La dea Iride amerebbe come proprie creature le meraviglie variopinte che accolgono i visitatori. Da lei prendono il nome le iris (viola, gialle, rosa, ciclamino) che costeggiano il viale d’ingresso dell’Orto botanico dell’Università della Calabria, l’unico (riconosciuto) della regione. La fioritura a maggio è nel suo pieno, ma il caldo fuori stagione rende i petali già un poco vizzi, quasi a chiedere alla dea dell’arcobaleno di gonfiare di pioggia le nuvole. L’Orto botanico è uno scrigno che racchiude bellezza (in superficie), biodiversità, sapere scientifico, cultura del territorio (a un livello più profondo). È, anche, un laboratorio a cielo aperto, in cui le piante alimentano l’attività di ricerca e l’osservazione può portare a scoperte sorprendenti.
L’orto botanico e la tutela della biodiversità
«L’Orto botanico è stato fondato nel 1981 per conservare la biodiversità, tutta l’attività di ricerca e divulgazione è orientata in questo senso», spiega Nicodemo Passalacqua. Botanico, è referente scientifico della struttura che da fine 2021 rientra nel Sistema museale universitario, come parte del Museo di storia naturale della Calabria (Musnob). La missione è quella di tramandare alle generazioni future la vita vegetale e animale delle colline di Arcavacata di Rende, a due passi da Cosenza, in cui habitat poco modificati dagli umani convivono con terreni un tempo coltivati. «Qui sono state messe a dimora piante autoctone, spesso a rischio, per far conoscere ai calabresi le varietà del territorio». Ma ci sono anche specie provenienti da altri territori, alcune anche esotiche.
Zona speciale di conservazione
Va bene la conoscenza, ma tutelare la biodiversità è necessario. Perderla significa contribuire all’insicurezza alimentare ed energetica, aumentare la vulnerabilità ai disastri naturali, diminuire il livello di salute della popolazione, ridurre la disponibilità e la qualità delle risorse idriche e impoverire le tradizioni culturali. L’Orto botanico, tra l’altro, è considerato zona speciale di conservazione dall’Unione europea, per la presenza di una pianta primitiva, la calamaria (Isoetes) e di due insetti, la falena euplagia, che abita tra gli arbusti ai margini del bosco e il cerambice della quercia (Cerambyx cerdo), un coleottero che vive nel legno morto.
Il fungo sconosciuto
La biodiversità si declina anche nelle circa trecento specie di funghi che qui sono state osservate. Tra queste, un piccolo fungo sconosciuto al mondo, lo Psathyrella cladii mariscii (dal nome botanico della pianta palustre alla cui base è spuntato). Il falasco (Cladium mariscus) era stato prelevato dalle rive del lago dell’Aquila, vicino Rosarno, e piantato vicino all’ingresso principale dell’Orto, tra un roseto e la vasca con le ninfee. Alcuni anni dopo, alla base dei fusti della pianta è spuntato il piccolo fungo con cappello marroncino, mai descritto e classificato fino a quel momento. La rivista scientifica MykoKeys ha pubblicato la scoperta nel 2019.
Le piante a rischio custodite nell’orto botanico
Il viale delle iris costeggia l’orto degli ulivi, con gli alberi da frutto, anche esotici, come il giuggiolo e il melograno, e il giardino roccioso mediterraneo, con le sue colorate varietà di valeriana. Peccato per i tabelloni usurati dal tempo e dalle intemperie, resi quasi illeggibili. Più in là c’è una delle piante più minacciate d’Italia, la Zelkova sicula. «In Sicilia ci sono solo un centinaio di individui, un singolo evento accidentale, come una frana o un incendio, – spiega Passalacqua – può provocarne l’estinzione. Così l’hanno riprodotta e mandata agli orti botanici per la conservazione ex situ». Nell’orto delle cerze (dal nome dialettale delle querce) c’è invece una quercia a rischio di estinzione in Calabria, la farnia (nome botanico Quercus robur). «Si trovava alla foce del Crati e del Neto e stava con le radici sempre nell’acqua. Ora questi habitat hanno subito molte trasformazioni».
L’arboreto della Calabria
Le farnie si trovano nella parte più recente dell’Orto botanico dell’Unical, l’arboreto della Calabria, che custodisce, insieme alla biodiversità, anche la cultura del luogo. «Le specie arboree costituiscono il paesaggio e il paesaggio è un aspetto culturale». Oltre alle querce, ci sono aceri, carpini, frassini, carrubi, sorbi. Accanto al laghetto artificiale, già a secco in questo anticipo d’estate, si stende il viale dei gelsi, le cui foglie si usavano per nutrire il baco da seta, il cosiddetto bombice da gelso. In Calabria la gelsicoltura ebbe la sua massima espansione nel XV secolo fino agli inizi del XX. Poi una grave malattia colpì gli allevamenti dei bachi. All’estremità del viale dei gelsi si trova la cibia, una vasca che un tempo i contadini creavano per avere a disposizione l’acqua per innaffiare l’orto. La superficie è completamente ricoperta dalla lenticchia d’acqua, una pianta che dà al liquido un aspetto vetroso. All’interno della cibia dimora il tritone, un piccolo anfibio a rischio estinzione.
La ricerca sul corbezzolo
Più in alto, nel bosco della collina di Monaci, uno dei tre boschi custoditi dall’Orto, si trovano i corbezzoli (Arbutus unedo). I suoi frutti rossi e commestibili e le foglie sono state oggetto di uno studio che ha condotto il dipartimento di Farmacia per verificare l’attività antiossidante e inibitoria di due enzimi (alfamilasi e alfaglucosidasi) per il trattamento del diabete di tipo 2. I risultati sono stati buoni e sono stati pubblicati nel 2020 sulla rivista scientifica Antioxidants. Si tratta di studi in vitro, però, solo un primo step. Per proseguire lo studio ed effettuare le sperimentazioni sugli animali servono risorse ma anche l’interesse.
Servono più risorse per l’orto botanico
Più risorse ci vorrebbero anche per la manutenzione dell’Orto botanico. «Uno di queste dimensioni, oltre otto ettari, avrebbe bisogno di 15 giardinieri, noi ne abbiamo solo due», aggiunge Passalacqua. Di questi, Antonio De Giuseppe è giardiniere dell’Orto dei Bruzi da vent’anni, lo conosce come le sue tasche. Il suo lavoro gli permette di osservare come il clima sia cambiato negli ultimi tempi. «Ora le piante hanno bisogno di molta più acqua, persino l’ulivo soffre il troppo caldo. Sono aumentate anche le malattie delle piante. In particolare, si sta sviluppando la cocciniglia, un parassita che un tempo veniva distrutto dal freddo invernale».
L’arte del bonsai
De Giuseppe è anche istruttore nazionale di bonsai e ne realizza utilizzando piante calabresi: pini, ginepri, ulivi, mirti. «Noi bonsaisti recuperiamo piante rotte o morenti, cercando di imitare gli stili che esistono in natura». Ha fondato un’associazione, Shibumi, che promuove l’arte giapponese della coltivazione di alberi in vaso e svolge attività di educazione ambientale, in convenzione con l’Orto botanico. Ogni tanto l’associazione organizza eventi, esposizioni. Occasioni, anche, per stare insieme e condividere l’amore per la natura.
Il fiore che sa di cadavere
E la natura sa essere sorprendente e straordinariamente complessa. Come nella dragontea o erba serpentona (Dracunculus vulgaris Schott), una pianta bellissima eppure velenosa che cresce nel bacino del Mediterraneo. Nell’Orto botanico si trova vicino una le due piccole serre, tra il bosco della sorgente e quello dell’amore. Si chiama così perché un tempo, quando l’Orto non era recintato, gli studenti andavano lì ad appartarsi. La dragontea ha un fiore incantevole eppure disgustoso, per il suo odore di carne in putrefazione. Tant’è che attira moltissimo le mosche. Queste entrano nel fiore e rimangono imprigionate da due corone di peli, imbrattandosi di polline. Una volta uscite, saranno le mosche a impollinare i fiori femminili. La vita ricomincia anche così.
Simona Negrelli