«Personaggio importante, aspettato e desideratissimo, quasi all’improvviso sbuca fuori dal suo nascondiglio, dove pel resto dell’anno si cela alla vista altrui». Così, nel 1886, il pratese Apollo Lumini scriveva dello zampognaro in uno studio sul Natale nei canti popolari calabresi. Nel romantico Ottocento questa figura di musico-girovago ha stimolato la penna di numerosi storici delle tradizioni popolari. Il collegamento col Natale è immediato: in molte culture è proprio la zampogna ad annunciare l’arrivo della festa per eccellenza, le cui note cominciano a udirsi per le strade dei paesi già dai primi giorni di dicembre. Non si può parlare però di una “economia della zampogna calabrese”. Spesso gli zampognari erano semplicemente pastori-contadini che nel periodo natalizio sfruttavano le proprie abilità musicali per rimpinguare i propri guadagni.
Una sequenza de “Dal tronco al suono. La zampogna di Andrea Pisilli”, documentario girato e montato da Gianfranco Donadio e Agostino Conforti e prodotto dal Centro Demoantropologico, in collaborazione col Laboratorio multimediale di Sociologia e Scienza politica dell’Unical
Accattoni e migranti
Con la celebre “zampogna a paro” calabrese sotto braccio questi pastori si spostavano dai paesi verso le grandi città. Tutto per guadagnare pochi spiccioli, in alcuni casi come accattoni ai bordi delle strade ad annunciare e allietare le festività imminenti. I “pifferari” calabresi partivano alla volta dell’allora capitale dello Stato Pontificio per far musica durante la novena di Natale. Le tante edicole votive incastonate nei muri di Roma erano i luoghi privilegiati verso cui si rivolgevano questi “concertini improvvisati”. Altre volte erano le famiglie più in vista a chiamare i pifferari a suonare nel proprio palazzo in ciascuno dei nove giorni che precedevano il Natale.
Dai paesi più remoti dell’Aspromonte e del Pollino gli zampognari raggiungevano la Toscana, Napoli o la Puglia. I più ardimentosi si spingevano fino a Parigi. Con i loro costumi ancestrali e pittoreschi realizzati con le pelli degli animali, i loro larghi mantelli, le scarpe grosse e i cappelli a punta non facevano altro che vivificare la brigantesca (e stereotipata) Calabria di Alexandre Dumas.
Intorno al 1853 il fotografo André Adolphe-Eugène Disdéri (1819-1889) immortalò a Parigi – quasi fossero esemplari di una specie rara – due “nativi di Calabria” abbigliati con mantelli e cappelli e muniti, manco a dirlo, uno di zampogna, l’altro di ciaramella. La loro immagine è oggi patrimonio del Getty Museum, vivida testimonianza dell’epoca degli imperi, delle razze e degli “altri” messi in mostra alla stregua di animali nei recinti e nelle gabbie delle grandi Esposizioni universali.
Arrivano “i calabresi”
Nella Toscana ottocentesca “calabresi” era l’appellativo – pronunciato in tono evidentemente dispregiativo – che accomunava tutti i suonatori di zampogna. Non importava se «questi infelici in cerca di pane» provenissero da Abruzzo, Campania, Lucania, Puglia: erano tutti “Calabresi”! Il già citato Lumini ci lascia una testimonianza importantissima su quanto fossero forti e radicati i pregiudizi sugli zampognari, migranti dal Sud in cerca di fortuna: «I ragazzi accerchiano i calabresi (così li chiamano in Toscana, mettendo tutte in un mazzo le varie nazionalità meridionali) e li salutano con urli, fischi, e spesso, nella loro crudeltà fanciullesca, aizzata dall’ignoranza e malvagità dei grandi, usano contro quelli infelici, venuti di lontani paesi, trascinandosi dietro moglie e figlioli, laceri ed affamati, argomenti più materiali e non sempre inoffensivi».
Il motivo di tali invettive è presto detto: in Toscana troneggiava incontrastata la credenza popolare che gli zampognari portassero il maltempo. Gli si gridava dietro con tono sprezzante «e’ pioè, e’ pioè, e’ fanno pioère». Spesso, senza pietà alcuna, le guardie municipali li allontanavano dai paesi. Viene da chiedersi se, ed eventualmente quanto, la presenza degli zampognari calabresi abbia influito sul consolidarsi in molte regioni di una mentalità che porta a guardare al calabrese con sospetto, con stereotipi che resistono al comune sentire. Quel che è certo è che nelle stampe o nei resoconti di viaggio ottocenteschi il calabrese era soprattutto la sua zampogna.
Zampogne e rampogne
Portavano con sé la ceramella e la zampogna i due contadini che Gerhard Rohlfs, studioso tedesco innamorato delle tradizioni e dei dialetti della Calabria, fotografò nel 1924 a Samo, in provincia di Reggio Calabria nel 1924. Ma non c’è paternalismo né malizia. Lo studioso era consapevole che nella propria terra d’origine gli zampognari erano portatori di festa e allegria. Rappresentavano una presenza fissa nelle innumerevoli feste patronali, spesso in associazione con altri suonatori di strumenti tradizionali, su tutti tamburi e tamburelli. Un acquerello realizzato nel 1811 da Luigi Del Giudice e conservato al museo San Martino di Napoli rievoca un momento di festa a Serra San Bruno in Calabria Ultra (oggi in provincia di Vibo Valentia). E, ovviamente, non può mancare lo zampognaro ad accompagnare le danze popolari in onore di S. Bruno.
Zampognari all’Opera
Anche il compositore e librettista Ruggero Leoncavallo li inserisce ne “I Pagliacci”, opera ispirata a un fatto di cronaca avvenuto a Montalto Uffugo nel 1865. La stessa opera è ambientata a Montalto nei giorni della festa dell’Assunta, che si teneva e si tiene tuttora a ferragosto nella chiesa della Madonna della Serra, e Leoncavallo si mantenne fedele, per le scene e per i costumi, alle ambientazioni e al vestiario tipico del luogo: «Gli zampognari arrivano dalla sinistra in abito da festa, con nastri dai colori vivaci e fiori ai cappelli acuminati».
Il compositore folignate Vito Fedeli incontrò un gruppo di ciarammeddrari o zampognari che dai villaggi dell’Aspromonte «eran discesi in città per fare la Novena del Bambino». Nel suo saggio datato 1912 Fedeli nota come i musici si dividevano la città di Reggio in varie zone «per non farsi tra loro una nociva concorrenza» e forse «per rispetto alle tradizioni, o per spirito di carità verso i ciaramellari, o per sentimento religioso, o per passatempo dei fanciulli» tutti spalancavano la porta della propria abitazione.
Amore e odio
Era un rito atteso che nell’euforia collettiva si protraeva dal 16 al 24 dicembre. Ma non era così per tutti. Sul suo giornale politico-letterario Il Bruzio, Vincenzo Padula scriveva nel 1846 che «le zampogne e le cornamuse sono la sua disperazione» e che «il Bruzio inseguito dalla cornamusa scappò di casa». Dalla zampogna alla rampogna: «Il ministro Sella avrebbe fatto una bella cosa ed un grosso guadagno se avesse imposto una tassa ai panettieri, ai bottegai, ai pastaiuoli di Cosenza, ed all’infinita turba dei gonzi, che posseggono il barbaro gusto di farsi suonare la cornamusa sera e mattina avanti l’uscio di casa con grave disturbo dei vicini, che hanno orecchio delicato e sonno leggero».