Produrre alcool ha rappresentato da sempre un lavoro pericoloso pure in Calabria. Quanti nel corso dei secoli s’improvvisavano produttori dovevano fare i conti con due temibili nemici. Le leggi governative punivano gli alambicchi clandestini con sanzioni e arresti. C’era poi il rischio che il prodotto distillato “fai da te” provocasse intossicazioni da metanolo, ponendo gli improvvisati lambiccanti a serio pericolo di vita. Ciononostante, vuoi per bisogno, vuoi per ignoranza oppure perché si seguiva alla lettera l’adagio popolare secondo cui “un bicchiere non fa mai male”, la Calabria dei secoli passati vanta una radicata tradizione di distillerie e alambicchi più o meno legali.
Prega e distilla
Nel 1775 venne colto con le mani nel prezioso liquido un frate della Riforma a Cosenza e arrestato per aver prodotto acquavite tra le mura del monastero senza le dovute autorizzazioni. È proprio nella quiete dei conventi calabresi, dove i frati univano il lavoro alla preghiera, che si producevano i migliori prodotti dolciari ed enologici. Il nostro, affezionato, don Vincenzo Padula, ci racconta che le famiglie ne facevano provvista annuale. Da un suo “pezzo” del 1864 veniamo a conoscenza dei risvolti sociali dovuti all’istituzione della legge sul dazio-consumo nel neonato Regno d’Italia. La legge prevedeva un’imposta su diversi beni, tra cui vino, aceto, alcool e acquavite.
Per la vendita di quest’ultima nel comune di Bisignano si sarebbero dovuti pagare 14 carlini ogni due barili solo se superava i 59 gradi sull’alcolometro di Gay-Lussac. Tuttavia il letterato di Acri non mancava di osservare che «considerando che ciascuna famiglia ha il suo botticello di vino, e distilla ogni anno la sua provvisione di acquavite, noi chiediamo quanto vino, quant’acquavite si può mai vendere in piazza, perché il governo ne percepisca almeno ciò che basti a pagare gli agenti destinati alla riscossione».
Alambicchi in ogni comune
È lo stesso Padula a darci notizia che, sempre nel 1864, i «giovani intelligenti ed arditi» Raffaele Fera e Giovanni Noce avevano impiantato a Cosenza «una fabbrica di potassa con una distilleria, dando così un valore alle ceneri ed alle vinacce, che tra noi si buttano», ma che questi non avevano trovato appoggi e capitali. Le vinacce erano infatti semplici scarti della produzione del vino, e generalmente erano «mescolate al letame dopo che i maiali ne avevano mangiati i vinacciuoli». Nel 1879 veniva invece impiantata la distilleria a vapore dei fratelli Bosco e si riuscì a distillare circa 5mila ettolitri di vinacce.
Nel Cosentino si distillava dovunque. E infatti le inchieste governative attestavano che «in ogni comunello vi sono degli alambicchi semplici e pochi a serpentino», che spesso servivano per recuperare «qualche botte di vino guasto». Una macchina distillatrice introdotta nel Rossanese nel 1883 giaceva «inoperosa». E leggi restrittive avevano distrutto la produzione di alcool mediante alambicchi nel circondario di Castrovillari.
Nei dintorni di Cirò, oltre al rinomato vino, si produceva ottima acquavite. Nel 1849 gli alambicchi operativi erano 10. Come testimonia lo storico Giovan Francesco Pugliese, agli inizi del secolo erano molti di più, ma «dopo che l’acquavite si estrae in più luoghi, ed i rosolij ci vengono a migliaia di bottiglie a vil prezzo se n’è diminuito il numero». L’anice, «anisi di Cirò», restava comunque molto «stimato e ricercato». Il suo consumo, però, era ritenuto «pruova di cresciuta intemperanza, e di debilitati stomachi». Secondo lo storico, infatti, «non si beve caffè senza spirito».
Il primato di Reggio
Nell’Ottocento le distillerie e le fabbriche di liquori in Calabria erano tante, sparse nei territori delle tre province. Ma solo in poche riuscivano a emergere. In genere le fabbriche di liquori e quelle di “spirito”, cioè le distillerie, erano due produzioni separate. E solitamente le prime erano associate a quelle in cui si producevano dolci e confetture. Il primato ottocentesco nel campo della distillazione spetta alla provincia di Reggio Calabria. Intorno al 1890 vi operavano ben 22 fabbriche di “spirito”, 20 classificate come fabbriche che «distillano materie vinose e vino», le restanti due come «distillerie agrarie».
Le prime utilizzavano 24 alambicchi a fuoco diretto, le altre, invece, alambicchi composti. Tutte insieme giungevano a produrre migliaia di ettolitri di prodotto grazie a 87 operai sparsi nei diversi comuni. In particolare erano operanti 4 fabbriche a Palmi, che impiegavano insieme 17 operai; 3 a Gallico, Gioia Tauro e Seminara, e una a Bagnara Calabra, Bivongi, Campo di Calabria, Laureana di Borrello, Reggio, Rosarno, Sambatello, Tresilico e Villa San Giovanni. Si contavano poi innumerevoli fabbriche di liquori, dolci, frutta candita, torroni etc.
Catanzaro e Cosenza
Nel Catanzarese, nello stesso periodo, erano 15 le fabbriche di “spirito” operative, sparse da Borgia a San Vito sullo Jonio, da Casino a Sambiase, da Cessaniti a Palermiti, Cirò, Nicotera, Monteleone. Negli opifici disseminati in questi comuni lavoravano 18 alambicchi a fuoco diretto. Impiegavano 72 tra lavoratori e lavoratrici.
Nella provincia di Cosenza operavano, tra il 1892 ed il 1893, 21 fabbriche di “spirito”, ma di queste «soltanto 2 attive classificate fra quelle che distillano materie vinose e vino». Entrambe sorte a Cosenza, avevano due alambicchi che lavoravano «a fuoco diretto, producendo 219,95 ettolitri di spirito da 55° a 65°, corrispondenti ad ettolitri 128,44 di alcool anidro, ottenuto dalla distillazione di 9,544 ettolitri di vinacce». Le due fabbriche cosentine impiegavano complessivamente otto uomini. Tra le fabbrichette “miste” di liquori e dolciumi, spiccava a Rossano la ditta “Fratelli Bianco” che dava lavoro per una parte dell’anno a 24 operai.
La Stregaccia di Rossano
La città bizantina è stata sempre una zona di fermenti imprenditoriali. Nel campo dei liquori, alla ditta dei fratelli Bianco si aggiunse presto quella dei De Florio. Le due realtà finirono per fondersi intorno agli anni ’20 del Novecento, dando vita – come ci ricorda Martino Rizzo – alla Fratelli Bianco & De Florio. La punta di diamante della produzione era un liquore chiamato Stregaccia ma si producevano ed esportavano anche all’estero biscotti, torroni, confetti e dolciumi in genere. Sciolta nel 1936, la ditta si trasformò in Fratelli De Florio & C. e rimase attiva fino al 1973.
Amari e altri tonici
Nel 1920 il Silanus era la specialità dell’azienda Bozzo&Filice operante a Donnici, alle porte di Cosenza. La ditta, «premiata fabbrica di liquori con distilleria a vapore», produceva anche «Cognac distillato da puro vino, pari ai migliori francesi».
Preparato con erbe medicamentose colte sui monti dell’altopiano silano, si affermò alla fine degli anni ’20 l’amaro Magna Sila, veicolato da un marchio finalmente a colori su cui si leggeva: «Per le sue proprietà toniche è un potente ricostituente dell’organismo. Efficacissimo nelle convalescenze di lunghe malattie. Utilissimo nelle languide e stentate digestioni, nei bruciori, dolori di stomaco, coliche nervose e nelle flatulenze».
Tra Ottocento e Novecento Catanzaro poteva vantare invece il rinomato Cassiodoro. Era il prodotto di punta della Pasticceria, Vini, Liquori di Paolino Michele Potortì che metteva in bella mostra i premi conseguiti e gli encomi del Ministero dell’Agricoltura. Il «sublime liquore», cui si diede il nome del celebre politico, letterato e storico di Scolacium (Squillace) era presentato come un piccolo miracolo in bottiglia: «Tonico, ricostituente, antifebbrile, aperitivo, stomatico, digestivo». Una panacea, insomma.
Paisanella
«Distillare è come imitare il sole che evapora le acque della terra e le rinvia sotto forma di pioggia» affermava Dioscoride Pedanio, medico del I secolo d.C. Nonostante i fervori creativi non è tutto “oro” ciò che viene distillato. Sull’altopiano silano è attestata da decenni una produzione oscura, contrastata dalle norme ma validata e vivificata dalla tradizione.
Il giornalista e scrittore Amedeo Furfaro (Quante Calabrie, 2013) definisce quella della paisanella una «pratica produttiva popolare avente requisiti di antigiuridicità». Questo per due motivi fondamentali. La distillazione a livello casalingo ha sempre comportato l’evasione automatica di un tassa sulla produzione. E poi produrla in casa, senza controlli, esponeva a un forte rischio d’intossicazione da metanolo, sostanza altamente nociva e in alcuni casi mortale.
Alambicchi silani: i segreti della paisanella
Ciononostante la grappa era il corroborante per antonomasia dei contadini, dei mandriani, dei cacciatori e di quanti e quante si spaccavano la schiena dall’alba al tramonto. Trangugiare d’un sol colpo uno o più bicchierini permetteva di scacciare oltre al freddo e alla stanchezza gli affanni dell’esistenza per abbandonarsi a un profondo sonno ristoratore. I segreti della produzione della paisanella sono custoditi gelosamente dai montanari, al pari di quell’umile teoria di oggetti utili a darle vita.
Secondo Furfaro (La paisanella, la grappa calabrese fuorilegge in Calabria Sconosciuta, 1987) occorrevano un fusto o marmittone (detto anche quararella), completo di cupola (cappiellu), cannuccia e treppiede (tripitu). La prima fase consisteva nel cambio della cosiddetta fezza (la zavorra del vino) dalle botti. Ciò avveniva nei mesi di marzo o aprile. Verso settembre, poi, la si riponeva nel fusto mescolata ad alcuni litri d’acqua.
Il composto ottenuto veniva quindi portato a ebollizione a fuoco molto lento, aggiungendo man mano altra acqua dalla cupola, con la premura di cambiarla non appena diventava tiepida. Giungeva infine tanto agognato il momento in cui era possibile raccogliere, goccia dopo goccia, il prezioso fluido dalla cannuccia.
Paisanella: da San Giovanni in Fiore a Longobucco
Il “codice” dei vecchi distillatori silani ammette pure delle varianti. Colore, sapore e gradazione venivano opportunamente dosati a seconda dei gusti del produttore, che poi era spesso anche consumatore principale. A tal proposito a San Giovanni in Fiore si ravvisava una paesanella meno aromatizzata rispetto a quella che si produceva a Longobucco. Ad attenuare l’acidità del distillato contribuivano scorze d’arancia, pere, gusci d’uovo, fichi secchi e a volte qualche tozzetto di pane duro, mentre i lambiccanti più raffinati v’immergevano cedro o limone.
Il primo “prodotto” della distillazione veniva generalmente “ripassato” più volte nello stesso alambicco o in un altro più piccolo in rame o in lamiera e, senza aggiunta ulteriore d’acqua, si poteva ottenere una gradazione superiore ai 40 gradi. Nonostante il suo essere fuorilegge, la paesanella che veniva prodotta in casa dai contadini tra i monti della Sila aveva un valore d’uso non indifferente. Essendo una produzione limitata e appannaggio dei ceti più umili, il distillato assurgeva spesso a dono da inviare a coloro i quali non lo producevano, cioè i borghesi. Così, divisi ma uniti nelle fragorose sbornie silane a base di paesanella, il povero e il ricco si davano alcune volte la mano, molto più spesso le lame.