Alla “nuova” tendopoli di San Ferdinando ci si arriva attraversando il deserto della seconda zona industriale, alle spalle del porto di Gioia. La presenza sempre più ingombrante di immondizia stanziale indica la vicinanza al nuovo ghetto. È sorto in risposta allo sgombro della vecchia baraccopoli.
Sul piazzale di quello che una volta era l’ingresso ufficiale del campo (e che ora è solo uno dei tanti varchi d’accesso all’area) i medici dell’Asp e i mediatori culturali sono in campo. Si occupano della somministrazione delle seconde dosi di vaccino per i “residenti”. Chi deve completare il percorso vaccinale, chi ha già contratto il covid durante la “zona rossa” e deve fare la prima dose, chi è in attesa del green pass che ancora non è arrivato. Tutti, più o meno, sono ordinatamente in fila davanti al campo che c’è ma che allo stesso tempo non esiste.
L’approccio emergenziale ha fallito
Una sorta di paradosso quantico-burocratico di stampo calabrese per cui – dopo l’inevitabile resa del sindaco di San Ferdinando e l’infinito rimpallarsi di responsabilità di Regione, Città metropolitana e ministero dell’Interno, che continuano ad approcciarsi al fenomeno solo sotto l’aspetto emergenziale – la tendopoli è, da mesi, in fase di smantellamento e quindi non riceve più servizi ufficiali (mensa, raccolta della spazzatura, controllo degli accessi e dei residenti, manutenzione) ma continua paradossalmente a essere accettata, anche se i problemi sono aumentati negli ultimi mesi, come residenza per gli stranieri “regolari” che la utilizzano per i loro documenti e che lì, in condizioni subumane, ci vivono.
Una bomba sociale pronta ad esplodere
Una sorta di non luogo che, come gli esempi che lo hanno preceduto, si sta trasformando nell’ennesima bomba sociale pronta ad esplodere. E come nella storiella del calabrone che vola pur non essendo adatto a farlo, la tendopoli che non esiste, continua ad attirare lavoratori migranti, con nuove tende che vengono allestite ai margini del campo e baracche di legno e cartone costruite dove capita.
Il ghetto
Il vecchio ingresso con badge di identificazione e telecamere è andato distrutto durante la sommossa scoppiata durante la prima fase della pandemia, in seguito all’istituzione della zona rossa che blindava all’interno tutti i migranti. Da quando le istituzioni hanno alzato bandiera bianca nessuno si occupa più di censire i residenti. Anche il presidio fisso di polizia è stato smantellato, con le volanti che nei giorni “normali” si limitano ad una ronda discreta. Con lo stop ai progetti (e quindi ai fondi ad essi legati) il campo vive in una sorta di autogestione traballante.
Restano i volontari di Emergency
Sono rimasti solo sindacato e associazioni di volontariato. Danno una mano e garantiscono una serie di servizi essenziali, dall’assistenza legale a quella sanitaria fino alle consulenze di carattere amministrativo. I medici del presidio di Emergency vengono sul posto due volte al giorno. Curano l’aspetto sanitario quotidiano. Ma i malati cronici vanno incontro a mille difficoltà.
«Amed ha un grosso problema cardiaco, finalmente dopo mille telefonate siamo riusciti ad ottenere una visita specialistica a Polistena. Lo portiamo noi, a spese nostre». Ferdinando e Fabio sono due volontari della Caritas, in passato inseriti in uno dei progetti di gestione del campo.
Quando i soldi sono finiti, non hanno smesso di occuparsi della tendopoli e nel nuovo ghetto alle porte di San Ferdinando, continuano a venirci almeno tre volte la settimana: «Ci occupiamo di aiutarli con i documenti, distribuiamo cibo e vestiti, ma è sempre più difficile, sono spariti quasi tutti».
Botte e morti non sono mancati
Attualmente nel campo ci sono circa 250 residenti, di una quindicina di nazionalità diverse. Le tensioni sono all’ordine del giorno e in passato numerosi sono stati gli episodi di violenza esplosi tra residenti, e i morti non sono mancati. Tutti uomini con età media attorno ai 30 anni, vivono in quello che resta delle tende piazzate dal Ministero. Ma i numeri sono destinati a crescere.
Tra un paio di settimane si aspetta la prima ondata dei raccoglitori di kiwi e quando anche la stagione delle clementine entrerà nel vivo, in quella sorta di universo parallelo che cresce alle spalle del porto, la popolazione potrebbe sfiorare le mille unità. E infatti, in ogni pezzettino di terra disponibile, spuntano nuove capanne improvvisate mentre in quelle vecchie si stendono i tappeti con funzione isolante. Ma escamotage e piccoli interventi non cambiano la sostanza delle cose e le condizioni di vita restano agghiaccianti.
La bottega dell’acqua calda
Inizialmente erano state predisposte delle centraline elettriche, ognuna in grado di garantire luce e riscaldamento per sei tende. Ma quando le cose hanno iniziato a precipitare nessuno ha più curato la manutenzione, cosa che ha favorito il moltiplicarsi degli allacci abusivi alle centraline superstiti che, a cascata, provoca continui blackout mandando a farsi strabenedire ogni proposito di sicurezza.
Stesso discorso per l’acqua. Quella calda ormai è un miraggio, tanto che tra le baracche di nuova costruzione ne è spuntata una in cui “lavora” Keità, un gigante del Senegal di poco meno di 30 anni. Ogni giorno si occupa di tenere acceso il fuoco sotto i bidoni colmi d’acqua messa a scaldarsi: la vende a secchi, 50 centesimi ciascuno. I migranti la usano per lavarsi dopo una giornata di lavoro.
Issa viene dal Gambia e ripara bici
La bottega dell’acqua calda non è però l’unica operativa all’interno della tendopoli. Issa viene dal Gambia e nella tendopoli ci vive da anni. In quella sgombrata prima e in questa che non esiste adesso. Ripara biciclette (la quasi totalità dei migranti africani si muove sulle bici, e in passato non sono mancati gli incidenti mortali lungo le strade che collegano le città del porto) «ma solo quando non mi faccio la giornata di raccolta delle arance, qui non si guadagna molto. In questo momento non siamo tanti e il lavoro di meccanico è ridotto, ma quando comincia la stagione della raccolta arrivo a riparare anche 15 bici al giorno».
Cronaca di un fallimento
Dai capannoni fatiscenti della Rognetta in cui covò la rivolta del 2010, alla baraccopoli dell’orrore costruita dietro il capannone sequestrato ai Pesce e sgombrata a favore di telecamera dall’allora ministro Salvini, fino alla nuova tendopoli, allestita 500 metri più in là della vecchia che, se ufficialmente risulta in via di smantellamento da mesi, brulica invece di umanità e si prepara ad accogliere la nuova ondata di stagionali: la storia dei ghetti per neri della piana di Rosarno racconta di un fallimento lungo più di 10 anni, con favelas più o meno autorizzate spuntate un po’ ovunque tra i casolari diroccati delle campagne e gli spiazzi abbandonati della semi deserta zona industriale alle spalle del porto.