Quella di Francesco Saverio Fava è una memoria in bilico. Innanzitutto, tra due città: Salerno, dove nacque, e Amantea, dove la sua famiglia affondava le radici ed è legata a una vicenda forte, in cui la storia locale finisce nella grande storia: la resistenza antinapoleonica della cittadina tirrenica, rimasta fedele ai Borbone fino all’ultimo.
Inoltre, il barone Fava fu in bilico tra due sistemi politici: la monarchia amministrativa del Regno delle Due Sicilie, dove iniziò la sua carriera di diplomatico come console, e quella costituzionale del Regno d’Italia, in cui fu “ripescato” dalla nuova élite e destinato a sedi diplomatiche allora secondarie: tra queste, gli Usa, all’epoca considerati una potenza non “di rango”.
Eppure, grazie a questo incarico, il nobile calabrese diventò un personaggio di primo piano nella scena internazionale di fine ’800. Non solo creò quasi da zero l’ambasciata italiana negli Usa, ma fu protagonista di una vicenda terribile, che portò i due Paesi sull’orlo della guerra. Parliamo del pogrom di italiani compiuto a New Orleans nel 1891.

Antefatto: gli eroi dei Borbone
Difficile capire se gli antenati di Fava si misero alla testa della resistenza di Amantea per fedeltà ai Borbone o per difendere i privilegi che i re di Napoli avevano assicurato alla città e quindi a loro stessi. A questo interrogativo non fornisce risposta neppure Il barone persistente, l’unica biografia del diplomatico calabrese, scritta da Alberto Fava (“Il barone persistente”, Amantea, Carratelli 2019), un suo discendente.
Fatto sta che il barone Giulio Cesare Andrea, lo zio di Francesco Saverio, e sua moglie Laura Stocchi Procida, si misero alla testa della difesa del piccolo comune costiero di Amantea, assediato dalle truppe napoleoniche nel 1806. Particolarissimo fu il ruolo della baronessa, che più volte guidò i suoi contadini all’assalto delle truppe francesi: una specie di amazzone, che caricava a cavallo alla testa dei suoi seguaci.
Amantea capitolò nel 1807 e i Fava furono espropriati.

Al ritorno di Ferdinando IV, ’o Re Nasone, i Fava ricevettero in premio l’ingresso nell’alta burocrazia del Regno. In particolare, Francesco Fava, il papà del futuro diplomatico, ottenne la nomina di direttore del Fondaco dei Sali del Principato di Salerno. E, in seguito, quella di direttore generale delle Finanze della Calabria Citra (l’odierna provincia di Cosenza).
Facciamo un salto in avanti, nel tempo e nello spazio, e spostiamoci negli Usa.
Amerikan pogrom
È il 14 marzo 1891. A New Orleans si raduna una folla di 12mila persone, aizzata dall’avvocato Parkenson, assistente del sindaco Joseph Shakespeare, e si dirige verso la prigione. Lì sono in attesa di essere scarcerati 11 italiani, prosciolti dall’accusa di aver assassinato il capo della polizia, il discusso David C. Hennessy.

La “marmaglia”, come l’avrebbe definita il console italiano della capitale della Louisiana, sfonda il portone posteriore del penitenziario e lincia gli undici “dagos”, che è il nomignolo spregiativo affibbiato dagli americani wasp ai migranti “latini”, soprattutto agli italiani del Sud. Il massacro di New Orleans è il più grave dei 22 casi di linciaggio subiti dai migranti italiani nell’ultimo decennio dell’Ottocento. Ma stavolta il massacro non resta senza risposte, politiche e diplomatiche. Di cui si incarica il barone Fava.
Un diplomatico in prima linea
Fava era arrivato negli States come ministro plenipotenziario, dopo aver fatto una gavetta molto dura. A differenza dei colleghi settentrionali, lui aveva scontato sulla propria pelle il pregiudizio dell’élite del nuovo Regno nei confronti dei funzionari ex borbonici.
Tuttavia, questo “trattamento” non proprio di favore aveva consentito all’aristocratico di Amantea di farsi onore con la gestione di situazioni difficili e di essere testimone oculare di avvenimenti importanti, tra cui la nascita della Romania.
Il primo contatto del barone col nuovo mondo fu l’Argentina. Lì il diplomatico toccò con mano le difficoltà in cui versavano i migranti italiani, oggetto di pregiudizi e spesso vittime di violenze e massacri, a cui le autorità quasi non si opponevano. In questo caso, Fava escogitò una soluzione: l’uso di corvette italiane sulle grandi tratte rurali, ad esempio il rio Paranà, senz’altro per tutelare le comunità italiane in occasione delle troppe rivolte antigovernative che tormentavano il Paese sudamericano. Ma anche come suasion nei confronti di malintenzionati…
Negli States la situazione era in parte simile a quella sudamericana. Ma solo in parte, perché il vero ostacolo a una tutela efficace dei migranti era nella Costituzione.

Un cavillo coi crismi
Gli Usa, a livello formale, si erano impegnati con l’Italia alla tutela dei migranti nel 1871 con un importante trattato internazionale. Ma questo trattato impegnava solo lo Stato federale, che, secondo la Costituzione americana, non poteva intervenire negli affari giudiziari e nella normativa penale degli Stati membri. Morale: lo Stato della Louisiana poteva insabbiare, come in effetti stava facendo. E la Federazione, che pure si era impegnata a tutelare gli italiani, non poteva farci nulla. Né forse voleva del tutto. Il meccanismo dei “grandi elettori” e il sistema elettorale del Senato, entrambi basati sui singoli Stati, condizionavano non poco le dinamiche politiche dell’amministrazione centrale.
La situazione era avvitata: le autorità giudiziarie della Louisiana affermavano di non riuscire a identificare con precisione i colpevoli e la Federazione non poteva svolgere inchieste autonome perché non poteva violare la Costituzione. L’unica offerta americana fu il risarcimento di 2mila dollari a ciascuna famiglia delle vittime.
Un “prezzo del sangue” giudicato irricevibile sia dal barone di Amantea e diplomatico sia dal marchese Antonio Starabba di Rudinì, il presidente del Consiglio dell’epoca. E così si arrivò alla rottura diplomatica.

Venti di guerra
Fava fu richiamato a Roma il 14 aprile 1891. Il ritiro dell’ambasciatore, nel vecchio diritto internazionale, anticipava spesso qualcosa di peggio: la dichiarazione di guerra. E in effetti in Italia la stampa vicina a Francesco Crispi – ex presidente del Consiglio e quindi avversario di Rudinì – propose atti di forza militare, attraverso l’invio della Regia Flotta per cannoneggiare le coste della Louisiana.
Oggi l’ipotesi fa sorridere, ma all’epoca era tutt’altro che campata in aria. Gli Usa, usciti da una sanguinosa guerra civile, erano praticamente disarmati: il loro esercito era costituito da 128mila soldati regolari, la loro flotta da 3 navi da battaglia, tra l’altro obsolete. L’Italia, al contrario, era armata fino ai denti, con un esercito di 2 milioni e 400mila unità e una flotta di 11 navi da guerra completamente messe a nuovo. I presupposti per la “guasconata” c’erano.
Né l’Italia né gli States volevano arrivare a tanto. Infatti, fu attivato subito un canale diplomatico informale, gestito con grande abilità proprio da Fava, per trovare una via d’uscita accettabile per entrambe le parti. Harrison risarcì i parenti delle vittime, ma a titolo “personale” (cioè pescando dall’appannaggio della Casa Bianca), chiese scusa all’Italia e alle comunità italoamericane e impegnò formalmente gli Usa ad approvare una legislazione speciale per la tutela dei migranti. L’Italia, a sua volta, ottenne un potenziamento della propria rete consolare negli States.

Il ritorno in Patria
Fava rientrò in Italia nel 1901 e lasciò la diplomazia dopo aver tentato invano di ottenere una sede in Europa. In compenso, entrò in Senato per nomina regia. Inutile dire che i problemi degli italiani all’estero furono il suo pallino. Morì nel 1913.
Gli Usa non approvarono alcuna modifica della Costituzione per intervenire nelle giurisdizioni locali fino agli anni ’60, quando i problemi dell’apartheid erano diventati ineludibili. Ma la questione dell’immigrazione fu sbrigata in parte attraverso leggi speciali e in parte si risolse da sé, grazie all’integrazione spontanea dei “dagos”.