IN FONDO A SUD| Reggio Calabria: mare, miti e cemento

Si snoda lungo le sue paralizzanti e vittimistiche contraddizioni. Architetture non finite e mare di Ulisse. La città capitale immorale della punta dello Stivale

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È un posto duro da raccontare Reggio Calabria. La più difficile tra le città e i luoghi che incrocio da anni in questa regione nei miei giri solitari da antropologo e narratore sul campo. Ci arrivo ancora una volta in auto seguendo il lungo spago della SS 18. Dopo aver attraversato traffico, agitazione e scompiglio, allacciando lungo il tragitto tutto quello che sorge sulla costa tirrenica calabrese da nord a sud, la lunga strada delle Calabrie si arresta qui, in riva allo Stretto. E poi si spegne quasi anonimamente, in un modesto vialetto che si perde tra le auto parcheggiate sotto le case del quartiere urbano di Santa Caterina.

Gli stereotipi, la realtà e le sue contraddizioni

E già guardandola oltre i finestrini dal nastro sconnesso della SS 18, ti accorgi che Reggio è un enorme geroglifico scarabocchiato sopra il mare dello Stretto. Un luogo di soglia, margine estremo del disegno confuso dello stato dei luoghi e delle persone in questa Calabria di adesso. Una sorta di documento/monumento concreto. La sigla più indecifrabile e ostica tra i segni della scrittura umana e della geopolitica incisa nella regione.

Difficile innanzitutto sottrarne la descrizione dalle immagini stratificate nel tempo, dagli stereotipi che la precedono e che ne compongono il quadro, stigmatizzandola senza appello. Lo stesso accade se invece prendiamo per buone tutte le rappresentazioni più ravvicinate che all’opposto, e in parte, ne giustificano la realtà e le sue più paralizzanti e vittimistiche contraddizioni. Ancora più difficile è separarne la vicenda contemporanea dall’oscurità delle cronache che da decenni la raccontano non solo sulla stampa e sui media.

Reggio, la capitale immorale della Calabria

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Il procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri

Gratteri nel 2011 dichiarava che la densità criminale, con il coinvolgimento a vario titolo nelle attività illecite di una parte della popolazione, nella provincia di Reggio era stimata al 27% della popolazione totale. Perciò comincio a credere che, forse, solo sottraendola dalle narrazioni corrive e dall’inappellabilità della sua storia recente, riprogettandola nell’atemporalità e nella ricchezza solare dei suoi miti, rifondandola tra le suggestioni dei racconti e delle pagine che la nominano, a Reggio si può immaginare una via d’uscita per il riscatto e la costruzione di un futuro rinnovato.

Reggio Calabria è infatti lo Scilla e Cariddi di tutta la Calabria contemporanea, la capitale immorale che ne assomma tutti i mali e le dismisure, la luce e l’ombra, il suo distillato di società disegnata – male, malissimo – su un territorio che un tempo fu abitato dalla bellezza e dalla sapienza degli antichi. «Reggio, città bella e gentile», si diceva una volta. Se la metamorfosi del moderno ne ha sino ad oggi imbruttito e mostrificato il volto, non ha però svuotato del tutto l’aura luminosa del suo sigillo originario. Qualcosa vi resta ancora impresso come un calco, oltre i dissidi e le contraddizioni del moderno, nella forza sommersa dei princìpi.

Miti di ieri e di oggi

La realtà che mostra oggi le evidenze e i contorni di Reggio è però, come in tutti i miti, intrappolata nelle opposizioni flagranti che ne costituiscono il senso. Miti di ieri e miti di oggi, che qui cozzano e lottano senza mai raggiungere un ragionevole punto di sintesi. Odisseo e le sirene, la Fata Morgana, lo Stretto e il panorama del chilometro più bello d’Italia, Eracle e la fondazione dei coloni della Ionia, la Magna Grecia, il culto dei Dioscuri, Aschenez, San Paolo e le radici cristiane.

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Il fenomeno della Fata Morgana

Sul lato opposto, la ’ndrangheta e la pervasività delle cosche, la corruzione diffusa, la città fascistissima e irredenta dei moti del 1970, la malapolitica e il famigerato “modello Reggio”, il Circolo del Tennis e il Circolo del Cinema, gli Amici del Museo e quelli delle logge coperte dei capi della massomafia e dei servizi deviati, i Boia chi molla! e le associazioni cattoliche, il pescestocco e i cudduraci, i ruderi greci abbandonati in mezzo alla città, il Calopinace interrato e pieno di detriti, i bronzi di Riace nel Museo Archeologico e il genio futurista di Boccioni, il colonnato di Tresoldi piegato dal vento, palestra per i topi che ci ballano sopra, la devozione alla Madonna e quella al Santuario di Polsi, il centro con le palazzine liberty da nobile decaduta e appena fuori i quartieroni abusivi senz’acqua, l’incuria, le strade sommerse di monnezza, l’urbanistica miserabile da gran bazar del cemento.

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Una delle statue di Rabarama sul lungomare di Reggio Calabria

Reggio Calabria sottosopra

Ciò che di Reggio colpisce al primo colpo anche l’occhio di un profano è il suo aspetto sottosopra. Una città che sembra costruita a immagine e somiglianza del provvisorio che gareggia con l’eterno, del brutto che sottomette il bello, del privato che prevarica il pubblico. Il regno perfetto del geometra alla Cetto la Qualunque, che qui in anni e anni di abusi a mano libera ha deturpato il volto di Reggio in faccia al panorama più bello d’Italia. La città è oggi una colata di macerie del moderno dallo skyline barcollante e instabile, con costruzioni alte e basse spruzzate ovunque, sino ai recessi di una enorme retrovia periferica che ormai assedia quello che resta della città storica. Anche la vita che si volge in questi spazi in subbuglio ha un che di pericolante, un fondo tellurico che si nasconde nelle pieghe dell’ostentata indolenza caratteriale degli abitanti.

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Il quartiere Arghillà a Reggio Calabria

Il fantasma del terremoto

Il reggino inurbato di recente si nasconde in un dialetto limaccioso e sciovinista (che è già un orpello dell’isolanità siciliana a cui Reggio aspira), da cui spunta sempre un senso di fatalismo, di noia, di aggressività trattenuta. Tutta la città vive in una sorta di perenne stato d’emergenza, e l’inquietudine la scuote sotterraneamente come un’onda sismica. Il fantasma del terremoto è da sempre presente come attesa di un cataclisma venturo. Dilatata in “città metropolitana” Reggio è esplosa in un’interrotta colata di cemento solcata da un labirinto di strade anguste, scassate o troppo grandi e spesso senza nome, come quelle che portano tra vicoli e ridossi in cima al nuovo compound fuori scala delle torri dell’Università, verso il nuovo Centro Direzionale e il Tribunale.

Quel che resta del bello a Reggio Calabria

Quasi sparito il “panorama” naturale che ammaliò i viaggiatori del Grand Tour, con «la sera che scende sull’Etna ammantato di nubi e le tremule luci che balenano su Scilla e Cariddi» (spettacolo che ormai si coglie a sprazzi solo dal Lungomare intitolato al sindaco Falcomatà, il primo), nonostante la riproposizione del progetto di Waterfront dell’archistar Zaha Hadid, quello che resta della bellezza di Reggio oggi sono solo interstizi e sparuti frammenti.

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Il Waterfront progettato da Zaha Hadid

Il corpo della città è una accozzaglia deforme, interrotta solo dagli spazi residuali che si intravedono tra i palazzoni nuovi, con riquadri di terra e di mare sempre più striminziti e impolverati ai lati sfiancati delle strade, con le sponde dei fossi delle fiumare interrate e le antiche aree agricole abbandonate che presto saranno preda della nuova speculazione.

Radici nel cemento

Città apologo urbanistico dell’intero sfacelo ambientale che affligge tutta la Calabria, a Reggio si consumano gli ultimi suoli di quella battaglia ormai persa tra vuoti e pieni, tra natura e spazio costruito (male, malissimo), con la vittoria e l’estensione dell’abuso sulla misura, il trionfo incontrastato della cancellazione progressiva di ogni remora nella distruzione sistematica dei beni comuni e della salvaguardia della bellezza. È la legge della “crescita” illimitata inseguita da politici e amministratori, che qui continuano a legittimare il consumo di suolo e l’annichilimento di risorse irripetibili, quasi che tutto il territorio possa essere considerato “spazio in attesa di destinazione”.

I paradossi di Reggio Calabria

Uno dei paradossi di Reggio sta nel fatto che il saccheggio continua anche a dispetto dell’insediamento (risalente a più di 50 anni fa) della prima università calabrese, l’Università Mediterranea di Reggio Calabria, il cui primo nucleo nel 1968 fu l’Istituto Universitario di Architettura, oggi DARTE diretto dal professor Gianfranco Neri.
Dipartimento e università in cui anche Renato Nicolini insegnò architettura fino alla morte nel 2012. Reggio possiede dunque una brillante università che si occupa di architettura e pianificazione territoriale, di scienze agrarie e innovazione ambientale, di progetti di sostenibilità e di azioni di riqualificazione. L’ateneo sembra vivere però una vita a parte, con la scienza e un patrimonio di buone prassi che Reggio rifiuta.

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La facoltà di Architettura di Reggio Calabria

L’unica Città Metropolitana

Nonostante il caos dal 2016 Reggio è l’unica città che in Calabria ha ottenuto statuto di Città Metropolitana. È oggi la più grande conurbazione della regione, e conta, nell’espansione incontrollata di un’area metropolitana simile nel disordine urbanistico a una new town asiatica, sparpagliati dalle cime dell’Aspromonte e spruzzati fin sulle rive dello Stretto, circa 200.000 abitanti. Con un aeroporto che funziona sì e no, un porto asfittico monopolizzato dal traffico dei traghetti, riemerge a tratti anche il mito sacrilego del Ponte sullo Stretto (incombenza retorica rievocata anche in questi giorni per fare un po’ di grancassa mediatica da un politico come Calenda).

La sacralità dello Stretto

La storia infinita del ponte è all’opposto del genius loci meridiano che dall’antichità prescrive l’inviolabile sacralità dello Stretto. Il mare tra le due sponde di questo Sud è stato mito, lingua, letteratura, spazio culturale e memoria. Sin da quando un responso dell’Oracolo di Delfi guidò su queste rive i fondatori greci di Reggio: «Laddove, mentre sbarchi, una femmina si unisce ad un maschio, là fonda una città; il dio ti concede la terra Ausonia» (Diodoro, XIII, 23).

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L’Oracolo di Delfi

Nella letteratura più recente il passaggio dello Stretto il 4 ottobre 1943, segna invece la scena tragica in dell’odissea minore del marinaio ‘Ndrja Cambrìa, narrata nell’Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, romanzo-mondo che ha inciso un nuovo valore simbolico e figurale su questi luoghi. ‘Ndrja trova una terra stravolta e devastata dalla guerra, offesa dal degrado e dalla miseria. Non ci sarà un’altra Itaca da raggiungere. Dopo mille traversie nel «paese delle Femmine» (ritorna il mito fondativo di Reggio), ‘Ndrja non tornerà più a casa; mentre rema su una barchetta in mezzo allo Stretto e si avvicina a una enorme portaerei americana, nel buio parte un colpo che lo prende in mezzo agli occhi uccidendolo.

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Il mare dello Stretto

«La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e il dolidoli… come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro, più dentro dove il mare è mare». Il pathos di ‘Ndrja Cambrìa si è chiuso tra le pagine di quel libro magnifico, ma in riva al mare di Reggio un’altra guerra non è mai cessata. È la guerra dei tempi di pace che disprezza la storia, con il consumo per il consumo, l’abuso ininterrotto della bellezza e dei beni comuni. E siamo noi i veri invasori.

«Un mondo che non è più riconoscibile»

Se n’era accorto Pier Paolo Pasolini già nel 1959, quando la prima ondata modernizzatrice del cemento senza regole si abbatteva su questi paesaggi magnifici e su luoghi che nemmeno la guerra mondiale appena trascorsa aveva oltraggiato e sfregiato così irrimediabilmente come oggi. Di passaggio su queste sponde per il reportage La lunga strada di sabbia, dopo l’incanto del mare incontrava i primi avamposti della città nuova di Reggio. E scriveva: «Sui camion che passano per le lunghe vie parallele al mare si vedono scritte “Dio aiutaci” – mi stupiva la dolcezza, la mitezza, il nitore dei paesi, della costa… Poi si entra in un mondo che non è più riconoscibile».
È l’impostura infinita che stiamo ancora vivendo.

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