Il più spregiudicato. Ma anche il più visionario. Quello capace di far fare il salto di qualità. Non solo alla sua famiglia. Alla ‘ndrangheta intera. Paolo De Stefano è unanimemente riconosciuto come uno dei boss più importanti della storia delle ‘ndrine.
Quartetto d’Archi
Secondo di quattro fratelli che, insieme ai Piromalli di Gioia Tauro, riusciranno a scalzare la “vecchia ‘ndrangheta” di don ‘Ntoni Macrì, di don Mico Tripodo. Quest’ultimo troverà la morte nel carcere di Poggioreale. Ordine di Raffaele Cutolo, leader della Nuova Camorra Organizzata, parrebbe. E su esplicita richiesta proprio di Paolo De Stefano, col quale il boss napoletano intrattiene ottimi e duraturi rapporti.
Secondo i collaboratori di giustizia, Paolo De Stefano fu tra i primi a raggiungere il ruolo di “santista”. Perché è proprio con l’istituzione della “Santa” che la ‘ndrangheta fa il salto di qualità. Passa dalla dimensione agro-pastorale a qualcosa di diverso. Allacciando rapporti con il mondo delle istituzioni, della destra eversiva, della massoneria deviata. Tutti rapporti che De Stefano ha coltivato fino alla sua morte.

Sopravvive alla prima guerra di ‘ndrangheta, a differenza dei fratelli Giovanni e Giorgio. Sarà ucciso però agli albori della seconda. Ma il casato dei De Stefano continuerà a dettare legge grazie all’opera di Orazio, unico tra i quattro fratelli rimasto in vita. Ma anche tramite i figli di Paolo De Stefano, in particolare Peppe De Stefano, considerato il “Crimine” delle cosche reggine, almeno fino all’arresto, avvenuto nel dicembre 2008.
Questo perché solo la progenie di un capo carismatico come Paolo De Stefano poteva essere “degna” di ricoprire quel ruolo negli anni 2000.
I rapporti di Paolo De Stefano

Emblematico il fatto che nell’aprile del 1975, nemmeno due mesi dopo l’eliminazione del boss di Siderno don ‘Ntoni Macrì, le forze dell’ordine sorprendano Paolo De Stefano insieme al boss della Banda della Magliana, Giuseppe Nardi, Giuseppe Piromalli, Pasquale Condello, Gianfranco Urbani e Manlio Vitale nei pressi del locale “Il Fungo” di Roma. Gli agenti erano appostati lì per arrestare il latitante Saverio Mammoliti, che avrebbe dovuto partecipare ad una riunione mafiosa.
Doveva essere un incontro molto importante, visto che, oltre a De Stefano, partecipano uomini forti della ‘ndrangheta, come Piromalli, ma anche Condello (Il Supremo, negli anni a venire), nonché Urbani, Er Pantera, re delle bische e delle scommesse clandestine. De Stefano, Piromalli, Condello e Nardi giungono su un’autovettura Mercedes e sia Condello che Piromalli si sono allontanati dal luogo di soggiorno obbligato rendendosi irreperibili. Il secondo viene trovato in possesso di una banconota da 50.000 lire proveniente dal sequestro di Paul Getty.
Nero di Calabria
De Porta persino il suo nome uno dei processi più importanti alla ‘ndrangheta negli anni ’70: il processo De Stefano+59, il cosiddetto “Processo dei 60”. Già nel 1979 il Tribunale di Reggio Calabria rilevava l’esistenza di una «ferrea solidarietà che accomuna le cosche dell’intera provincia, nel rispetto del più assoluto principio di giustizia distributiva a fronte di un noto utile finanziario, che bene avrebbe potuto costituire accaparramento della sola cosca della Piana». A decine le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che legano il nome di De Stefano e dei De Stefano alla destra eversiva. A soggetti da “notte della Repubblica”, quali Stefano Delle Chiaie, ma anche Franco Freda. I collaboratori parlano anche degli incontri tra i capi della cosca De Stefano e Junio Valerio Borghese, per il tentativo di realizzare un colpo di Stato in Italia.
Il potere di Paolo De Stefano

All’inizio degli anni ’80, quindi, Paolo De Stefano era da considerare l’espressione più tipica del nuovo manager dell’impresa criminale calabrese. Fu lui il primo, proseguendo nell’opera intrapresa dal fratello Giorgio, ad intuire e realizzare il necessario salto di qualità attraverso una serie di cointeressenze operative realizzate con esponenti diversi della malavita nazionale ed internazionale.
Morto Giorgio De Stefano, Paolo assume infatti i pieni poteri dell’omonimo clan. Tuttavia, con il passare del tempo, l’enorme potere sapientemente accentrato sulla propria persona, oltre ad indubbi benefici, provoca due effetti collaterali. Si riveleranno fatali per il boss di Archi.
De Stefano, che in verità non ha mai abbandonato l’idea di vendicare l’eliminazione dei fratelli, comincia ad isolarsi e a diffidare di chiunque, anche dei suoi più stretti collaboratori. Tanto che qualsiasi manifestazione di autonomia, anche quella che appare insignificante, subisce una dura repressione.
La sua politica espansionistica, poi, innesca un clima di sospetto nei suoi confronti da parte dei leader degli altri clan affiliati – o, comunque, non in contrasto – che operano nella provincia di Reggio Calabria, timorosi di vedersi relegati a funzioni di secondo piano.
Il braccio armato della Madonna
All’interno dello stesso clan di Archi si determina una situazione non meno esplosiva. Vari affiliati tra i più rappresentativi iniziano a manifestare insofferenza verso il comportamento dispotico di don Paolino, che pretende di sottoporre a controllo qualsiasi attività criminale dei suoi accoliti e punisce duramente chi viola la sua regola.

Racconta il collaboratore di giustizia Giacomo Lauro: «Sostenne che per raggiungere il vertice dell’organizzazione aveva dovuto pagare un prezzo altissimo sia perché due suoi fratelli erano stati uccisi sia perché aveva anni di carcere da scontare. Per contro altri vivevano tranquillamente e senza problemi. Capii da quelle parole che qualcosa di grave in seno al clan arcoto si era verificato. Considerata la piega poco piacevole presa dalla discussione, ritenni opportuno sdrammatizzare, sostenendo che da tutti era voluto bene e non soltanto dagli arcoti. La replica fu che tutti erano amici per paura e che, comunque, egli viveva per fare giustizia in quanto era il braccio armato della Madonna di Polsi, la quale si serviva di lui per uccidere ed eliminare tutti gli infami ed i tragediatori della ‘ndrangheta».
Gli equilibri in riva allo Stretto
Proprio a metà degli anni ’80, Paolo De Stefano avverte il pericolo dell’avvicinamento tra due famiglie assai potenti: i Condello, anch’essi originari del rione Archi di Reggio Calabria, e gli Imerti di Villa San Giovanni. Già in quel periodo, infatti, si parla di ponte sullo Stretto. La guerra è alle porte.
Si legge, infatti, nelle carte giudiziarie che ricostruiranno quel periodo: «Attonita e sorpresa all’inizio, successivamente sempre più fatalisticamente rassegnata e quasi indifferente, la popolazione ha assistito all’incalzante succedersi di agguati e sparatorie di cui sicari spregiudicati, quasi sempre infallibili e giovanissimi, si sono resi protagonisti, spingendosi fin nelle strade del centro cittadino, in ore di punta, tra passanti inermi ed atterriti (…) Padroni del territorio e timorosi solo della reazione degli avversari, bande di criminali si sono per anni affrontate in quella che gli inquirenti hanno definito guerra di mafia e che ha mietuto numerose vittime… Di tale feroce guerra è stata individuata una data di inizio ben precisa: l’11 ottobre 1985».
Autobomba e moto
Secondo taluni, Paolo De Stefano teme un arbitrario inserimento nelle “sue” zone da parte di Antonino Imerti, detto Nano Feroce, e che il suo gruppo potesse essere insidiato da quello dei Condello. Avrebbe deciso così di porre fine a quell’alleanza decretando l’eliminazione di Antonino Imerti per poi farne subdolamente ricadere la colpa su altri.
Il boss di Villa San Giovanni, tuttavia, si salva miracolosamente dall’autobomba che invece dilania la sua scorta.

Per altri, in realtà, Paolo De Stefano con quell’attentato non avrebbe nulla a che fare. Non sembra preoccupato, infatti. Il 13 ottobre, due giorni dopo l’autobomba di Villa San Giovanni, De Stefano è in moto, insieme con uno dei suoi più fidati complici, Antonino Pellicanò. Si trova ad Archi, cuore del suo regno incontrastato, quando i sicari entrano in azione. I due (entrambi latitanti, Pellicanò era colpito da ordine di cattura per omicidio volontario) viaggiano a bordo di una Honda Cross intestata a Bruno Saraceno, noto agli organi di polizia come bene inserito nel clan De Stefano e più volte segnalato quale autista di Orazio (il quarto dei fratelli De Stefano) nel periodo della latitanza di questi.
Paolo De Stefano, il boss dalle scarpe lucide
Così Pantaleone Sergi su La Repubblica in quei drammatici giorni: «Don Paolino De Stefano era uno di quei boss dalle scarpe lucide che con la loro ascesa hanno segnato la storia della ‘ndrangheta calabrese negli ultimi 15 anni. Re di Archi, fatiscente quartiere-casbah alla periferia Nord della città, spregiudicato quanto diplomatico, violento e guardingo assieme, era il punto di riferimento delle mafie internazionali per il traffico di droga, armi e diamanti che ha portato miliardi e miliardi nei forzieri delle cosche. Ma la guerra che si sta combattendo sulle sponde dello Stretto, che in 48 ore ha lasciato sul campo cinque morti eccellenti, non lo ha risparmiato, anzi ha avuto in lui l’obiettivo più alto. La sua eliminazione, plateale perchè avvenuta nel suo regno, conferma che chi ha scatenato questa guerra vuole fare piazza pulita, vuole avere insomma il terreno sgombro per nuovi e più lucrosi affari».

Paolo De Stefano viene ucciso nel suo regno. Nonostante due giorni prima sia avvenuto l’enorme attentato a Nino Imerti, il boss di Archi gira tranquillamente per il proprio quartiere. Don Paolino, però, avrebbe inviato alle altre famiglie un messaggio: sebbene tutti sospettino di lui, a mettere la bomba a Nino Imerti sarebbe stato qualcun altro.
Dopo quella che in ambienti di ‘ndrangheta viene definita “ambasciata”, De Stefano si sente dunque al sicuro da possibili attacchi. Ma si sbaglia. La guerra tra clan sta per esplodere in maniera dirompente e drammatica. E, fin da subito, trame e complotti vengono messi in atto, in una vera e propria strategia bellica.
Il racconto del collaboratore
È il collaboratore Giacomo Lauro, nell’interrogatorio reso il 25 ottobre 1993, a ricostruire quei drammatici giorni. «In questa prima fase non si erano definiti gli schieramenti in quanto ancora appariva nebulosa la responsabilità del gruppo di Paolo De Stefano, che peraltro subdolamente accreditava l’attentato di Villa San Giovanni con l’autobomba alla cosca Rugolino di Catona. In tale ottica si spiega la visita di Pasquale Tegano, mandato da Paolo De Stefano la stessa sera dell’attentato, a trovare Giovanni Fontana per invitare il suo gruppo ad una riunione nelle ville site sulla collina di Archi di proprietà del De Stefano. A tale invito il Fontana rispose che non avrebbe preso alcuna decisione sul piano militare se prima non avesse parlato con Pasquale Condello, all’epoca detenuto presso il carcere di Reggio Calabria, col quale avrebbe avuto un colloquio il lunedì successivo (il 14 ottobre, nda)».

«Fu per detta ragione – continua Lauro – che Paolo De Stefano si spostò liberamente quel fatidico 13.10.1985, quel giorno in cui non si aspettava di essere colpito dai Condello, avendo interpretato nelle parole di Giovanni Fontana un impegno a non iniziare le ostilità prima che Pasquale Condello desse la sua risposta. Lo stesso itinerario seguito dal De Stefano che transitò dinanzi alla casa dei Condello nel rione Mercatello di Archi dimostra la sua totale tranquillità e l’assenza di qualsiasi precauzione almeno sino al lunedì successivo».
La morte di Paolo De Stefano
La situazione, dunque, sembra essere chiara. Paolo De Stefano era tranquillo non solo perché vigeva una sorta di “tregua armata”, come descrive Lauro, che non sarebbe stata sicuramente rotta prima del colloquio con Pasquale Condello. Ma anche perché aveva già avuto assicurazioni dal boss della Piana di Gioia Tauro, Nino Mammoliti, circa la fedeltà dei Condello e dei Fontana. Nella circostanza, contrariamente al solito, non seppe ben valutare i suoi avversari.
È una piovosa domenica pomeriggio. La Honda con in sella Paolo De Stefano e Antonino Pellicanò sfreccia lungo via Mercatello, nel cuore del rione Archi. Quello è il loro ultimo viaggio in moto. A un tratto, proprio nelle vicinanze dell’abitazione della famiglia Condello, una raffica di pallottole li investe. Colpisce prima Pellicanò, che è alla guida. La moto sbanda, i due passeggeri cadono a terra, gli assassini continuano a sparare. L’esecuzione di Paolo De Stefano avviene mentre il boss è per terra e inveisce contro gli assalitori.

Sul luogo del duplice delitto vengono rinvenute dieci cartucce per fucile da caccia calibro 12 e sei bossoli di pistola calibro 7,65 parabellum. Gli stessi resti verranno trovati all’interno della Fiat Ritmo, utilizzata dai killer per la fuga e distrutta dalle fiamme sul greto del torrente Malavenda.
A circa cinquanta metri di distanza dai corpi di De Stefano e Pellicanò si trova, riversa per terra, la vespa bianca del figlio di don Paolino, Giuseppe, utilizzata probabilmente come “staffetta”. Giuseppe De Stefano ai tempi non ha nemmeno sedici anni. Sarà arrestato il 10 dicembre del 2008 dalla polizia, dopo cinque anni di latitanza. È proprio lui il nuovo “Crimine” della ‘ndrangheta.
La guerra di ‘ndrangheta
Una telefonata anonima informa che i responsabili del duplice omicidio sono Pasquale e Domenico Condello, Antonino Imerti, Giuseppe Saraceno e Antonino Rodà, detto Nuccio. La magistratura reggina li individua e li condanna all’ergastolo in Corte d’Appello. Ma Corrado Carnevale cancella tutto con un colpo di spugna in Corte di Cassazione.
L’assassinio di Paolo De Stefano, comunque, è il punto di non ritorno. L’omicidio del boss più potente della città, infatti, squarcia in due il cielo della ‘ndrangheta reggina, ma non solo. Con la famiglia De Stefano, orfana del proprio leader, si schierano le cosche Libri, Tegano, Latella, Barreca, Paviglianiti e Zito. Assai composita anche la fazione degli Imerti, con cui si schierano i Condello, i Saraceno, i Fontana, i Serraino, i Rosmini e i Lo Giudice.

Reggio Calabria, ben presto, si trasforma in un campo di battaglia. Numerosi morti, anche nell’arco della stessa giornata. La città vive in un clima infame. La gente, anche quella perbene, ha paura per i propri bambini. Chiunque teme di rimanere coinvolto, inconsapevolmente, in uno dei tanti agguati giornalieri. I boss si guardano le spalle, si nascondono nelle proprie ville, nei nascondigli, veri e propri bunker. I capi sono introvabili. E allora ci vanno di mezzo i gregari, ma anche chi con la ‘ndrangheta non c’entra nulla. Le cosche colpiscono proprio tutti. La gente ha paura di uscire fuori di casa dopo una certa ora. C’è il coprifuoco, proprio come nelle zone di guerra.
Alla fine, si conteranno oltre 700 morti sul selciato. Il primo, proprio come lui voleva essere, fu proprio Paolo De Stefano.