Questa tappa di Gente in Aspromonte riguarda medie valli, allevamenti, suini, cooperative, testardaggine e riscatto dalla marginalità. Ne sono venuto a conoscenza da un intreccio di contatti passato per la Toscana e rimbalzato a Reggio Calabria. Capito di cosa si trattasse, ho creduto che la storia che segue dovesse essere raccontata. Perché è l’emblema di come l’impegno sociale, la cultura imprenditoriale, il riscatto dalla marginalità e le convergenze possano creare occasioni di sviluppo. Anzi, di sviluppo da una rinascita. Da un ritorno.

Lungo la Statale 106
L’appuntamento con i suoi protagonisti è ad Ardore Marina, a due passi da Locri, una novantina di km da Reggio da attraversare sulla SS 106. Dalla città, imboccando la litoranea, ci si tuffa in un percorso sospeso tra mare e monti verso sud. Oltrepassa promontori, scavalca scogliere, si incunea snodandosi tra i bianchi calanchi fino a gettarsi tra le gallerie della nuova superstrada. In primavera si aprono vallate aggredite e inondate dalla ginestra, dove, a volte, la macchia mediterranea è stata usurpata dall’impianto di eucalipti. Superata Palizzi, la nuova pedemontana sfuma sulla vecchia litoranea tra pinete, canneti e abusivismo edilizio. Il viaggio sulla SS 106 verso la Locride ha sempre il suo effetto: il filmato di un eterno conflitto, quella strana commistione dove l’arcaico si mischia al tempo immobile di una provincia che ruota intorno a un bar, a una cattedrale, a qualche esercizio commerciale; una provincia sfregiata dal cemento, dall’isolamento e da una sorta di determinismo ineluttabile a cui pare si nasca già inchinati.

Il maiale nero allevato in semilibertà
Arrivo ad Ardore alle 10 di un mattino che odora di pioggia. Mi aspettano in piazza Piero Schirripa e Attilio Cordì, fondatori della Coop Maiale Nero d’Aspromonte. Piero e Attilio hanno due passati molto diversi alle spalle, per formazione, retroterra familiare, percorsi di vita. Entrambi hanno lasciato qualcosa e trovato qualcos’altro in un’odierna comunione di intenti che li ha resi compagni per sorte, impegno e passioni. Parcheggio e me li trovo davanti. Il primo vestito da caccia, lo sguardo acuto dietro gli occhiali, e il secondo con la sua cartellina in mano e gli scarponi da montagna ai piedi. Un caffè al volo e ci spostiamo a Baracalli, verso l’allevamento di Fortunato Sollazzo, uno dei 18 che sono parte della loro cooperativa.

Contrada Baracalli è una frazione del Comune di Benestare. Siamo a 400 metri sul livello del mare, nella media valle del comprensorio. Dall’alto, dove ci fermiamo a scattare qualche fotografia, l’allevamento si confonde tra la vegetazione. Attilio mi affianca e punta il dito davanti a me ad indicare qualcosa: «Lo vedi quel verro che corre?». Aguzzo la vista e, in corrispondenza al suo dito, noto una macchia scura che si aggira sulle pendici dei monti. «I nostri allevamenti seguono questi standard: la sostenibilità, il benessere animale, la semilibertà. Andiamo che ti presento Fortunato».
Benedetta da Dio
Quasi cinquantino, Fortunato è un tecnico installatore e un allevatore restato per passione: «Benvenuto!» Parte il secondo caffè. «Viviamo in una terra benedetta e conflittuale. Siamo figli degli arabi. Baracalli è un toponimo arabo: Baraq Allah, benedetta da Dio. Per anni, finché non ci siamo insediati, questi terreni sono rimasti abbandonati. Ma qui sono nato e qui voglio restare, seminando per raccogliere i frutti del mio lavoro. La mia azienda sorge nel 2017 come allevamento della razza appulo-calabrese. Quando è nata la cooperativa ho deciso di aderirvi e di cambiare tipologia di suino. Oggi mi occupo di maiale nero d’Aspromonte».
Fortunato, come poi Piero e Attilio, mi spiegano che si tratta di una razza unica che ha rischiato l’estinzione e che differisce dal suino nero. Questi maiali portano con loro caratteristiche organiche e nutrizionali uniche e si distinguono dagli altri per la presenza di una coppia di bargigli sotto la mandibola, ancora oggetto di studio. Probabilmente la loro funzione è di regolare la sudorazione e la temperatura corporea di animali robusti che vanno dai 100 ai 120 kg e le cui carni, particolarmente apprezzate per la produzione di prosciutti e culatelli, hanno una qualità straordinaria.
Una lotta contro l’abbandono
«Alleviamo il fresco, non facciamo trasformazione. La cooperativa ci aiuta a vendere sia su base locale che su base nazionale. In pochi anni abbiamo raggiunto risultati eccezionali. La tipologia di allevamento che ho realizzato progetta il futuro guardando al passato: i maiali in antichità – e la storia dell’Aspromonte ce lo insegna – era allevato al pascolo, non stallato. L’allevamento massivo provoca cariche batteriche altissime. I nostri maiali vivono in semilibertà, hanno a disposizione lo spazio vitale che occorre affinché crescano sani, robusti e seguendo un ritmo naturale. Sono partito da zero, senza supporti o sovvenzioni. Oggi ho 13 dipendenti e mi batto perché le istituzioni capiscano l’importanza del mio lavoro e di quello degli altri allevatori. Finché la montagna e la media valle non sono state abbandonate, parlo degli anni ‘60 e ‘70, la campagne venivano pulite, i torrenti controllati. Oggi è tutto all’abbandono».
L’allevamento di Fortunato sorge su un terreno argilloso, ricco di potassio, accanto al letto di una fiumara che non ha più argini. «Voglio lottare perché il minimo indispensabile sia realizzato, perché avvenga un ripristino dell’area rurale. E non sono il solo. Ho con me gli altri allevatori».
L’unione fa la forza? Fuori dalla Calabria
In tutti i viaggi che ho fatto, la Cooperativa del Maiale Nero d’Aspromonte è la prima – e forse unica – coop di medie dimensioni che ho incontrato. Per uno che ha vissuto diversi anni tra Umbria ed Emilia Romagna è respirare una boccata di aria. Quello che mi sono sempre chiesto è perché il modello cooperativo in una terra priva di grandi realtà imprenditoriali e vocata ad agricoltura, allevamento e turismo non riesca, con tutti i suoi limiti, ad attecchire. Fortunato ne fa un problema culturale: «Noi calabresi siamo individualisti e conosciamo fin troppo bene i meandri dell’invidia. Due sentimenti ottusi e controproducenti che ci dispongono gli uni contro gli altri. Manca completamente la cultura dell’impresa e del lavoro, non il lavoro. Con la terra si può vivere. Anche in Calabria. Io ho difficoltà a trovare operai: quando sentono maiali e fatica si intimoriscono. Ma il nostro non è un allevamento intensivo, non esci puzzando di stalla, letame ed urina. Puoi vederlo da te. Decenni di assistenzialismo hanno prodotto il disastro culturale che abbiamo sotto gli occhi, che poi si trasforma in disastro economico e sociale. Non scordiamoci la storia dei finti braccianti agricoli. Oggi paghiamo le conseguenze, trovandoci una serie di terreni abbandonati».
Un seconda possibilità per gli ex detenuti
È quello che ci ha tenuto subito a precisare Piero. Perché la cooperativa viene da lontano ed è uno dei tanti progetti avviati grazie all’aiuto dell’allora arcivescovo di Locri, Giancarlo Bregantini, in prima linea per sottrarre terreno al malaffare e promuovere una nuova fioritura della Locride: un’iniziativa partita dalla ricerca di esemplari di maiale nero in Aspromonte e poi concentrata sul miglioramento della specie. La cooperativa, infatti, è nata anche con l’obiettivo di dare una nuova possibilità di vita ad ex detenuti: «Ci sono due modi per aiutare i più deboli: o fai assistenzialismo, con i gli inevitabili danni che seguono oppure dai loro una canna da pesca insegni a pescare. Noi abbiamo deciso di dare le canne da pesca agli ex detenuti. Con loro abbiamo realizzato 40 ettari di serre e un’organizzazione con venti aziende di allevamento. Aiutare significa dare una vera chance di vita, dotando di gambe per poter camminare autonomamente. Con sacrifici, spesso attingendo alle nostre tasche, abbiamo messo su attività sociali e produttive al tempo stesso, aziende che operano sul mercato. La nostra ricetta è stata prendere soggetti deboli e farli diventare forti».
Un cammino pieno di ostacoli
E non è stato facile, perché «abbiamo subito tre interdittive antimafia, dato che lavoravamo con gli ex detenuti della Cooperativa Valle del Buonamico. Una cosa folle. Non avevamo nulla di che temere e infatti l’abbiamo spuntata sia al Tar che al Consiglio di Stato, ma abbiamo pagato un doppio prezzo molto caro, primo perché si tratta di procedimenti giudiziari costosissimi, secondo perché in prima battuta il progetto è naufragato».
Piero, che da direttore sanitario dell’ospedale di Vibo Valentia, ha subito intimidazioni e attentati senza mai piegarsi – come anche riportato nei verbali delle testimonianze dell’inchiesta Rinascita-Scott -, si riferisce al progetto originario avviato con un finanziamento congiunto di Regione Calabria e MIUR di 670.000 euro. Una ricerca tesa a studiare le caratteristiche del suino nero d’Aspromonte per tipizzarlo e verificare, attraverso lo studio del suo DNA, se costituisse razza a sé.
«In particolare dato che il maiale ha i suoi tempi, e non segue di certo quelli giudiziari, l’intera impalcatura della ricerca è venuta meno. La Regione ha proposto di recuperare la cosa in maniera cartacea, ma noi non abbiamo accettato. Però dopo dieci anni di percorso carsico, anche senza finanziamenti, con la nostra passione, abbiamo mantenuto in vita questa idea e poi siamo esplosi».
I maiali con più omega 3 dei pesci
Oggi la Coop Maiale Nero d’Aspromonte è una realtà che punta in alto. Mi racconta Attilio che «grazie alla preziosa collaborazione con il professor Pino Maiorana dell’ateneo di Campobasso il nostro percorso di ricerca prosegue. Prendiamo campioni di carne, li analizziamo, li categorizziamo e realizziamo la carta di identità del maiale che viene consegnata all’acquirente. Abbiamo scoperto che i nostri maiali possiedono caratteristiche uniche: un quantitativo di omega 3 superiore ai pesci con un rapporto con gli omega 6 pari a nessun altro; livelli importanti di topoferolo e di acidi grassi saturi e insaturi. E la presenza di buone proporzioni di acido leico e linoleico che richiedono sì una stagionatura più lunga delle carni, ma, in termini di qualità, l’attesa vale la pena».
Il maiale aspromontano sulla tavola dei Windsor
Attilio è un ritornato. Porta un cognome pesante e ritorna a nuova vita da un passato spietato che ha ripudiato affrancandosene completamente. Una rinascita, meglio che un ritorno, grazie a questo cammino fatto di impegno e di lavoro a contatto con la natura e gli animali. Attilio, per chi lo vuole e lo sa guardare, è un simbolo di riscatto. Oggi è coordinatore e direttore tecnico della cooperativa.
Mi racconta anche che le loro carni, vendute e lavorate nelle aziende toscane e romagnole di assoluta eccellenza vengono servite sulle tavole delle Real Case di mezza Europa, Windsor e Grimaldi per primi. «Collaboriamo con nomi noti della gastronomia italiana come le sorelle Gerini in Toscana e Massimo Spigaroli, re del culatello di Zibello. Hanno colto immediatamente la qualità del nostro prodotto. E sono stati quelli che ci hanno realmente supportato. Oggi la cooperativa è un laboratorio in continua evoluzione. Come ti ha detto Fortunato, si tratta di una realtà che mette al primo posto il valore della sostenibilità e del benessere animale: un modello seguito da diciotto aziende, quattro delle quali si trovano qui ad Ardore».

Non solo nero d’Aspromonte
Ma dietro i maiali c’è di più: una strategia di lungo respiro che mira alla creazione di una filiera. Un obiettivo realizzabile non solo attraverso l’offerta di un prodotto di eccellenza, ma soprattutto promuovendo un cambio culturale: «Abbiamo avviato un progetto importante tra Locri e Crotone partito dalla collaborazione tra GAL Terre Locridee e Kroton per la creazione di un sistema regionale del suino nero. E abbiamo iniziato un percorso di qualità con le macellerie cui forniamo sia i certificati di tracciabilità, sia una sorta di bollino da esporre in vetrina per avvisare che in quell’esercizio si vendono i nostri prodotti. Che saranno forse un po’ più cari, ma con cui puoi stare sicuro di nutrire al meglio i tuoi figli. Parliamoci chiaro: in quattro mesi non puoi fare un maiale di 160 kg!».
Peste suina: gli allevatori chiedono un incontro con la Regione
Gli ostacoli che si presentano su questo cammino sono tre e tutti di differenti ordini: il primo è il nodo legato allo sviluppo di quella cultura del lavoro e della condivisione di cui parlava Fortunato Sollazzo; il secondo relativo alla necessità di una forte regia pubblica che sostenga e coordini lo sviluppo della filiera; il terzo connesso alla contingenza dell’epidemia di peste suina africana per la quale lo scorso 19 maggio la Regione ha emesso un’ordinanza che istituisce una zona infetta in ventisette comuni del comprensorio aspromontano, soggetta a diverse restrizioni e variabile a seconda dell’estendersi della malattia. Proprio in queste ore gli allevatori della zona, che è ancora salubre ma dove vige il divieto di macellare, sono in riunione per chiedere un tavolo tecnico alla Regione.

«La Regione sia più vicina»
Piero Schirripa non ha mezzi termini: «Sembra che le nostre istituzioni, e in particolare la Regione, siano restie. Nonostante il prezzo dei cereali sia aumentato a causa della guerra, la Calabria, a differenza di altre Regioni con i loro allevatori, non ci ha dato una mano. Abbiamo illustrato la situazione ai nostri clienti toscani e romagnoli che hanno deciso di aumentare il prezzo di acquisto del 15%. Il prodotto finale costa di più ma l’aumento del prezzo è quasi irrisorio per la loro fascia di compratori. A noi invece questa percentuale consente di proseguire la nostra attività. Tutto questo perché i nostri maiali sono insostituibili. Vorremmo che la Regione facesse di più».
La Regione però in qualche modo ha cercato di fare il proprio lavoro. Lo scorso dicembre 2021 ha siglato un accordo di programma quadro insieme all’Agenzia per la Coesione Territoriale e diversi Ministeri per lo sviluppo dell’Area Interna – Versante Ionico Serre, in cui, nell’ambito del progetto di Biodistretto del Parco delle Serre e dei territori limitrofi, prevede «attività integrate di animazione e di accompagnamento verso il Distretto del Cibo, tra biodiversità ed agricoltura biologica».
Menzione specifica è fatta per il maiale nero d’Aspromonte che rappresenta una delle razze (se sia razza è tutto da vedere) che sta «esprimendo anche importanti effetti economici». La Regione ha intuito il potenziale di questa filiera. L’accordo mette in relazione rafforzamento del capitale sociale, miglioramento delle condizioni economiche del territorio, tutela delle matrici ambientali non rinnovabili e conservazione del paesaggio, in un «modello produttivo e relazionale sostenibile dal punto di vista ambientale, economico e sociale», volano per quel turismo naturalistico, lento ed esperienziale di cui mi aveva parlato Nicola Pelle.
Economia della montagna
É quello che ha auspicato monsignor Bregantini durante il nostro breve contatto telefonico: «Noi abbiamo creato i punti, ora è compito della politica tracciare la linea e mettere in campo una strategia». Vedremo se si passerà dai documenti programmatici ai fatti. Perché il ruolo del settore pubblico in questo meccanismo è essenziale, sia per fare sistema, sia per costruire un’economia della montagna.

«Realizzarla è possibile. Noi stiamo facendo il nostro, ma serve più impegno. Guarda che cosa succede alle ghiande. Qui ne perdiamo tonnellate e non abbiamo a chi rivolgerci sul territorio. Se vogliamo acquistarne, dobbiamo spostarci al confine con il catanzarese. Io le comprerei a 35-40 euro a quintale per i miaiali. Perché non supportare la nascita di una cooperativa di ragazzi che si occupi della loro raccolta e vendita? Con i sistemi innovativi oggi a disposizione, basterebbero poche ore di lavoro per aggiungere un punto che rafforzerebbe la nostra filiera creando nuovi spazi di occupazione», mi racconta Fortunato.
Verde e blu
Restituire alla montagna la presenza dell’uomo non è un dettaglio: «Senza l’uomo la montagna crolla. Noi abbiamo inventato lo slogan “Se la montagna è verde il mare è blu”. Il pastore e il contadino devono tornare a essere i suoi custodi. Norman Douglas racconta vividamente come l’Aspromonte fosse battuto da mandrie di capre e di maiali che non erano semplicemente libere, ma condotte al pascolo come faceva il porcaro Eumeo. L’uomo irreggimenta le acque, ripara i muri a secco. Queste cose non vengono capite dalle istituzioni che arriveranno quando sarà troppo tardi. Abbiamo un’emergenza in corso legata alla presenza di insetti e parassiti come la processionaria che divorano le foglie dei lecci. Ce ne accorgeremo quando non avremo più alberi?».
Non è l’unico problema: «Stesso dicasi – continua Piero – per al presenza poco regolamentata di lupi e cinghiali. Sono un anello del nostro ecosistema, ma non possono essere abitanti esclusivi. Il lupo aggredisce capre e pecore e senza una regolamentazione gli allevatori vendono il bestiame e chiudono le attività. Gli amministratori pubblici sono chiamati ad occuparsene perché vengono pagati per questo con i nostri soldi. Se non lo fanno, devono pagare. Serve una nuova mentalità: il futuro della forestale non è più legato alla presenza di agenti o guardaboschi che ci sono e non ci sono: bisogna fare spazio ad agronomi, tecnici dotati di moderne tecnologie, architetti ambientali. Porremmo un freno anche alla costante emorragia demografica», chiude Piero.

Un sistema complesso
La relazione tra montagna verde e mare blu spiega in quattro parole la fragilità e la complessità del sistema-Aspromonte, del rapporto osmotico e dell’equilibrio tra l’altura e la costa. Di quell’interdipendenza che li rende una cosa sola e che dimostra quanto frammentazione e ordine sparso ostacolino visioni e strategie di sviluppo congiunto.
Al ritorno imbocco la Limina, la cosiddetta strada dei due mari che taglia in due l’Aspromonte lambendo la Piana di Gioia Tauro. In radio passano Via del Campo. Ripenso a Piero e Attilio e alle loro storie. Ché è proprio vero che dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori.