«Il dato che risulta evidente è che la magistratura non è stata adeguatamente supportata per affrontare indagini così complesse sia per l’oggetto sia per l’estensione territoriale, trattandosi di traffici transazionali». Qualche anno fa, la Commissione Parlamentare sul Ciclo dei Rifiuti, presieduta da Gaetano Pecorella, arrivò a questa inquietante conclusione. Lo fece dopo mesi, anni, di indagini. Di acquisizioni documentali. Di audizioni. Tutto per provare a riaprire qualche file ormai archiviato sulle oscure vicende delle “navi dei veleni”. Che, come abbiamo visto, intrecciano i propri tragici destini con la Calabria. Ma anche con l’Africa. Rendendo tutto un grande, gigantesco, affare internazionale.
«Ragioni inconfessabili”
In queste vicende parlano più i morti dei vivi. Sul grande business di rifiuti e armi degli anni ’80 e ’90 tutti i diretti interessati o semplici sospettati, hanno sempre mantenuto riserbo o, nel migliore dei casi, vaghezza. Nomi che abbiamo imparato a conoscere. Da Giorgio Comerio a Giancarlo Marocchino. E, allora, parlano molto di più i morti. I giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, uccisi in Somalia. Ma anche il capitano della Marina Militare, Natale De Grazia. Morto in circostanze misteriose proprio mentre indagava su questi traffici. Dopo la sua morte, di fatto, non vi sarà più una vera, compiuta, inchiesta su queste vicende.
E la Commissione Ecomafie lo scrive chiaramente: «Ne è un esempio significativo l’indagine portata avanti dalla procura circondariale di Reggio Calabria, che poteva contare sull’apporto di un gruppo investigativo composto da pochi uomini, seppur qualificati [..] È ovvio che in un contesto siffatto un ruolo necessariamente predominante lo abbiano avuto i servizi di sicurezza. Si tratta del loro privilegiato campo d’azione, quello cioè in cui è necessario agire in modo determinato, e imbastire una fitta rete di relazioni funzionali ad avere consapevolezza degli accadimenti e quindi funzionale alla possibilità di interagire con essi. Sembra però che la dedotta “ignoranza ufficiale” dei servizi di sicurezza in ordine a vicende che di per sé appaiono come assai sospette: morte del Capitano De Grazia, spiaggiamento della motonave Jolly Rosso, debba necessariamente ascriversi o ad uno svolgimento di tale attività in modo non esauriente o negligente, ovvero a ragioni inconfessabili, non necessariamente illecite».
Doppi, tripli e quadrupli giochi
Sul ruolo dei Servizi ci siamo soffermati molto in queste settimane. Un ruolo tuttora mai chiarito. E che, proprio per questo, alimenta dubbi e scenari inquietanti su cui solo di rado si apre qualche squarcio di luce. C’è un percorso, una rotta, infatti, che lega Trapani a Reggio Calabria. C’è, soprattutto, un nome, quello di Aldo Anghessa, un uomo dei servizi segreti che partecipa, negli anni, a diverse operazioni di intelligence. Negli anni ’80, per ordine della procura di Massa Carrara, finisce anche in carcere. Sospettato di essere vicino al clan siciliano dei Minore. Un’ipotesi accusatoria mai verificata. E, quindi, nessun processo.
Il nome di Anghessa compare dunque a Trapani, ma anche a Reggio Calabria. Tutte faccende che risalgono proprio agli anni ’80. Commercio di armi nel filone siciliano, mentre in Calabria si sarebbe occupato di traffici di scorie radioattive. Secondo alcune fonti, le presunte compravendite di armi in cui sarebbe stato coinvolto Anghessa sarebbero le stesse scoperte dal giornalista Mauro Rostagno, ucciso dalla mafia il 26 settembre 1988 a causa di tanta curiosità.
La «lobby affaristico-criminale»
Agli atti della Commissione Ecomafie, vi sono anche le audizioni di alcuni dei membri del pool di cui Natale De Grazia era la punta di diamante. Uno di questi membri, un carabiniere, afferma che Anghessa sarebbe entrato in contatto con il pm titolare del fascicolo, Francesco Neri. Al magistrato avrebbe prospettato la possibilità di poter dare un contributo fondamentale alle investigazioni: «Anghessa, fece intendere – siamo nella prima fase – che era disponibile a segnalare a noi l’arrivo di una nave contenente rifiuti radioattivi. L’avrebbe fatto per gentilezza, come forma di confidenza. Era noto che Aldo Anghessa avesse praticato traffici simili, non in relazione ai rifiuti, ma alle armi».
Nel periodo della sua detenzione, Anghessa qualcosa la dice. Lo spione considerato vicino ai clan (ma mai condannato), parla dei traffici delle navi dei veleni che riguardano soprattutto la Calabria. Anghessa conferma diversi sospetti: «A partire dal 1987 è attiva in Italia una lobby affaristico-criminale che gestisce le seguenti attività: traffico di rifiuti tossico-nocivi e radioattivi, stupefacenti, armi, titoli di Stato falsificati e materiali strategici nucleari».
Inattendibile
Ma i riscontri bollano Anghessa come inattendibile. Un ciarlatano, insomma. Tempo dopo, però, lo stesso carabiniere racconta di essere stato protagonista di un episodio: «Un bel giorno, mentre mi stavo prendendo un caffè, si è presentato un signore che mi ha detto: “Io sono il collaboratore di Aldo Anghessa: volevo avere notizie”. Gli ho risposto che non lo conoscevo e che, se avesse voluto, era lui che avrebbe dovuto venire da me, che io non avevo niente da dirgli. Questo è il tentativo che hanno fatto per agganciarmi. La mia definizione che aveva mezzi e uomini a disposizione deriva da questo contatto che avevo ricevuto».
“Alfa Alfa”. Sarebbe stato questo il nome in codice di Aldo Anghessa nei Servizi: «In quella circostanza – dice ancora davanti alla Commissione Ecomafie – capii che c’era troppo movimento alle spalle di questo personaggio: nonostante gli arresti domiciliari uomini, telefoni, macchine a disposizione».
Ultimo atto: la Cunsky
Inattendibile Anghessa. Inattendibile, come abbiamo già visto, Francesco Fonti. Il “santista” della ‘ndrangheta della Locride che, fin quando parla di strutture criminali, di reati comuni e di ‘ndrangheta pura, viene creduto. Quando allarga il suo racconto alle “navi dei veleni” depotenzia, quasi automaticamente, la portata delle sue dichiarazioni.
Il colpo finale alla sua credibilità arriva dalla vicenda della nave Cunsky, affondata al largo di Cetraro. Fonti dichiarerà di aver affondato personalmente la nave, facendola colare a picco con un’esplosione di tritolo. Ma dopo una serie di indagini, curate, in particolare, dall’allora assessore regionale all’Ambiente, Silvio Greco, il ministro Stefania Prestigiacomo, unitamente al Procuratore Nazionale Antimafia, Piero Grasso, “chiuderanno il caso”. Tutti uniti nel dichiarare che il relitto investigato in quei mesi altro non era che un residuato bellico. Eppure alcune immagini sembravano chiare circa i fusti sospetti contenuti nella stiva.
L’ennesimo intreccio
Un destino comune. Il caso si chiude, proprio come quelli su cui indagava De Grazia. La Cunsky come la Rigel o la Jolly Rosso. Ma anche stavolta sono molti ad alimentare dubbi sulla bontà degli accertamenti svolti dal Ministero. Accertamenti che non coinciderebbero affatto con quelli dall’assessore Greco e dal procuratore di Paola, Bruno Giordano. Oggi deceduto. Ma in quel periodo tra i pochi a provare a mettere nuovamente a sistema i dati che si conoscevano sulle “navi dei veleni”. Non ci riuscirà. Il caso Cunsky verrà chiuso in fretta e furia. Lasciando molti dubbi.
Soprattutto sulle coordinate. Ritenute non corrispondenti. Il Governo, infatti, incaricherà l’armatore Pietro Attanasio, con la sua Nave Oceano, di effettuare i rilievi. Rilievi che smentiranno quelli disposti dalla Regione, riportando anche all’attenzione la presunta vicinanza di Attanasio al noto avvocato inglese David Mills. Noto perché coinvolto nel processo di corruzione in atti giudiziari in cui l’ex premier Silvio Berlusconi è stato “salvato” dalla prescrizione. Lo stesso Mills, peraltro, a detta di un rapporto di Greenpeace del 1997 sarebbe stato legato in rapporti d’affari con l’ingegner Giorgio Comerio.
L’ennesimo intreccio. Vero o reale. Ma che alimenta la coltre di sospetti. Che in queste vicende è ancora oggi più fitta che mai.