naturali e agricole. Tali superfici sono sostituite da nuovi edifici, infrastrutture, insediamenti commerciali, logistici, produttivi e di servizio e da altre aree a copertura artificiale all’interno e all’esterno delle aree urbane esistenti. Una crescita delle superfici artificiali solo in parte compensata dal ripristino di aree naturali».
Va detto che la Calabria è al di sotto della media nazionale ed è tra le 8 regioni che, quest’anno, hanno avuto incrementi di consumo di suolo inferiori ai 100 ettari. Nella nostra regione il cemento non è comunque andato in lockdown: il suolo consumato è oggi il 5%, ovvero 76.116 ettari, con un aumento di 86 ettari nel 2020 rispetto al 2019. Ma bisogna analizzare anche il contesto – la Calabria ha molte aree non edificabili – e il grado di urbanizzazione. Nel 2018 il nostro territorio rurale era di 13.155 kmq, nel 2019 è sceso a 13.150 e nel 2020 a 13.148. Crescono invece, di poco ma costantemente, le zone suburbane e quelle urbane.
I primati della Calabria
Altri dati interessanti. Da un’analisi effettuata attraverso il confronto con il Pil regionale emerge la distribuzione del consumo di suolo in relazione alla dimensione dell’economia: Calabria, Sardegna e Basilicata registrano i valori più alti di suolo consumato rispetto al numero di addetti impiegati nell’industria. L’agricoltura: nel periodo 2006-2012 la perdita di superfici a oliveto ha visto proprio in Calabria il valore più alto con circa 12mila quintali di prodotti in meno, mentre tra il 2012 e il 2020 si sono persi frutteti in grado di produrre potenzialmente quasi 40.000 quintali. Un altro primato poco desiderabile è quello della regione con la percentuale più alta di suolo consumato (13,4%) nelle aree vincolate per la tutela paesaggistica. Infine, la Calabria ha una delle percentuali più elevate (5,8%) di suolo consumato tra le aree a pericolosità sismica molto alta.
Il Report dell’Ispra restituisce un altro paradosso che non ha bisogno di grandi interpretazioni: due «perle» del turismo calabrese, Tropea e Soverato, sono tra i Comuni che al 2020 hanno le percentuali più alte di suolo consumato (il 35% la cittadina tirrenica e il 27% quella jonica). Dopo gli interventi legislativi approvati nell’ultimo ventennio (la legge urbanistica 19/2002, le “norme sull’abitare” 41/2011, il “contrasto dell’abbandono e del consumo di suoli agricoli” 31/2017) sarebbe forse il caso di chiedersi cosa non abbia funzionato, a partire dalla mancanza di sistemi di monitoraggio, di abbandonare gli slogan e provare a capire come, perché e per responsabilità di chi succeda che un territorio storicamente violentato venga ancora sacrificato sull’altare di un finto progresso: il dato sul suolo consumato pro capite dice che, ad oggi, per ogni calabrese sono andati persi 402 mq.