Ammassati nella tendopoli a San Ferdinando o nel campo di contrada Russo a Taurianova. Ospiti dell’accampamento container di Testa dell’Acqua a Rosarno o dei tanti casolari abbandonati tra gli aranceti della Piana di Gioia: dalla rivolta dei migranti del 2010 poco o niente è cambiato, con i nuovi insediamenti (più o meno) abusivi, che si sono sovrapposti ai vecchi, mutuandone le stesse dinamiche. Una situazione grave, sostanzialmente immutata nel tempo e incancrenita da inefficienze e sprechi. Una situazione che si lega, inevitabilmente, con il mercato del comparto agricolo – che della manodopera migrante, nella Piana, si serve per sopravvivere – divenuto a sua volta un vero e proprio Far West fatto di caporalato e sfruttamento, norme cervellotiche e finanziamenti a pioggia.
Le battaglie solo annunciate
Sono tra sei e settemila (anche se un censimento accurato non è mai stato realizzato) i lavoratori migranti che nella stagione della raccolta convergono nelle campagne alle spalle del porto di Gioia Tauro. E se anche i numeri si sono parzialmente ridimensionati nei due anni di pandemia, sono sempre i lavoratori africani a sostenere l’intero comparto, fatto, in questo pezzo di Calabria, di una proprietà più che atomizzata, costituita da migliaia di minuscole aziende a conduzione familiare.
Micro appezzamenti di uno, massimo due ettari di estensione, divisi tra filari di agrumi e kiweti, per aziende – circa 13 mila in totale – che non riescono a creare rete e che, in genere, sopravvivono con ricavi che somigliano a mance. Quelle delle grandi aziende di produzione di succhi, che pagano per i frutti, in molti casi raccolti direttamente a terra, meno di dieci centesimi al chilo. E quelle delle catene della grande distribuzione, che comprano attraverso aste al ribasso arance e mandarini destinate al consumo e pagate ai produttori tra i 20 e i 25 centesimi al chilo. Va un po’ meglio con i kiwi, che riescono a ritagliarsi un prezzo vicino agli 80 centesimi.
Una decina di anni fa, le associazioni di categoria (Confagricoltura e Coldiretti) avevano annunciato – con tanto di convegno in grande stile e annessa sfilata di trattori – una battaglia campale su due fronti: da una parte il prezzo minimo al chilo da ottenere dalle multinazionali che si riforniscono nella Piana, dall’altra la percentuale minima di succo da inserire nelle bevande. Una rivoluzione che avrebbe fatto bene all’intero settore. Passati gli anni, di quella battaglia su cui si sarebbe dovuta riscrivere la nuova economia agricola della Piana, resta solo qualche poster ingiallito dal tempo, ma di risultati neanche a parlarne.
Far West
E se la parcellizzazione esasperata della proprietà agricola non aiuta, a complicare ulteriormente le cose per uno dei settori che in passato era stato la forza di questo territorio ci sono una serie di regole legate al mercato del lavoro agricolo che sembrano essere state scritte per facilitare il lavoro nero. Regole che fissano a 102 il tetto massimo per le giornate lavorative per ogni ettaro di terra che possono essere frazionate a più lavoratori e che possono essere regolarizzate nei giorni successivi all’effettiva prestazione resa.
Un meccanismo controverso che, anche a causa della antica carenza di ispettori del lavoro, favorisce la mancata contrattualizzazione dei raccoglitori che, quando va bene, riescono a farsi mettere in regola solo per poche giornate al mese. Il resto, raccontano le innumerevoli operazioni della Procura, finisce sul “mercato” delle attestazioni lavorative false. Un mercato illegale così esteso (sfruttato principalmente per ottenere benefici pensionistici) che diventa difficile anche solo provare a quantificarlo. A pagarne il prezzo, ovviamente, i migranti, che di questa Babele sono l’anello più debole. La mancata o, nel caso migliore, la parziale contrattualizzazione, favorisce infatti il fenomeno dello sfruttamento del lavoro in nero, con i braccianti africani costretti per bisogno ad accontentarsi di salari più che dimezzati rispetto alla norma.
In strada per salari decenti
Una deriva che, sul campo, è contrastata dalle associazioni di volontariato e dal cosiddetto “sindacato di strada” che la Flai Cgil mette in campo da anni nel tentativo di informare i lavoratori di San Ferdinando e dintorni rispetto ai loro diritti. Tra le complanari di campagna alla ricerca dei braccianti che attendono il “caporale” di turno o all’esterno delle aziende agricole, durante le poche pause dal lavoro, Rocco Borgese e i suoi colleghi del sindacato, passano le giornate a tentare di convincere i lavoratori a non piegarsi ai salari da fame che gli vengono proposti.
Un servizio su base volontaria (a cui si aggiunge quello di assistenza legale e sanitaria) portato avanti anche da due lavoratori africani che si perpetua tre volte a settimana e che è riuscito anche a raccogliere i primi frutti. Ma che rappresenta, purtroppo, solo una goccia nel mare in un’emergenza lavorativa che si ripercuote anche sulla possibilità di affittare una normale abitazione. Fatta salva una consistente sacca di razzismo e diffidenza infatti, molti dei migranti non riescono ad affittare un alloggio decente proprio a causa della precarietà del loro lavoro. Nessuno (o quasi) è disposto ad affittare loro un casa vera e, di conseguenza, insediamenti abusivi e baraccopoli più o meno regolarizzate sono spuntate come funghi in tutti i comuni della Piana.
Nuova chiusura per San Ferdinando
Sorto qualche giorno dopo e a distanza di poche centinaia di metri dalla baraccopoli sgomberata dopo un blitz dell’ex ministro dell’interno Salvini, l’accampamento nato nel retroporto continua ad essere uno dei punti di riferimento per la forza lavoro africana che nelle stagioni della raccolta si concentra sul territorio da tutta Italia. Ufficialmente dismessa dall’estate del 2021 (ma ancora popolata da circa 500 persone che ci vivono in condizioni subumane), la tendopoli di San Ferdinando dovrebbe avere i giorni contati. Nelle settimane passate infatti il Prefetto di Reggio ha annunciato la futura chiusura del sito: chiusura che però resta condizionata all’intervento della Regione, che dovrebbe dare il via alla riconversione in foresteria di una delle tante strutture industriali abbandonate presenti in zona.
In seguito ad un vertice tra i sindaci di Gioia e San Ferdinando (Rosarno è guidata da una terna prefettizia in seguito all’arresto del sindaco Idà) e i funzionari regionali, la scelta è caduta sui capannoni dell’ex Opera Sila, lo stabilimento per la trasformazione delle olive da anni in rovina e già utilizzato dai lavoratori africani come rifugio improvvisato, prima dello scoppio della rivolta. L’area, di proprietà della Regione, necessita però di un radicale intervento di bonifica e trasformazione e i tempi di realizzazione del progetto non saranno brevi. Così, in attesa della riconversione dell’opificio regionale si naviga a vista, con progetti in corso d’opera che, per tamponare l’emergenza, ripropongono l’uso di moduli abitativi temporanei (leggi container) o si appoggiano a fondi di garanzia di matrice assistenzialistica che finora non hanno riscosso risultati apprezzabili.
Le case fantasma da tre milioni di euro
Sullo sfondo, rimangono le palazzine nuovissime costruite alla periferia di Rosarno grazie ai quasi 3 milioni di euro di fondi per l’emergenza migranti e ancora in attesa di assegnazione. Restano disabitate, in contrada Torricelle, ennesimo monumento incompiuto all’inefficienza amministrativa calabrese. Sostanzialmente completate da tre anni, le palazzine (4 padiglioni in tutto capaci di ospitare comodamente 250 persone) avrebbero bisogno degli ultimi lavori di rifinitura e del collettamento alla rete fognaria cittadina. Un progetto nato tra le polemiche e che sembra essersi smarrito a un passo dal traguardo, soffocato da vecchie e nuove baraccopoli.