Maoisti su Paola: Bellocchio e la Calabria del ’69

Dopo il successo all'esordio sul grande schermo con I pugni in tasca, il regista si trasferì sul Tirreno cosentino con Lou Castel per documentare le lotte di "Servire il popolo", movimento comunista che sognava di portare la rivoluzione cinese nel profondo Sud dominato dalla DC. Ne nacque un film semidimenticato che ci mostra una miseria lontana anni luce dal Boom economico che interessava il resto del Paese

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Non si sono ancora spente le polemiche per Marco Bellocchio, autore della dibattuta serie Tv Esterno notte che ha toccato un nervo scoperto della recente storia d’Italia come il “caso Moro”. Bellocchio, originale e sempre controverso cineasta, oggi è per tutti l’autore della pellicola sull’oscuro rapimento e la morte di Moro, ribadito nella sequela ipnotica e spiazzante della recente serie TV.

Quasi nessuno, invece, ricorda un suo lontano film politico, documento dal vero su povertà e sottosviluppo del “popolo meridionale”.
Eppure si tratta di un film di Bellocchio appena consecutivo al suo esordio di successo nel grande cinema, che riporta alla vicenda giovanile del cineasta e ad un periodo – mai rinnegato – di impegno politico militante e fortemente ideologizzato, in cui egli incontrava la realtà marginale del Sud e della Calabria, a Paola.

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Fabrizio Gifuni interpreta Aldo Moro nella serie tv “Esterno notte”

Bellocchio e la rivoluzione

Accadde quando Bellocchio era già al suo terzo film, dopo gli anni da studente del Centro Sperimentale di Cinematografia. In questo film-documento girato in Calabria, a Paola e a Cetraro, con mezzi di fortuna, emergono l’impegno politico e la vena sociale di Bellocchio. Da militante rivoluzionario maoista, racconta con il suo occhio di cineasta e in presa diretta, il Sud arretrato e povero e le lotte per l’occupazione delle case popolari nella Calabria di fine anni ‘60.  Il lungometraggio Paola, il popolo calabrese ha rialzato la testa, girato nel 1969, arriva quattro anni dopo I pugni in tasca e appena due anni dopo La Cina è vicina del 1967.

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La proiezione di un film durante una delle ultime edizioni del Locarno Film Festival

Il lungometraggio fu ideato e realizzato con le finalità di un prodotto di propaganda e di azione della “Associazione Marxisti Leninisti Italiani”, meglio conosciuta come Servire il popolo. Dopo un lungo  periodo passato nel dimenticatoio, la pellicola è stata ripresentato per la prima volta al Festival di Locarno del 1998, all’interno di una retrospettiva dedicata al cinema di Bellocchio. La fine del Sessantotto vide Bellocchio impegnato in prima persona nel movimento di estrema sinistra della Unione dei Comunisti Italiani (marxisti-leninisti). Testimonianza di questo periodo di militanza rivoluzionaria fu la sua diretta partecipazione nel 1969 alle azioni per l’occupazione di case popolari organizzata dai militanti di Servire il Popolo, che in quegli anni aveva una sua forte base politica e organizzativa proprio nella cittadina calabrese. 

Un manifesto politico con lo stile di sempre

Anche in questa pellicola “meridionalista” con un’impronta da manifesto politico, pesantemente forzata da vincoli ideologici, si intravedono nel suo linguaggio scarno e minimalista, nel girato di un livido e scialbo bianco e nero, le tracce di quello stile filmico e narrativo che renderà sempre riconoscibile la cifra tematica e compositiva del cinema di Bellocchio: l’attenzione insistita per i temi della famiglia, gli spazi chiusi della casa in cui regna il disagio e la miseria morale e sentimentale, l’ombra e la malattia, l’uso della camera che indaga come un occhio acceso che sembra frugare tra le pieghe i volti per scorgervi i segni del tempo e della storia, un linguaggio spesso divagante, astratto, avvitato su sé stesso, e soprattutto l’accamparsi dei corpi nella precarietà dell’esistenza, che riempie l’inquadratura del suo enigma.

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Una scena de “Il popolo calabrese ha rialzato la testa” di Marco Bellocchio (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)

Anche Lou Castel con Bellocchio a Paola

La pellicola maoista girata da Bellocchio in mezzo ai miseri sottoproletari calabresi e tra i tuguri del rione “Motta” di Paola, ben oltra la retorica ideologica e la verbosità che la pervade, è piana zeppa di questi segni e di questo e del suo modo di raccontare per immagini. Non è infatti un caso che a seguire Bellocchio anche in questa sua immersione politica e nella vicenda rivoluzionaria della frazione maoista che ebbe vita nella realtà calabrese, fu, in primo luogo, quello in quegli anni divenne l’alter ego cinematografico di Bellocchio, l’attore svedese Lou Castel, l’indimenticabile Ale de I pugni in tasca.

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Lou Castel e Paola Pitagora ne I pugni in tasca

Castel, di fatto, di quel film divenne insieme a Bellocchio, il finanziatore. E in quel periodo di impegno di lotta e frequentazione politica della realtà calabrese, divenne anch’egli un volto noto per le stradine del paese, dove era arrivato la prima volta da Roma a bordo della sua Mini Morris scassata.

I pedinamenti dei carabinieri

Anche Lou Castel nel 1969, tra i fuoriusciti dal Movimento studentesco, aderisce convintamente alla formazione maoista di Servire il popolo. «Sono stato militante per dieci anni, questo resta il mio orgoglio», ha dichiarato di recente. Spintosi anche lui sino a Paola per cercare di sovvertire con la rivoluzione marxista-leninista la Democrazia (Cristiana, che quella sì in quegli anni a Paola comandava tutto), dalla sua partecipazione ai moti maoisti di Paola partì una parabola che porterà poi alla sua espulsione.

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Un agente della municipale precede il corteo maoista tra i vicoli di Paola (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)

Castel fu dichiarato indesiderabile e messo su un aereo per Stoccolma, lontano dall’Italia. Il duo Castel-Bellocchio a Paola era sempre pedinato dai carabinieri, che ne seguivano ogni movimento, sin dalla partenza da Roma. Castel all’arrivo veniva fotografato nel sottopassaggio ferroviario della stazione di Paola e seguito negli spostamenti di Cosenza, Cetraro e San Giovanni in Fiore, che pure in quegli anni furono mete di sortite maoiste.

Un’occupazione in 100 minuti

Per me che ero ragazzino negli anni in cui questo accadeva nel mio paese (sono nato a Paola e lì, in quegli stessi luoghi e tra quelle persone, ho vissuto i mei anni più giovani), quella stagione rappresenta i ricordi di una realtà umanamente complessa, fonte di incontri e di conoscenze successive, e di un insieme di riflessioni politiche e sociali che non hanno smesso ancora, a distanza di anni, di interrogarmi e di farmi problema. 

Il popolo calabrese ha rialzato la testa” di Bellocchio è in fondo la storia in 100 minuti, esemplarmente triste ed esaltante, di un’occupazione di case organizzata e guidata da un gruppetto di militanti dell’allora “partito maoista”, una formazione politica rivoluzionaria che ebbe in quegli anni forti basi organizzative e individualità costitutive del movimento in questa piccola città calabrese.

Triste perché negli occhi della gente poverissima filmata da Bellocchio rivedo più che la comprensione delle ragioni di una lotta, lo stigma di una sfiducia atavica, un fatalismo disperato, una scarsa o nulla coscienza politica, piccoli compiacimenti regressivi, piccoli e supplicanti infingimenti tattici, la necessità di affidarsi all’avucatu del popolo, colui che sa, il tribuno autoproclamato che si incarica per loro di rappresentarne le ragioni e di fare di quei disperati uno strumento attivo “per la rivoluzione proletaria”.

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Compagni e compagne di ogni età discutono della rivoluzione in un salottino di Paola. Mao osserva dalla parete (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)

Ma, detto questo: in quelle condizioni poteva andare diversamente? Ciò che a distanza di tempo mi colpisce di più nelle immagini tramandate dal film calabrese di Bellocchio, è l’entità del cambiamento, la metemorfosi pasoliniana, che, comunque, dopo, è avvenuta. Senza però davvero liberare il “popolo” da altre, più nuove e persino più insidiose sottomissioni e miserie.

Paola, 1969

C’erano in quelle immagini e tutto intorno a quel mondo i segni di una povertà disperata e assoluta: bambini immersi nel fango, vecchi marcescenti, stradine da terzo mondo, l’ospedale cittadino già in rovina prima di essere inaugurato, una catasta di catapecchie in cima al paese vecchio. I vecchi quartieri medievali della Port’a Macchia e del Rione Motta, intorno al castello, dove abitava pure mia nonna e dove anch’io sono cresciuto quando stavo con lei. Recessi marginali che erano buche spaventose, tuguri invivibili.

Io la gente di quel film di Bellocchio sulle lotte per la casa a Paola la conoscevo bene. Ero tra loro, bambino, proprio lì dove fu girato. Forse sono uno di quegli scugnizzi che in un contropiano compaiono anonimi in mezzo alle scene del girato per strada, sulla Motta, tra gli altri bambini che giocano ad aggrapparsi alla rete di ferro sopra il cavalcavia della nuova statale.

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1969, l’ospedale non ancora inaugurato e già circondato dalle erbacce ne “Il popolo calabrese ha rialzato la testa” di Marco Bellocchio (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)

Il Boom si è fermato ad Eboli

Erano già gli anni del Boom. Ma quasi non si riesce a credere che gli abitanti, i cittadini più poveri e abbandonati di un paese, i proletari e i sottoproletari di quella Paola del 1969, italiani del sud, possano aver vissuto in quelle condizioni mentre altrove e al nord si viveva già, chi più chi meno, in condizioni più dignitose. Ci viene presentata in quel film una realtà durissima, che non ci pare vera, e che adesso risuona così lontana. E invece era verissima, disperata, disperatissima e persino allegra nella sua indecente, scandalosa e misera normalità.
Oggi al Sud e in Calabria, anche i paesi sono un’altra cosa, quando va bene e non sono del tutto spolpati dall’emigrazione e dall’abbandono. Oggi posti così li chiamiamo “borghi”, e i vecchi paesi del Sud li candidiamo a mete turistiche, a rappresentare i cosiddetti “marcatori identitari”.

Il sogno della rivoluzione? Una guerra tra poveri

Certo, anche a Paola nel frattempo qualcosa del vecchio centro storico e del cuore antico del paese è stato risanato, ma non per effetto della rivoluzione maoista o per mano pubblica. E persino qualcuna di quelle vecchie catapecchie malsane della Motta, ora restaurata, è stata trasformata in graziosi B&B per turisti. Nel 1969, a chi ci abitava “a forza” pur d’avere un tetto e un ricovero per le famiglie numerose e poverissime (e spesso in qualche casupola ci si contendeva lo spazio col maiale o col ciuccio), i maoisti di quel film proponevano di abbattere con la società borghese anche quel residuo fatiscente di storia millenaria e di occupare le “case nuove”, le case popolari, destinate altrimenti “ai borghesi, ai servi dei capitalisti”, ovvero impiegati e dipendenti statali: altri poveri.

Il sogno della rivoluzione maoista in fondo era tutto lì, in quella rivendicativa e accanita pretesa di metamorfosi pauperistica. Le palazzine IACP appena costruite sul bordo anonimo della Statale 18, non ancora finita. Le case del paese vecchio da buttare giù, contro le case nuove, anguste, brutte e squatrate, ugualmente prive di servizi e dignità sociale, da destinare a un popolo di disoccupati e lavoratori sottoproletari. Era quello il sogno della “rivoluzione maoista”: la casa popolare. Il Sud ribelle trasformato tutto in una Matera di palazzine popolari e senza più i Sassi.  

I poveri e l’avvocato del popolo

La cosa che forse resta cinematograficamente più vera di questo film calabrese di Bellocchio, è invece l’uso potente, politico, del montaggio. Un montaggio essenziale, mimetico. Povero, povero come la gente che abitava quei tuguri e quelle stanze senza mobilia vicino al castello. I pezzi di girato sono messi lì in sequenza per esteso, l’inquadratura è fissa e sosta, uno ad uno, su tutti quei volti abbattuti. La scena si riempie dei corpi smunti e sofferenti, istupiditi dalla presenza della camera, agiti da pochi gesti ripetuti, dalle parole che escono come un bolo indigerito dalle loro bocche, lamentele e ridomandate articolate a fatica in un dialetto appesantito da inflessioni ormai inaudite – quando tutto era ancora pre-televisivo.

Il popolo che parla smozzica una lingua dolente e torbida, che si incide sull’audio delle pellicola come un anatema inascoltato. Credo siano questi, non gli slogan, le improvvisate “guardie rosse” o le “marce rosse” paesane, non lo spesso e fastidioso strato retorico, fitto di frasi fatte e invettive politiche, la consegna più toccante del film.

Invece fanno spessore allo scheletro minimalista della narrativa di Bellocchio, proprio i momenti in cui c’è il voice over dell’avvocato del popolo, l’intellettuale-commissario che deve mimare la voce anonima di partito, e incarnare l’esigenza dura di spersonalizzazione che richiede la lotta antiborghese, a cui si ispiravano quei militanti di Servire il popolo paolano. Un frasario ruvido e privo di echi sentimentali, sempre in bilico tra demagogia e schematismo: «Gli operai fanno tutto, ma non hanno nulla». L’imperativo rivoluzionario prevaleva sul ragionamento politico, sempre schematico, dogmatico, goffo.

Nel film si assiste da spettatori alla preparazione della manifestazione generale, il clou della lotta, la scena finale, nella sala pubblica, tutta piena dei codici tipici delle riunioni politiche rivoluzionarie, che sembrano riproporre con in scena le plebi irredente del Sud, un parallelo con La Cina è vicina. Un finale illusoriamente trionfale e speranzoso, col corteo che parte dai vecchi quartieri poveri alla volta di quelli più ricchi, il paese dei borghesi. La gente dei quartieri poveri scende per le strade a manifestare e ritorna vittoriosa.

Non solo Bellocchio: maoisti e celebrità

Lo stesso Marco Bellocchio, che immortalò quelle vicende di lotta per la casa e l’ospedale, ad un certo punto prende la parola (o era invece il leader Aldo Brandirali, secondo quanto ricorda qualcun altro dei testimoni dell’epoca) in mezzo a un affollato comizio finale nello sgangherato cinema Cilea. Finì così che l’azione dei maoisti si risolse in una sorta di happening politico. Un “grande raduno popolare e di lotta” dentro uno dei cinema cittadini, concluso con la liturgia consolidata del messianismo comunista alla cinese: “Lunga vita al compagno Aldo Brandirali, ai compagno Todeschini, a Marx, Stalin, Lenin e al compagno Mao Zedong”.

Sulla scia di quel film politico a Paola passarono tutti i leader di “Servire il popolo”. E dopo quel film di Bellocchio, ai maoisti di casa nostra si avvicinarono, per un brevissimo periodo, anche personalità intellettuali come Umberto Eco, e anche altri cineasti impegnati come Bertolucci, Scola, Monicelli, Antonioni e persino Tinto Brass, ma anche pittori come Mario Schifano e Franco Angeli. L’esperienza maoista del gruppetto di attivisti paolani durò quanto l’alba di un mattino. I maoisti a Paola toccarono il vertice della loro azione politica occupando con le bandiere rosse e scritte inneggianti la rivoluzione proletaria il vecchio cinema Cilea (o era anche il Samà?) sul corso principale del paese.

Il ricordo di Bellocchio

Resta quel film, il racconto per immagini di Bellocchio. «Finanziai in prima persona e girai Il Popolo calabrese ha rialzato la testa, il film sulla rivolta dei braccianti di Paola e partecipai a Viva il primo maggio rosso e proletario, per la festa dei lavoro 1969. A Paola vidi gente che viveva ancora in una povertà spaventosa. Nei tuguri con il braciere al centro». Un’esperienza sul campo che segnò l’uomo e il cineasta.

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Donne in nero e bandiere rosse ne “Il popolo calabrese ha rialzato la testa” di Marco Bellocchio (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)

Bellocchio ricorda così quella sua esperienza militante calabrese: «Aderire ai maoisti fu un riflesso della mia primissima adolescenza. Il mio cortocircuito verso Servire il popolo era tenuto in piedi da un’infatuazione per qualcosa che pretendeva immedesimazione assoluta, nel quadro di una liturgia di integrazione quasi religiosa. Per i maoisti, cambiare abito, significava necessariamente stravolgere vita e costumi precedenti. Il partito lo chiedeva e per alcuni iscritti questa dedizione alla causa fu veramente totale. Non per me. Volevo ingenuamente che con l’esperienza maoista cambiasse ogni cosa, d’incanto, anche la mia arte. Non volevo più parlare del mio mondo. Niente più drammi borghesi. Tentai anche di fare una sceneggiatura ispirata a modelli marxisti, ma fu un lampo che si spense subito».

Da comunisti a borghesi

L’incontro con la gente di Paola per Bellocchio fu questo: «L’idea di partire dal basso, dagli sfruttati, per riscrivere la storia riconsegnando a loro ciò che era stato tolto dagli sfruttatori capitalisti aveva qualcosa di affascinante per me piccolo borghese dilaniato dai sensi di colpa. Di coerente». Coerenza che man mano venne poi meno anche ad altri esponenti di quel gruppetto di ferventi maoisti calabresi, alcuni imboccarono infine la via delle detestate carriere borghesi.

I ricordi e le avventure di quegli anni, divennero poi le rievocazioni estive di una combriccola di ex e di post comunisti – e qualcuno alle Poste poi c’era poi finito davvero. Le promesse rivoluzionarie non trovarono seguito, e le gesta esemplari degli occupanti le case popolari non guadagnarono altri proseliti agli ideali rivoluzionari di Mao.

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Una riunione di Servire il Popolo nella Paola del ’69 (foto Aamod, Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico)

Il popolo di Paola non andò mai al di là della curiosità. I “rivoluzionari” che intanto avevano preso in fitto un locale sotto una strada al Cancello, (un ex forno dismesso), promossero una fitta azione di propaganda, durante la quale dichiararono di voler «colpire i borghesi, perché solo così si poteva servire il popolo». Negarono che il capo di loro fosse il celebre attore Lou Castel (che intanto parlava poco e male l’italiano) o l’intellettuale e cineasta Bellocchio. Che a Paola, entrambi, dopo quel film non tornarono mai più.

Un libro per capire meglio

Su questa vicenda è uscito da poco un bel libro, ricchissimo di documenti e di testimonianze, dettagliato di riferimenti culturali e politici che riportano al clima dell’epoca, anche per mezzo di un ricco corredo fotografico. Il titolo è Maoisti in Calabria (Ed. Etabeta, 2022, pp. 280), lo ha scritto Alfonso Perrotta, testimone partecipe di quelle lotte e di quel clima rivoluzionario che animò un paese, Paola, che in breve divenne «una base rossa per la lunga marcia delle masse meridionali», senza nascondere «i limiti e le contraddizioni che portarono anche quel movimento al suo rapido dissolvimento».
La Calabria non è stata il «nostro Vietnam». O forse lo è ancora.

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