Non mi dilungo su origini e significato del rito dei Vattienti di Nocera Terinese. Faccio l’antropologo di mestiere, la vicenda è nota, ed è già stata accuratamente studiata. Io stesso ho dato nel corso del mio insegnamento di antropologia culturale numerose tesi sull’argomento. C’è di mezzo la «vituperata e primitiva religione dei poveri». E i vattienti altro non sono che «una delle mille forme della religione popolare dei poveri» che caratterizzò – parole di Michel Vovelle – l’Europa di prima della rivoluzione industriale.
I Vattienti di Nocera come la tribù Chimbu
Dunque una significativa sopravvivenza. Che già ritroviamo trattata alla stregua di una stranezza pruriginosa, retaggio dei “primitivi di casa nostra”, nel film Mondo Cane, pellicola del 1969 del regista Gualtiero Jacopetti, che impaginava i vattienti di Nocera Terinese in un documentario di carattere senzazionalistico. Il film accoglieva i vattienti come esempio limite delle “superstizioni in Europa”, in mezzo a una sorta di catalogo di immagini forti di riti cruenti e di scene di violenza e sesso riprodotte “dal vero”, arditamente estrapolate da “culture selvagge” che andavano dalla Guinea al Borneo, dalla Malesia al Giappone, fino alle bizzarrie del matriarcato nelle Isole Bismark alle feste della tribù Chimbu, per tornare appunto in Calabria, col rito dei flagellanti di Nocera, documentando così in modo eccentrico tradizioni diffuse “tra i civili e i primitivi”, con scene salienti proposte per soddisfare il guardonismo e le curiosità morbose del pubblico dei cinema popolari.
Il rito dei vattienti di Nocera Terienese negli ultimi decenni è andato poi soggetto di una forte esposizione mediatica, costretto anche a qualche forzatura, e soffre della tentazione di una sua facile e superficiale spettacolarizzazione, persino a scopi turistici.
Si è anche trasformato al suo interno, vi partecipano non solo devoti. È una tradizione che si è estesa a giovani, emigrati, persone in difficoltà per ragioni di lavoro, di salute o di dipendenze. Cambiano le figure dei vattienti, ma i riflessi umani del rito fanno sempre capo a un disagio, a sofferenze intime o manifeste. Invariata ne resta la funzione: in una condizione di vita subalterna tipica di popolazioni marginali e della religione dei poveri, il corpo di chi si “batte” viene messo a disposizione di un sacrificio, il sangue offerto ad una richiesta di reintegrazione.
Un paese risacralizzato
È questo che consente ancora di situare nell’ordine del sacro un rito considerato oggi vieppiù un residuo di arretratezza meridionale che fa storcere il naso a molti benpensanti, anche in ambito ecclesiale. Nella realtà della sua celebrazione è tutto il corpo mistico del paese, ogni suo spazio e anfratto, che viene coinvolto e ripercorso, letteralmente ri-sacralizzato in ogni sua estensione materiale e simbolica dal percorso che la processione e il rito dei vattienti conferma e ripete ogni anno.
I vattienti in giro per il paese nella processione del Venerdì santo sono il pennino rosso che ridà vita a stradine e vicoli deserti, case svuotate dall’emigrazione, luoghi e memorie ormai disabilitate dalla vita contemporanea. Ci si batte davanti alle chiese, alle edicole dei santi, dinanzi alle proprie abitazioni. E ci si prostra dinanzi alla statua della Madonna Addolorata in segno di devozione, ma soprattutto si versa sangue, come nel sacrificio del Cristo flagellato.
Così il rito dei vattienti di Nocera Terinese commemora un legame con il sacro, e insieme, la comunione necessaria tra luoghi e persone, l’essere cioè iscritti come presenze entro uno stesso circolo vitale, presenti e agenti nello stesso spazio del paese, soggetto come tanti altri alla crisi di una presenza storica e simbolica.
Come accade alla figura del Cristo, attraverso il sacrificio del sangue versato e asperso, la presentificazione della morte viene sconfitta e riemerge la vita. I vattienti imitando il sacrificio del Cristo, attraversano la morte senza morire, ridando vita così anche allo spazio del paese e alla sua intera comunità. Dunque un passaggio di rilevante importante fondativa, tramandato dal rito che si rinnova nell’orizzonte storico delle pratiche identificative della comunità locale.
Sicurezza innanzitutto: niente più vattienti a Nocera
Accade adesso che la Commissione Straordinaria di nomina prefettizia (il comune di Nocera Terinese da un po’ di tempo è privo di un sindaco) abbia deciso di vietare con un provvedimento “di tutela sanitaria” la tradizionale processione e riti del venerdì santo con la presenza dei vattienti, definito sbrigativamente «evento tipico di epoche lontane». Le autorità supplenti non solo hanno vietato il rito con la prevista aspersione del sangue dei vattienti a causa di presunte pericolosità “valutate, nel contesto attuale, dal punto di vista igienico sanitario”, impedendo così il marcamento di impronte su porte e muri oggetto della tradizionale sacralizzazione dello spazio e dei luoghi simbolici del paese, ma hanno persino mutilato la tradizionale celebrazione religiosa, abbreviandone il percorso liturgico.
Le autorità «hanno accorciato pure il percorso della processione del Sabato Santo. La via della Madonna, in centro storico, non si può più percorrere, sempre per motivi di sicurezza», osserva dal canto suo Angela Sposato, giornalista e scrittrice originaria di Nocera Terinese. Il totem dei tempi nuovi è dunque la Sicurezza, un apriti sesamo della modernità e dell’autorità dello stato, che impone le pratiche securitarie in sostituzione di quelle tramandate dalla comunità e dalla sua secolare cultura storica e identitaria. Le “superiori ragioni” della sicurezza, sempre più invocata e imposta quando più incerto diventa l’orizzonte dei valori, la stabilità economica e sociale, più vacillante l’antidoto di una cultura locale che segna la linea del tramonto dei riferimenti etici e di costume tradizionali.
Il passato rimosso
Argomenti molto delicati, ma neppure la autorità ecclesiastiche ufficiali – spesso apertamente ostili a questo tipo di manifestazioni della fede popolare – erano riuscite a fermare la celebrazione di un rito secolare, che nel piccolo centro appenninico affacciato sul Tirreno si celebra almeno da quattro secoli a questa parte. «Neanche la chiesa ufficiale non può essere contraria ad una devozione che viene regolata dalla diocesi», si ricorda adesso da più parti. In casi simili sarebbe certo più rispettoso ascoltare le voci della comunità, le ragioni delle persone che eseguono il rito e che per mezzo del loro corpo, ferendosi, rendono partecipe di questo sacrificio la comunità intera che lo vive per il loro tramite.
Si può discutere all’infinito sul senso di questi riti “ancestrali” che sono sopravvissuti e giunti oggi sino a noi alla stregua di sopravvivenze di un passato rimosso che sempre più difficilmente trova posto in un mondo secolarizzato e dissacrato come il nostro. La realtà del nostro tempo è sempre più attratta dal primato della tecnica, la società oramai è sovradeterminata da un laicismo di facciata che asseconda le nuove superstizioni del denaro e del potere economico che governano tutte le nostre relazioni. Un’ideologia dell’economico che tutto cancella imponendo il primato dell’utile anche nelle scelte simboliche e nella qualità etica delle nostre esistenze individuali e collettive.
Un sopruso culturale contro la religione dei poveri
La «religione di poveri» col suo residuo di sacralità e di ritualità «irregolari», un esempio delle innumerevoli «metamorfosi della festa» di cui ci parlava lo storico dell’ideologia francese di ispirazione marxista Michel Vovelle in un suo saggio dallo stesso titolo, in questo panorama pervasivamente sovragovernato dalle istituzioni dello Stato, dalle leggi di un’economia sempre più inflessibile, dalla prepotenza della tecnica e da istanze di regolarizzazione di tipo securitario, ha e avrà sempre meno chance. A questi rituali resta una fragile ragion d’essere nella loro stessa vigenza, in una sopravvivenza che si prolunga nonostante tutto. Finché una comunità è e sarà in grado di decidere autonomamente di riassumerli e di mantenerli in vita, la loro funzione culturale e simbolica sarà giustificata e garantita.
Mettere fine d’autorità e per decreto a questi “atti di autoflagellazione e conseguente spargimento di sangue” tipici della fede popolare, col pretesto che il rito tradizionale, com’è ovvio, “non trova alcun riscontro nelle vigente normativa pubblica in materia sanitaria”, in questo caso, a mio avviso, rappresenta, in termini culturali prima ancora che di diritto, un atto di arbitrio e di sopruso.
Con l’ordinanza di divieto il potere costituito produce un dispositivo legale il cui scopo – nemmeno tanto recondito – è quello di ricondurre i vattienti a una disciplina dei corpi di tipo sanitario e securitario. Impedendo loro di manifestare e ripetere col rito la libertà scandalosa di disporsi temporaneamente fuori dalle regole, ricreando uno spazio materiale e simbolico locale, alternativo e fondativo di un “altrove” ritualizzato dal sacro per mezzo di un diverso sapere del corpo, l’autorità intende sorvegliare e punire, normalizzando foucaultianamente l’eccezione e lo scandalo del suo retaggio tradizionale, per cancellarne infine il gesto e la memoria tramandata.
Cultura, salute, autodeterminazione
Una spia accesa, dunque, sulla temperatura inospitale dei nostri tempi privi di finalità e di autentici scopi di umanizzazione della realtà. Oltre che una prova dello spazio reale sempre più ristretto e residuale riservato alla libertà culturale e di autodeterminazione delle comunità locali, dato che «la violazione dell’ordinanza è punita ai sensi dell’art. 650 del Codice Penale, nonché delle ulteriori sanzioni di legge», con il compito di far rispettare la norma assegnato a Carabinieri, Polizia e Polizia Locale, come ricordato in calce dal documento prefettizio.
Le autorità prefettizie non a caso ribadiscono a giustificazione del divieto della celebrazione del rito «le primarie esigenze di tutela della salute pubblica e dell’ambiente»; quindi un’offesa all’igiene e pericoli per la salute, troppo sangue per strada, troppo sangue asperso; o non si tratta forse di impedire uno spettacolo considerato ormai troppo osceno e incomprensibile per le sensibilità correnti nei nostri tempi sanificati dalle fobie di contagio e turbate dalla lunga degenza del Covid?
Ma che cos’è cultura?
Un’obiezione si leva ancora per voce della scrittrice Angela Sposato: «La grave censura contro i riti della Settimana Santa a Nocera Terinese da parte delle istituzioni, svela tutto il disastro culturale della nostra contemporaneità, l’ignoranza assoluta in ambiti complessi come il senso della nostra “Festa”: un convito intimo di amici (paesani) che riconnettono l’identità in una fraterna agàpe (ἀγάπη), l’amore più disinteressato; svela pure il neo-oscurantismo culturale in cui è cultura oggi solo ciò che rimanda al politicamente corretto, mondato da “cattive” prassi e affidato alla mediazione di qualunquisti e retori umanisti ciarlieri scelti dal sistema che ci vuole assoggettati alle regole della burocrazia. I magistrati del gusto e del giusto, non sono e non saranno mai cultura, né progresso. Il rito per noi noceresi è elemento vitale, è incontro col Sacro. Sacro, ancor prima che Santo».
I Vattienti a Nocera nel passato
Dal canto suo anche lo studioso locale Franco Ferlaino, difendendo la pratica secolare di questo rito della fede popolare, ribadisce come «a memoria d’uomo, la Settimana Santa nocerese non ha mai creato problemi di ordine pubblico (semmai li hanno creati alcuni vescovi del secolo scorso), né di ordine sanitario, né di ordine giuridico (e abbiamo testimonianze demologiche fin dalla seconda metà del secolo XIX). Ogni altra supposizione è arbitraria e infondata». Riguardo ai protagonisti del rito, i vattienti poi: «nessun “fratello” si mai è fatto male. Nessuno li ha mai obbligati; anzi lo hanno sempre fatto con trasporto e sentimento… la gente di paese non ha un solo punto di vista su queste cose… è molto più aperta, democratica e tollerante, anche se in genere la si descrive addebitandole un oscurantismo d’altri tempi. Credetemi, si tratta solo di sapersi porre nella condizione di intenderlo il nostro rito».
Priorità
Che dire infine, da un punto di vista etico, se appena allarghiamo lo sguardo oltre il contesto? Ogni giorno respingiamo brutalmente il salvataggio in mare di vite umane di gente inerme, che fugge dalla guerra e cerca di sopravvivere a fame e conflitti. Viviamo sotto la minaccia costante di violenze, caos e pericoli di ogni sorta. Avveleniamo la natura. Produciamo armi e le vendiamo senza troppi scrupoli. Inviamo con autorizzazione parlamentare ordigni letali e armamenti pesanti che serviranno ad alimentare la distruzione sistematica di vite umane, pur sapendo di procurare – altrove – morte a domicilio in un conflitto sanguinosissimo che si svolge alle porte dell’Europa.
E però diventa un problema di sicurezza se in un paesino della Calabria, mezzo spopolato e in crisi di identità e di futuro, un gruppetto di paesani e di emigrati di ritorno devoti al Cristo flagellato e alla Madonna Addolorata, per ripeterne simbolicamente il sacrificio e la parabola di morte e rinascita, si procura, volontariamente, per scopi religiosi e rituali e senza causare violenza alcuna, la fuoruscita di sangue da ferite superficiali che si rimargineranno dopo una settimana.
I vattienti di Nocera e il corpo come feticcio
Viviamo decisamente in tempi post-umani in cui il corpo di esseri umani di ogni età e genere viene ovunque esibito e dissacrato, offerto sull’altare della più volgare banalizzazione pornografica della sua integrità e dignità, e quindi venduto, scoperto, indagato, spiato, alterato a piacimento, e come oggetto smembrato, narcotizzato, proposto come quotidiano pasto nudo da consumare, imposto come prodotto da pubblicità e media che lo espongono sugli scaffali reali e immaginari dei nostri empori commerciali. Insomma il corpo umano è, sotto i nostri occhi e senza disagio alcuno per le nostre coscienze stordite, sempre più ridotto a dominio e feticcio di ogni potere, soggetto ad ogni prepotenza e commercio che lo scambia come merce tra le merci.
Dissanguati sì, ma da povertà ed emigrazione
E davvero farebbe scandalo e pericolo il sangue asperso al mattino del Venerdì Santo, offerto silenziosamente come voto e in preghiera dagli ultimi vattienti di Nocera Terinese? Sono questi testimoni sparuti di una fede umile che sopravvive sui margini violati della storia, il pericolo incontrollabile che si aggira tra i vicoli di un paesino dissanguato sì, ma da povertà ed emigrazione; loro che in un convegno religioso di poche anime che si rinnova da secoli non cercano e non chiedono altro che trovare un appiglio e un conforto grazie ad un rito collettivo e all’oltraggiosa resistenza di una pratica di fede popolare?
Sono loro il difetto, la minaccia all’ordine, l’infezione sociale, quelli da sorvegliare e punire, la realtà da rimuovere dall’inflessibile dispositivo di potere che controlla le nostre vite e il nostro mondo?
Siamo diventati, mi chiedo, davvero tutti così ammalati di intransigenza, così mediocremente, conformisticamente e ipocritamente “civili”?
Quasi tutte le immagini all’interno dell’articolo fanno parte del reportage “Deliver us from evil” del fotografo Leonardo Perugini sui Vattienti di Nocera Terinese. Si ringrazia l’autore per averne concesso l’utilizzo sulle pagine de I Calabresi. Riproduzione vietata.