Raccontare Polsi non è stato facile: un luogo, uno spazio, talmente complesso da richiedere una lunga gestazione. Da settembre ad oggi. Ho utilizzato un format diverso dal solito. Nessuna videotestimonianza o elemento giornalistico, se non una cronaca di viaggio fatta di sensazioni e incontri. Questo mi ha permesso di parlare di Polsi fuori da luoghi comuni, semplificazioni, narrazioni iper o ipotrofiche. Avevo con me due compagni di viaggio: il generale Battaglia, protagonista della scorsa puntata e il collega Eugenio Grosso, fotogiornalista e autore di diverse foto del pezzo. Il loro sguardo e l’esperienza condivisa sono parte sostanziale di questo racconto.
«Polsi è il centro del mondo»
Il centro del mondo. Scivolando lentamente in fondo al crinale irto della vallata del Santuario della Madonna della Montagna, la tripletta verbale era arrivata precisa come una revolverata. «Polsi è il centro del mondo», aveva dichiarato il generale Battaglia mentre si annunciava al presidio dei carabinieri di guardia al cancello di ingresso. Ci accompagnavano, insieme alle prime carovane di pellegrini, due elicotteri della polizia che ci avrebbero sorvolato incessantemente per i successivi due giorni.
Era il mezzogiorno di venerdì 1 settembre e si aprivano le celebrazioni della Madonna della Montagna, sacra per mezza Calabria e anche per quel pezzo di Sicilia che si affaccia sullo Stretto. Una festa che accoglie ogni anno tra i 6 e i 7 mila visitatori.
Avevo maturato in fretta la decisione di partecipare: posto nel cuore dell’Aspromonte, Polsi era una tappa irrinunciabile del mio viaggio. Un grumo di sacro e profano, sangue, simboli, fede, terra e radici che, una volta l’anno, faceva convergere tutta la popolazione verso il centro di quel mondo con un misto di devozione, sacrificio e attesa.
Avevo cercato di aggregarmi senza esito a un paio di carovane, fin quando Demi d’Arrigo, guida parco e leader dell’offerta sportiva di montagna, mi aveva suggerito di sentire Battaglia. L’idea di accompagnarmi a un generale dei carabinieri già alla guida del Comando Provinciale di Reggio Calabria per una tappa così controversa mi convinceva. Un paio di chiamate e la nostra ospitalità al Rettorato del Santuario era stata accordata.
L’arrivo
Il tragitto si era rivelato un meta-viaggo: salendo da Scilla in quota, ci eravamo confrontati sullo stato dei territori, le attività svolte dall’Arma, i reati ambientali, i processi di legalità e le dinamiche di spopolamento. Da Gambarie avevamo deviato verso Montalto e l’auto si era tuffata nel ventre della Montagna, superando affacci mozzafiato sulla costa jonica.
Dopo il gomito dell’ultima curva era apparsa la vallata scoscesa. Dritto di fronte a noi si scorgeva l’unica altra via di accesso al Santuario per chi arrivava da San Luca. Il peso della montagna, con i suoi secoli di marce e contaminazioni che si abbattevano su di me a ondate potenti, mi aveva sovrastato. Da quell’utero montano era come rivenuta alla luce una memoria sociale e antropologica. Mi si era piantata sul petto: vedevo schiere di devoti e generazioni di monaci, eremiti, pellegrini, viaggiatori, contadini, signori, pastori in marcia. «Pazzesco!», mi era sfuggito.
Ai bordi della strada e nei rari spiazzi sotto di noi, iniziavano a comparire i primi accampamenti: auto accatastaste, ripari ricavati tra accorpamenti di macchine, furgoni intasati da gente dormiente o intenta in qualche preparativo. Avevamo da poco superato bancarelle che traboccavano di effigi sacre, souvenir a sfondo religioso e svariate cianfrusaglie di vaga cifra etnica. Risuonavano già a ritmo incalzante tarantelle e tamburelli, preludio di quanto sarebbe accaduto durante la veglia.
La festa di inizio settembre rappresentava una delle quattro tappe delle celebrazioni sacre dedicate alla Madonna della Montagna. Ogni 22 agosto dell’anno cominciava la novena. Partiva allora la carovana che da San Luca attraversava le vallate verso il Santuario, per arrivarvi all’inizio di settembre in occasione della processione, cui seguiva, dopo due settimane, la festa della Santa Croce. Ogni 25 anni, poi, in occasione dell’incoronazione, ai portatori di Bagnara, si sostituivano quelli di San Luca. Una geografia che racconta bene la netta divisione di ruoli e aree, riflessi nei dettagli del racconto della fondazione del Santuario: il bue, la croce e la pesca. Sotto il simbolo mariano, l’Aspromonte è sempre stata una Regione unica, estesa dalla costa a Montalto.
Una nuova reputazione per Polsi
Nel 2023 la festa si svolgeva in un anno carico di polemiche: l’area mercatale del Santuario era stata inibita. Non tanto – e non solo – per ragioni di ordine pubblico, ma come nuovo segno di legalità. Gli ambulanti che vi sostavano spesso non avevano licenze. Era uno dei molti segnali che il Rettorato e le istituzioni lanciavano per costruire una nuova reputazione per Polsi.
Appena entrati al Santuario, un nutrito gruppo di militari, Rettore compreso, era arrivato a salutarci. La loro presenza era ben visibile. C’erano almeno una settantina di agenti a presidiare un complesso non più grande di un isolato. La sede del Rettorato del Santuario che dominava il complesso sacro – la Chiesa, gli alloggi, il Museo degli ex voto – affiancava la caserma dei Carabinieri, un vecchio edificio fatto ristrutturare da Battaglia che, durante la sua reggenza, aveva inteso dare un segno tangibile della presenza dello Stato in un luogo emblema di criminalità. E siccome le guerre si combattono anche con i simboli, la fiamma dell’Arma campeggiava senza timore.
In realtà, dopo le polemiche sul summit di ndrangheta promosso da Oppedisano nel 2009 e la condanna in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa di Don Pino Strangio, storico Rettore del Santuario fino al 2016, molte cose erano cambiate. L’allora Ministro dell’Interno, Marco Minniti si era recato a Polsi quello stesso anno e il Vaticano a modo suo si era mosso. Nel maggio 2023 poi lo stesso Papa aveva benedetto la corona della Madonna. Azione che faceva seguito alla scomunica per i mafiosi.
Un millennio dopo
Appena oltre il Santuario e sulla piazza del sagrato della Chiesa, sui ballatoi degli alloggi che tradizionalmente ospitavano i pellegrini di Bagnara, erano stipati capannelli di persone intente a pregare, a prepararsi alle celebrazioni o imbastire colazioni.
Avevamo pranzato al refettorio col Rettore, i parroci, il sindaco di San Luca, vigili urbani, carabinieri, poliziotti e volontari. Era seduto accanto a me un uomo dall’aria apparentemente stralunata. Eugenio Grosso l’avevo conosciuto così, scoprendo che era un fotogiornalista catanese, trapiantato a Milano. Aveva scelto Polsi come tappa del suo fotoreportage sui culti mariani in Italia. Da Milano, era approdato a San Luca e da lì si era unito a una carovana in direzione Polsi.
Avevamo percorso il Santuario in lungo e largo: ci confrontavamo in mezzo a una storia iniziata nell’XI secolo con i monaci basiliani di rito greco, passata tra luci e ombre al nuovo splendore promosso da Idelfonso del Tufo, vescovo di Gerace, e giunta fino a noi, fermi a parlare sotto il suo campanile bizantino.
A ridosso della soglia della Chiesa, dove da ore si pregava in dialetto, si cominciava a suonare e si formavano le prime ruote di danzatori. Da alcune variazioni nel movimento dei piedi si poteva intuire la loro provenienza: i rosarnesi saltellavano, i sanluchesi strisciavano i piedi.
Dentro e fuori, sacro e profano
Quella soglia separava il dentro e il fuori, sacro e profano. Varcandola, ci si immergeva in acque mistiche e primordiali. Ero entrato in chiesa e mi ero tuffato in quel dentro al suono di giaculatorie dialettali quasi incomprensibili, fino ad un passo dalla trance. In quel contesto vincoli e differenze si frantumavano, per dare vita a un corpo unitario. Un respiro collettivo che si gonfiava in nome di quel culto mariano millenario ispirato al mito della Sibilla Cumana. Una devozione che aveva sorpassato indenne l’avvicendarsi dei diversi riti cristiani: monachesimo mistico, ortodossia bizantina e rito latino.
Quel pomeriggio, sotto l’occhio degli elicotteri della polizia, la liturgia era proseguita con la prima uscita della Vergine, che era scivolata lungo la navata centrale, navigando su un mare umano. Sotto un baldacchino di damasco, era stata condotta fino all’anfiteatro dietro la chiesa per i primi riti davanti a tutte le autorità. Aveva circumnavigato tutto il santuario ed era rientrata per essere vestita. La sua corona era stata condotta su un cuscino di velluto rosso. Il picchetto che la trasportava si era fatto largo nella navata centrale tra la folla che si apriva in due ali. L’avevano raccolta sull’altare il Rettore e un sacerdote. Armeggiando sopra e sotto la scala che arrivava all’edicola, tra preghiere e applausi, l’avevano posta in capo all’effige al grido di “Viva Maria!”.
Si era allora innalzato un bosco di smartphone che riprendevano, scattavano, illuminavano un rito di passaggio ciclico, rinnovato da secoli. Una selva di ceri votivi che occhieggiavano verso l’altare, in una testimonianza di fede da smaterializzare, condividere e moltiplicare in Rete.
Non sono credente, ma…
All’imbrunire il Santuario era colmo. I due ristoranti andavamo a pieno ritmo, tra alcool e carne alla brace. Il generale aspettava un gruppetto di alpinisti che vi avrebbero trascorso la notte. A breve mi attendeva la dimensione del fuori. Durante la cena al refettorio, alla presenza del vescovo Morrone, mi ero intrattenuto coi ragazzi del reparto Cacciatori delle Alpi in servizio. Carabinieri e poliziotti si alternavano: c’era chi smontava e chi si preparava per il turno di notte.
Qualcuno aveva ricordato che, intanto, in quella notte di veglia, per i sentieri di Aspromonte c’erano pellegrini in viaggio, devozione nelle gambe e sacrificio sulle spalle. Di quei momenti Eugenio mi aveva mostrato le foto fatte durante il viaggio da San Luca: donne e uomini che si laceravano i piedi scalzi su pietre acuminate, portandosi le loro croci e le promesse alla Madonna per una grazia. Si dirigevano al Santuario con viveri e bambini, sequestrati dalla stanchezza e dalla fede.
Con Battaglia ci eravamo intrufolati nel cortile di uno dei due ristoranti per raggiungere Peppe Trovato, catanese naturalizzato reggino e affermatosi come primo esploratore di forre e cascate aspromontane. Con lui un gruppetto di alpinisti alla testa di Pino Antonini, speleologo, già direttore della Scuola forre e canyon del Corpo nazionale del Soccorso alpino e tra i sopravvissuti al terremoto in Nepal del 2015.
Dopo qualche chiacchiera, ci eravamo spostati fuori ad osservare l’andamento dei festeggiamenti. Il gestore faceva avanti e indietro con le mani piene di birre e bicchieri. In un dialetto ostico, aveva spiegato Polsi a modo suo. Una vita dura, la morte sfiorata. Non era un gran credente, ma era certo che la Madonna della Montagna lo avesse protetto col suo manto.
Maschi e femmine, buoni e cattivi
Come quello era rientrato, avevo chiesto a Battaglia in che percentuale avremmo potuto dividere i “buoni” e i “cattivi” della serata. «Non lo so, ma ti dico che lo Stato si è battuto per sottrarre ai “cattivi” dei territori ritenuti perduti da molti».
«Hai notato che siamo tutti maschi?», avevo ribattuto. Gruppetti di uomini di ogni età bevevano e cianciavano lungo tutta la via, sciamando da un lato all’altro fino in piazza dove impazzavano le ruote di ballo. Le pochissime ragazze presenti erano circondate da uomini intenti nel loro rituale di corteggiamento. Le altre donne erano tutte in chiesa.
Al mondo di dentro e di fuori si aggiungeva il codice di genere, con la suddivisione di ruoli tra maschi e femmine. Ognuno al posto proprio, assegnato per sesso e per nascita.
Polsi, dove tutti si ritrovano
Eugenio si muoveva veloce con la sua macchina fotografica. Io continuavo a incrociare conoscenti. Gente che, in alcuni casi, non vedevo da anni: Polsi era davvero il luogo dove tutti si ritrovavano.
«Non è un caso che Polsi sia diventato emblema di ‘ndrangheta. Qui ci si incontrava tutti insieme quando muoversi era complicato. La festa diventava allora collante e occasione per riunirsi e discutere di affari di comunità, più o meno leciti; attribuire ruoli e influenze; lottizzare territori. L’intervento dello Stato ha invertito il trend, ma l’eco di certi fatti e la potenza della ritualità religiosa hanno lasciato incrostazioni dure a morire. Oggi però siamo nelle condizioni affinché questa percezione cambi», aveva argomentato il generale.
Ero andato a letto con tutto questo nelle orecchie, mentre fuori infuriava un baccanale pompato da un tasso alcolico sempre più elevato. Ero rimasto sospeso in un onirico liquido: le immagini dei boschi e delle valli si era mescolata a echi di preghiere, impressioni di volti, sguardi carpiti, tra divise, sacralità e paganesimo.
Al mattino, dopo svariati caffè, mi ero gettato in strada con la macchina fotografica assieme a Eugenio per la processione, cui sarebbe seguita la messa solenne tenuta dal vescovo di Reggio. La folla era per lo meno triplicata e al Santuario erano arrivate altre carovane da tutta la provincia e dal Messinese. Molti portavano al collo un fazzoletto votivo straripante di medagliette, con l’immagine della Vergine. Dal giorno precedente i tamburelli non avevano mai smesso di macinare terzine. Sui popolatissimi ballatoi degli alloggi, erano stati stesi drappi in omaggio al passaggio della Madonna.
Madonna vs Sibilla
Avevo guadagnato un posto strategico in cima alla piazza accanto a uno dei passaggi obbligati della processione. L’effige allora era uscita e aveva iniziato a compiere il giro della piazza fino a piantarsi col volto fisso verso il versante opposto della Montagna.
La leggenda raccontava che in quegli anfratti fosse imprigionata la Sibilla, punita da Dio per aver tentato di sostituirsi alla Vergine come madre di Cristo. Suo fratello, che aveva osato schiaffeggiare Gesù per difenderla, era stato gettato anch’egli in quell’antro e relegato alla pena eterna del buio dietro sbarre di ferro che avrebbe colpito con la mano per l’eternità. L’eco di quella pena riempiva la valle nelle giornate dal clima più duro. Se la geografia veniva prima della storia, la morfologia del territorio addirittura la precedeva.
L’Effige Sacra, autentico femminino sacro della Montagna, veniva ostesa a tutela dell’Aspromonte e del suo popolo dalle insidie dei luoghi e degli elementi naturali che ne avevano regolato vita e morte per secoli. La vara aveva poi circumnavigato il santuario e mi era sbucata davanti. Dall’alto, tra urli di giubilo, venivano lanciati coriandoli di omaggio. Una volta tornata in piazza, la Madonna era stata girata entrando in chiesa di spalle, con lo sguardo sempre rivolto all’antro della Sibilla.
L’omelia femminista
Cominciava la messa solenne. Dagli alloggi il nostro sguardo dominava lo spazio dell’anfiteatro che ospitava l’altare. Le gradinate erano affollate di fedeli e sacchi a pelo. All’ascolto dell’omelia mi ero ringalluzzito: il vescovo Morrone aveva puntato dritto sulla centralità della figura mariana, nel suo agire di donna e madre al servizio del Bene. Aveva parlato di «donna che ha saputo rompere gli schemi, in un’epoca in cui dominava il maschio». Da lì, il salto per antonomasia al ruolo rivoluzionario delle donne nella Bibbia era stato veloce. Parlava alla platea, ma si rivolgeva alla coscienza delle donne di Polsi e quella dei loro figli, lanciando un messaggio di giustizia e pacificazione. Li aveva spronati a «prendere in mano il proprio futuro, e non delegare ad altri quello che compete ad ognuno di noi, perché soltanto così possiamo sperare di risollevare la nostra terra, e sconfiggere la cattiva politica».
Un’omelia, rivoluzionaria anch’essa, capace di incrociare i grandi temi che la Chiesa stava affrontando: le pari opportunità, una nuova dignità per il ruolo delle donne, il contrasto al crimine organizzato. Parole che avevano fatto eco al messaggio inviato dal cardinale Zuppi, presidente della CEI: «Il Santuario della Madonna di Polsi è stato profanato nel recente passato (…) per interessi privati che dobbiamo chiamare con il loro nome: mafiosi. (…) Da Polsi nasca, invece, una consapevolezza nuova di cui ha bisogno tutto il nostro paese perché le mafie hanno tanta penetrazione al Nord e tante ramificazioni internazionali». Un movimento, quello della Chiesa, partito anni addietro, dopo l’apertura delle indagini su Don Pino Strangio: il vertice del Rettorato del Santuario era stato rinnovato ed erano state avviate una serie di azioni con cui il Vaticano intersecava quelle dell’Arma dei Carabinieri.
Una strada per Polsi
Al termine della cerimonia mi ero fermato a parlarne con don Tonino Saraco, Rettore dal 2017. «Oggi di Polsi si parla in modo diverso e noi stiamo facendo di tutto per riabilitare la sua reputazione. Che un passato fosco ci sia stato non è in dubbio. Ma abbiamo il compito di lavorare per cambiare, forti dell’azione delle forze dell’ordine e della magistratura. Il mio compito è non permettere che determinate cose riavvengano. Non solo qui c’è sempre una persona di mia fiducia, ma abbiamo cominciato con l’installare un sistema di videosorveglianza e trasmettere gli elenchi dei nostri ospiti alla Questura. Questo riguardo alla deterrenza. Stiamo poi lavorando su due progetti, uno in essere e un altro venturo: occupiamo nell’azienda agricola del Santuario ex detenuti cui presto affiancheremo un birrificio artigianale».
«I grandi temi da affrontare – aveva aggiunto don Saraco – non sono mai cambiati: il lavoro e le infrastrutture. Creare lavoro vuol dire togliere terreno alla malavita. Costruire strade permette a questo luogo di essere accessibile, vissuto, meglio controllato e governato. Ho dovuto rifiutare parecchie visite dalla Sicilia perché arrivare qui in pullman è impossibile. Un anno e mezzo fa Occhiuto ha annunciato 65 milioni di euro per la realizzazione di una nuova strada che colleghi quello che è il santuario mariano più frequentato del Meridione, con visite che toccano picchi di 50 mila presenze l’anno tra giugno e ottobre. Non mi ritrovo nelle argomentazioni che di chi vede in questa strada una minaccia all’autenticità e allo spirito del luogo. Questo progresso può trasformare Polsi in un importantissimo attrattore per il turismo religioso».
Il ritorno
La folla cominciava a defluire: i trekker ripartivano per la colazione lungo qualche sentiero, molti tornavano a tende e roulotte per il pranzo. Il generale ed io, dopo un giro al Museo degli ex voto, ci eravamo attovagliati coi carabinieri per un menu a base di capra. I rotori degli elicotteri di sorveglianza si erano smorzati e l’aria si era scaricata di quella tensione in cui eravamo rimasti immersi.
Dopo i saluti e un ultimo caffè col Rettore, avevamo recuperato Eugenio ed eravamo ripartiti tra cronache dei due giorni, ricordi di vecchie indagini e considerazioni sulla riconquista degli spazi sottratti alla ‘ndrangheta. Riemersi verso la costa, lo scenario del tramonto sullo Stretto placido di settembre ci aveva ammutoliti. Davanti al cielo rosso che degradava verso l’indaco, Stromboli sbuffava all’orizzonte.
Quando ormai tutto sembrava compiuto, sopra Melia, avevamo incrociato un principio di incendio. Battaglia aveva inchiodato: scesi dall’auto, avevamo iniziato a gettare terra sulle fiamme, E siccome non sarebbe bastata, eravamo partiti verso la prima fontana. Avevamo fatto bene perché, passata circa un’ora dalla prima chiamata dei soccorsi, i pompieri non si erano ancora presentati.