Strade perdute| I monti di Paola tra oblio e magia

Eremi, allucinazioni collettive, animali preistorici: lungo la ferrovia un tempo attraversata dai treni a cremagliera c'è un mondo a rischio scomparsa

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Anche certe strade ferrate sono “Strade Perdute”. Una di queste è la linea ferroviaria a cremagliera tra Cosenza e Paola.
La Biblioteca Nazionale di Cosenza ha ricevuto in dono, pochi anni fa, le carte del compianto ingegner Francesco Sabato Ceraldi (Fuscaldo, 1888 – Roma, 1960) relative alla realizzazione di questi 35 km di linea, che lo tennero impegnato dal 1911 al 1915 . Dipendente delle FF.SS., Francesco Sabato (il quale aggiungerà il secondo cognome solo nel 1939) aveva preso servizio a 23 anni come ingegnere allievo ispettore. Diresse in prima persona il cantiere di Paola, ostico per quella pendenza del 75 per mille che obbligò all’uso della rotaia supplementare centrale: la cremagliera, appunto.

I monti di Paola

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Francesco Sabato Ceraldi

Questo suo fondo archivistico è un piccolo tesoro. Gioia non tanto e non solo per i topi d’archivio, ma anche per i cartografi e per chi si occupi di storia della tecnica. Circa un centinaio tra mappe e progetti, dal più generico al più particolare, dalla sezione longitudinale di ogni singola galleria all’edilizia ferroviaria di servizio, dalle varianti al tracciato più ardite, alle traversine, ai rubinetti dei servizi delle stazioni. E, infine, all’orografia dei monti di Paola, cupi e impenetrabili ora come allora.
Fatevi un regalo, consultate quelle carte, un affaccio sulla stratificazione storica di sentieri, fabbricati rurali, stradine, stradone, gallerie e, appunto, strade ferrate che lambivano – nolenti e piuttosto impotenti – burroni, fiumi. Persino quello scenografico eremo di Santa Maria di Monte Persano, in agro di San Lucido.

L’eremo e il laghetto

Il tracciato di quella ferrovia è oggi abbandonato. In parte lo hanno convertito in strada carrabile, altrove è un sentiero, in altre parti restano ancora i binari. L’eremo, oggi, è invece quasi sfiorato dall’orrenda SS 107 (sta pochi metri più su rispetto alla doppia galleria, per intenderci) mentre restava lontano dal vecchio tracciato della cosiddetta strada della Crocetta. Terra di curve e/o di gallerie, terra di mal di pancia o segni della croce se l’attuale treno da Paola a Castiglione Cosentino si dovesse fermare al buio in quei dieci minuti di galleria.

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L’eremo di Monte Persano, risalendo da Paola verso Cosenza

Strada gemella della vecchia Crocetta è invece la meno conosciuta SP 31. Sale da Fuscaldo verso Montalto, passando attraverso San Benedetto Ullano, il paese che diventò albanese senza esser nato tale. Mirabile allungatoia di fortuna, alla bisogna, che pochi hanno la curiosità di percorrere, per certe ritrosie abitudinarie che restano incomprensibili.
C’è pure un grazioso laghetto lì dove si scollina. E nel laghetto abbiamo finanche un primato, il nostro piccolo e più innocuo “mostro” di Lochness: il Tritone alpino (Triturus Alpestris Inexpectatus, si chiama proprio così), un animaletto preistorico sopravvissuto quassù, come tante altre cose…

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Il “laghicello” di San Benedetto Ullano

Lo Stromboli da sopra Paola

Ad esempio, quei riti – a metà tra realtà e leggenda – che altro non sono se non deformazioni degli antichi culti dionisiaci e orfici. Tra essi, la dibattuta farchinoria calabrese, nemmeno troppo differente da certi culti agrari relativi alla stregoneria popolare del nord-est italiano. Eppure è rimasta in un alone di mistero da quando lo studioso Giovanni De Giacomo provò a scriverne agli inizi del Novecento su una rivista tedesca di antropologia che rifiutò lo scritto in quanto troppo osceno e cessò poi le pubblicazioni.

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Un tritone alpino

Pazienza: abbiamo Tritone, Dioniso e Orfeo… possiamo accontentarci di questi tre. Se non fosse che dai monti di Paola si vede facilmente, e spesso, lo Stromboli. E allora mi vengono in mente i riti magici popolari di quelle isole e le formule del taglio delle trombe d’aria di cui ho già scritto. Quelle formule che risuonano e rimbombano sullo specchio d’acqua fra la Calabria e le Eolie, come minimo. Da millenni, sempre uguali.

Farchinoria ed ergotismo

E allora mi viene da chiedermi sempre la stessa cosa: quanto uso si faceva, qui dalle parti della farchinoria, della farina di segale? Vi chiederete cosa c’entri questa domanda. C’entra tantissimo: può muoversi un appunto nei confronti di Ernesto De Martino, ovvero il non aver esaminato a fondo la natura originaria di alcuni aspetti del mondo magico popolare, di quegli episodi legati all’onirismo, alle visioni e, aggiungo, alla credenza nei miracoli.
È noto, oramai, quanto alla base delle più diffuse credenze di carattere soprannaturale si debbano collocare iniziali episodi di isteria collettiva, psicosi collettiva o, ancor più acutamente, di ergotismo, ovvero la patologia conseguente alle epidemie di segale cornuta. Ed è altrettanto noto quanto, nel mondo antico, la segale fosse utilizzata nell’alimentazione. Già Ippocrate parla del “morbo negro” e solo più tardi si parlerà di secale luxurians.

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Pane di segale

Tuzzunara e LSD

Il fungo parassita detto Ergot è lo stesso da cui, verso la metà del Novecento, Albert Hoffman ricavò l’LSD. E ad Alicudi, per esempio, è ancora viva la memoria di allucinazioni collettive che produssero le più diverse forme oniriche tramandate, poi, in forma orale, alla stregua di leggende. La probabile epidemia di ergotismo che ne starebbe alla base è confermata dall’inveterato uso della segale nei processi di panificazione locale. Basti pensare che la farina prodotta con la segale alterata, quella appunto “cornuta”, aveva persino un proprio nome dialettale: la tuzzunara.

Memorie e oblio

Non è rimasto quasi nulla neppure di queste memorie. Siccome non si può pretendere da tutti la curiosità di uno storico né lo stesso suo attaccamento alle cose passate, succede pure che ognuno ricordi solo le cose vissute in prima persona e al limite quelle più interessanti raccontate dai propri genitori o dai propri nonni. Tutto il resto cade nell’oblio, di generazione in generazione, per incuria e per disinteresse, nel senso più stretto del termine: l’assenza di un profitto recepibile nell’immediatezza.

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Cantonieri calabresi a fine ‘800

Per le piccole cose materiali, la dinamica è più sottile: se si guarda quanti anni ha l’oggetto più antico che si possiede ci si può facilmente rendere conto della caducità della memoria materiale. E non mi riferisco certo all’antiquariato acquistato ex post ma agli oggetti di famiglia; nemmeno ai pochi fortunati casi di famiglie più o meno blasonate e più o meno fornite di patrimoni mobiliari aviti di qualche pregio. La giacca di quel nostro antenato del Settecento (e un rapido calcolo potrebbe mostrarvi con sorpresa come ciascuno di noi abbia necessariamente avuto all’incirca millecinquecento antenati diretti vissuti nel solo diciottesimo secolo) o lo scialle seicentesco di un’altra o il calamaio cinquecentesco o la forchetta quattrocentesca sono spariti.

Vecchio e antico

In parte ciò è giustificabile anche a seguito di fattori oggettivi che ne imponevano l’abbandono: si pensi alla peste del Seicento che costrinse a incendiare interi paesi con tutto quello che vi si trovava. E si pensi a quei cicli di impoverimenti che pure hanno colpito tutte le famiglie e che costrinsero alla vendita (e, d’altro canto, al furto) di quasi tutto ciò che si possedesse e almeno degli oggetti preziosi. Questa giustificazione non è applicabile però a tutto: il resto, se non degradato e non diversamente riutilizzabile, è stato deliberatamente gettato via quando era troppo vecchio e non ancora antico per essere apprezzato con altri occhi.
Cosa è vecchio, adesso, in questo momento storico? Cosa potrebbe diventare antico? E cosa stiamo perdendo senza magari nemmeno accorgercene?

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