Per chi arriva in Calabria da nord, in treno o in auto sulla trafficatissima Statale 18, l’estate si annuncia con il paesaggio maestoso del Tirreno.
Le montagne precipitose e la costa alta e luminosa del golfo di Policastro, che si apre subito dopo Maratea e si allarga ad arco verso sud per 150 km fino a Capo Vaticano. Oggi questa è la geografia di una affollatissima striscia continua di marine, villette standardizzate, alberghi e villaggi turistici.
Tutto cresciuto a dismisura e incastrato tra le spiagge, la ferrovia e la statale lungo la costa tra Praia a Mare, Scalea, Diamante, Santa Maria del Cedro: la Riviera dei Cedri, questo dicono i depliant.
Ma i cedri dove sono?
Sì, ma i cedri? Si fa fatica a credere che tra queste zolle di cemento addossate alle spiagge congestionate riesca ancora a crescere qualcosa.Dove crescono i cedri? Dov’è la terra per coltivarli?
Poco sopra il caos delle marine, sopravvive un po’ della antica campagna assolata.
Una terra di muretti a secco e fiumare, un tempo costellata di ulivi, agrumeti e vigneti, di villaggi rurali e borghi aggrappati alle creste appenniniche.
Il paesaggio è bello e fragile, rotto in modo irreparabile dalla modernità distruttrice. Rimangono i paesini e le frazioni rurali della costiera più alta, spopolati e inariditi dall’abbandono e dagli incendi di stagione appiccati per far posto al pascolo e alla speculazione.
La bellezza tra il cemento
Da queste parti si costruiscono ancora seconde e terze case a frotte. Ma incredibilmente qui resta ancora qualcosa dell’antica bellezza, della natura benigna. E c’è quello che resta del retaggio di una storia e di una cultura insieme antica e modernissima.
A ben guardare qualcosa si è salvato e ancora dura. Anzi prospera, in pochi anfratti e fazzoletti di terra, irrorati da pochi rigagnoli e da qualche residua fiumara, come il Corvino, che scende al mare fino a Diamante.
I paesi del cedro
A Diamante, Buonvicino, Santa Maria del Cedro si coltivano i cedri. Proprio le cedriere, colture agrumicole specializzatissime, sono un ponte tra due mondi.
Già: qui, per qualche settimana all’anno, oltre al dialetto locale si parla l’ebraico.
Quasi tutta la produzione italiana del “Citrus Medica”, e dei suoi derivati (compresa la materia prima della celebre Cedrata Tassoni dei caroselli di Mina), si concentrava nei recessi più riparati di questa zona fino agli anni 60-70. Per la precisione, lungo il tratto di costa tirrenica che va da Santa Maria del Cedro sino a Cetraro.
La Riviera dei Cedri, appunto. Ma quest’area oggi significa turismo di massa, cemento spalmato ovunque, casino estivo.
Il cedro: in Calabria meglio che in Asia
Si ritiene che il cedro provenisse dall’India, e che da lì avesse raggiunto il Mediterraneo in seguito all’invasione della Persia di Alessandro il Grande (325 a.C.). Proprio in Calabria, l’agrume ha trovato un microclima stabile: sole tutto l’anno, acqua abbondante e terreni terrazzati dove crescere al riparo dei venti.
Ma c’è da dire che forse le piante di cedro hanno radici ancora più antiche, in Calabria. Infatti, la cultivar autoctona del “Cedro Diamante” corrisponde esattamente alle caratteristiche del frutto rituale degli ebrei, l’etrog. In questo caso, l’agrume deve essere di un verde puro, sodo, liscio e lustro.
Il cedro di Calabria a misura di ebrei
Il frutto deve essere spiccato dal ramo all’altezza del peduncolo, e deve provenire esclusivamente da piante allevate per talea. Al contrario, quelli cresciuti direttamente dalla terra, sarebbero considerati impuri.
Per gli ebrei ortodossi di tutto il mondo il cedro Diamante è lo stesso descritto nella Thora (Lev., XXIII – 39). L’etrog è il frutto “dell’albero più bello”, necessario agli israeliti – insieme alla palma, al mirto, al salice – per celebrare Sukkoth, la Festa dei Tabernacoli, la festa del raccolto e della gioia, secondo quanto Dio prescrisse a Mosè durante l’Esodo.
Una coltura antichissima
Nell’alto Tirreno cosentino la coltura del cedro risale alla presenza in zona di comunità ebraiche sin dai primi secoli dell’era cristiana.
Gli ebrei della diaspora tornarono periodicamente in Calabria nel corso del medioevo. Furono definitivamente cacciati, o costretti all’abiura e alla conversione, durante l’età di Filippo II. La loro espulsione definitiva risale al 1541.
Per questo i contadini calabresi che hanno ereditato il cedro agli ebrei, dedicano alla crescita delle piccole piante di agrumi lunghe cure e sacrifici quasi religiosi.
Come si produce
Nelle cedriere servono quattro anni di laboriose potature, a partire dalla talea, per portare il fragile fusto del cedro a fruttificare.
Si lavora solo a mano, tra le piante basse e profumate. Si sta carponi e si ripulisce periodicamente il terreno dalle zizzanie.
D’inverno le piante che soffrono il freddo trovano riparo dietro i cannicci. Una pianta di cedro, anche se bene accudita, vive al massimo 20 anni e ogni anno produce non più di 60-80 frutti.
Lo sforzo, tuttavia, è ripagato dal raccolto: il cedro di Diamante è il migliore del mondo e fa della sua rarità (non più di 6.000 quintali nelle annate migliori) e della qualità originaria un alto valore aggiunto. Coi suoi scarti e i derivati si preparano ancora oggi liquori, bibite e canditi artigianali di primissima scelta.
L’arte del candito
Anche la canditura tradizionale del cedro, divisa tra la macerazione in salamoia per due mesi nelle botti di gelso e la successiva canditura delle scorze asciutte con sciroppo di zucchero, si svolge ancora secondo le regole d’arte ebraiche. Questa lavorazione è detta “messinese” o “livornese”.
Fino agli anni ‘70 il prodotto locale dopo il raccolto veniva commercializzato solo da pochi incettatori e grossisti. Nelle tasche dei produttori locali restava ben poco.
Gli anni del boom: meglio che in Israele
Poi dopo gli anni ’70, con la rinascita di Israele, la produzione calabrese di cedro fu “riscoperta” dalle comunità di ebrei ortodossi di tutto il mondo, che abbandonarono la qualità più scadente e commerciale del cedro di Portorico, coltivato intensivamente anche in California con abbondante uso di pesticidi.
E c’è da dire che neppure in Israele riescono a ottenere un prodotto di qualità così elevata.
Negli ultimi anni in questa zona la coltivazione del cedro rituale ha stimolato un commercio “transculturale” che in tempi di globalizzazione selvaggia e di turismo aggressivo è un esempio di economia sostenibile. Ciò accade quando, assieme ai prodotti, si scambiano anche valori e tradizioni di culture differenti e complementari.
Culture a confronto
Le ricadute economiche e antropologiche di questo fenomeno sono curiose ed evidenti. Tra luglio e agosto la Riviera dei cedri sembra un pezzo del quartiere Lubavitch trapiantato nel caos strombazzante delle vacanze all’italiana di Diamante e Santa Maria del Cedro.
Arrivano i rabbini ortodossi. Sono i Rodal, i Lazar, i Peres, i Maghyar, i Levy, gli Havinery, i Basherijevitch di Amburgo, Londra, Odessa, New York, Tel Aviv, Buenos Aires. Barbe lunghe, cappelli a falda, peyot (i lunghi riccioloni che cadono dalle tempie) e soprabiti neri, nonostante il caldo.
I volti sembrano usciti da una galleria di ritratti di Robert Visnjach, facce da Khassidim e da kibbutzim. Arrivano qui per acquistare e controllare di persona la raccolta dei piccoli cedri che sono indispensabili agli ebrei ortodossi per celebrare degnamente Sukkoth, che cade a settembre.
I rabbini nelle cedriere
I rabbini vanno nelle cedriere al mattino presto assieme ai contadini. Cominciano a lavorare all’alba in religioso silenzio.
Il sacerdote va avanti lentamente e con cura scrupolosa ispeziona le piante una per una. Anche gli attrezzi devono essere puri.
Il coltivatore lo segue con in mano una forbice da potatura, che servirà solo per quello scopo, e una cassetta di legno foderata di paglia. Ci si intende senza parlare.
Il sacerdote si ferma a guardare i frutti da vicino, uno per volta. Ispeziona anche il tronco del l’alberello: il fusto deve essere sempre dritto e liscio, privo di segni e di insetti. Se li avesse, la pianta sarebbe impura e i frutti inservibili.
Passato l’esame del fusto si possono raccogliere i cedri tra i rami bassi e le lunghe spine lanceolate. I frutti sono selezionati rigorosamente: non ci possono essere scarti. A questo punto il rabbino si sdraia per terra e guarda i frutti dal basso, scrutandoli tra le foglie senza mai toccarli prima della valutazione definitiva.
Se infine decide di coglierli li indica al contadino, che li spicca con la forbice.
Poi, più da vicino ma senza mai toccare il frutto, esamina ancora la buccia liscia e verde: la forma deve risultare perfettamente ovoidale a imitazione del cuore.
Dopo la scelta
Solo dopo questo vaglio, il piccolo agrume – non più di 300 grammi, il peso di un cuore umano – è avvolto nella stoppa ed è riposto nella cassetta di legno. Il coltivatore per ogni cedro buono scelto dal rabbino otterrà la somma stabilita.
Il prezzo è sempre alto, perché dal rischio stagionale dipende anche la qualità e la quantità del prodotto scelto dai rabbini.
Ci si saluta contenti con un arrivederci. Con la lunga consuetudine e la fiducia, si diventa amici.
Infatti, molti rabbini dopo anni portano anche le famiglie in vacanza qui. Tra queste famiglie ebraiche e i coltivatori della Riviera dei cedri si è formato una sorta di intenso comparaggio interculturale.
Fine del raccolto
Quando la raccolta si è conclusa le cassette contenenti i cedri avvolti nella paglia e sigillati uno per uno da un coperchio prendono immediatamente la strada dell’aeroporto di Lamezia.
Quindi i jet riportano a casa i rabbini e, nelle stive, le cassette di legno con i piccoli cedri.
Gli agrumi dorati si risveglieranno solo un mese dopo, ancora lustri e profumati. E brilleranno per la festa degli ebrei della diaspora, forse già nel freddo di un altro continente, in una metropoli lontana.
Qui restano gli alberelli, assediati dal cemento, tra gli abusi e i condoni edilizi mentre il traffico dell’estate scorre indifferente sulla vena pulsante della Statale.
A noi resta un mondo che non sa più riconoscere la sacralità della natura e i frutti più antichi del lavoro dell’uomo.