Nel marzo del 1996 l’Italia ha approvato, anche su iniziativa di Libera, la legge 109 sul riutilizzo dei beni confiscati alla criminalità organizzata. Sono passati 15 anni nel corso dei quali il colpo forse più doloroso inferto alle mafie lo ha rappresentato non solo la confisca di beni, ma la loro restituzione alla collettività attraverso l’assegnazione a cooperative o realtà sociali del terzo settore. Un cammino lungo, incerto, non privo di pericoli, ma che ha dato frutti importanti. Nel report di Libera – aggiornato al 25 Febbraio – si legge che la Calabria è la seconda regione con il maggior numero di realtà sociali coinvolte in questo percorso.

I problemi dell’Agenzia
Tuttavia non tutto è andato bene a causa anche delle macchinose procedure e della debolezza dell’Agenzia dei beni confiscati, che avrebbe necessità di maggiori risorse umane e finanziarie.
A confermare questa debolezza, il fatto che in tutta Italia sono meno di duecento le persone che lavorano attorno a questi temi e in Calabria solo 15, chiaramente poche rispetto all’impegno necessario.
Il lavoro dell’Agenzia consiste nel mappare i beni che la magistratura confisca alle mafie e successivamente affidarli ai Comuni. Un viaggio pieno di insidie, che ha conosciuto anche qualche passo falso, come la storia dell’Hotel Sibarys di Cassano. La struttura era stata confiscata nel 2007 e l’Agenzia l’aveva inclusa tra gli immobili disponibili per il riuso, ma nel 2019 la Corte d’Appello di Catanzaro ne ha ordinato il dissequestro e la restituzione definitiva alla famiglia Costa.
I beni restano dello Stato e per le attività è un guaio
Una decisione che ha lasciato l’amaro in bocca a chi progettava di acquisire il bene. «Quella è stata una mazzata sul piano psicologico e della comunicazione, perché si pensa che un bene confiscato non possa tornare indietro», racconta Umberto Ferrari, emiliano da vent’anni in Calabria, responsabile di Libera e uno dei protagonisti della cooperativa Terre ioniche, che gestisce i beni sequestrati agli Arena.
Se ottenere un bene tolto alla ‘ndrangheta non è facile, affrontare la durezza del mercato può esserlo anche di più.
«Queste realtà – spiega Ferrari – hanno più difficoltà di altri, perché l’impresa non è proprietaria dei beni che gestisce, che restano dello Stato e quindi non ha capitale». Questo si traduce nell’impossibilità di fornire garanzie per avere mutui bancari e fare i conti con la carenza di liquidità. A soccorrere le imprese sociali impegnate ci sono la rete Libera terre e il consorzio Macramè che sostengono la commercializzazione delle merci prodotte dal lavoro dei vari soci.

I numeri del fenomeno
Le aziende maggiormente presenti in Calabria sono quelle agricole, ma oltre alle terre ci sono gli immobili, che rappresentano di gran lunga la maggior parte dei beni confiscati. Secondo i dati di Libera in Calabria sono 2908, di cui poco più di 1800 consegnati agli enti (Comuni, Province e Regione) che dovrebbero a loro volta assegnarli a quanti ne fanno domanda. Dalle mappe realizzate dal dossier di Libera aggiornato al 2021, sono circa 800 le associazioni concretamente assegnatarie di immobili. Pertanto risulta che la gran parte è rimasta nelle mani delle amministrazioni che non ne dispongono l’uso. «Con gli immobili è difficile fare impresa – spiega ancora Ferrari – e per lo più li utilizzano associazioni che si occupano di servizi sociali».

I Comuni fanno poco
Tuttavia qui emerge l’altra falla nella normativa e cioè che «troppi beni restano in capo alle amministrazioni comunali e la stragrande maggioranza non ne fa nulla, lasciandoli nell’abbandono», dice ancora Ferrari. È vero che ultimamente alcuni Comuni hanno destinato qualche immobile alle emergenze abitative. In questi giorni alcune amministrazioni propongono di mettere immobili sequestrati a disposizione dei profughi che stanno fuggendo dalla tragedia della guerra in Ucraina.
Il problema è che la disponibilità è limitata solo a quegli appartamenti davvero abitabili, mentre la gran parte è vandalizzata, anche perché prima di mollare il bene, i vecchi proprietari lo devastano. L’Agenzia da parte sua solo da due anni cerca di effettuare un monitoraggio su come si utilizzano i beni confiscati e chiede ai Comuni un resoconto rigoroso, che tuttavia non sempre giunge puntuale.

Il caso Bentivoglio: vittima di mafia a rischio sfratto
Chi conosce bene sulla sua pelle la fatica di avere in gestione un immobile strappato alla criminalità è Tiberio Bentivoglio, vittima di mafia e imprenditore reggino.
«Quando con l’architetto Rosa Quattrone siamo entrati nei locali che poi sono diventati la sede della mia attività, ci siamo messi le mani nei capelli», racconta l’imprenditore, che ha subìto attentati anche durante i lavori di ristrutturazione, costati oltre 80mila euro. Bentivoglio è impegnato nel tentativo di migliorare la legge, chiedendo di fornire sostegno economico a quanti prendono in gestione un bene confiscato, «perché senza una agevolazione finanziaria tutto è più difficile».
Il bene che ospita l’attività della sua famiglia è stato assegnato al Comune di Reggio, cui Bentivoglio paga un fitto, ma non potendo fare fronte alle spese il Comune l’ha dichiarato moroso e ora si attende l’ufficiale giudiziario. «Io sono la sola vittima di mafia in Italia ad usare un bene confiscato – racconta Bentivoglio – e ho scritto al sindaco Falcomatà che non ce la faccio a sostenere le spese. Quindi, se vuole, mi deve cacciare». È ben difficile che l’ente proceda in tal senso, salvo non voler incorrere in danno d’immagine, ma la situazione è particolarmente difficile.
I sospetti del vescovo Savino
«In Calabria accedere ai beni confiscati alla ‘ndrangheta comporta un surplus di impegno» dice accorato il vescovo Francesco Savino, che guida la Diocesi di Cassano allo Jonio. Lunga militanza dentro Libera, vecchia amicizia con don Ciotti, protagonista di un impegno contro le mafie, Savino non esita a indicare tra i problemi con cui fare i conti la «lentezza, quasi l’accidia calabrese e soprattutto una classe politica e burocratica non all’altezza delle opportunità».
Non manca nelle sue parole il riferimento a una vecchia affermazione di Gratteri, che chiamava in causa «l’indissolubile matrimonio tra mafie e massonerie deviate» e alla possibilità che tra le cooperative che acquisiscono i beni ci siano anche prestanomi, «cosa che io non posso documentare ma in questa terra manca la libertà e in questo caso il sospetto rischia di essere molto vicino alla verità».
