Un ennesimo documentario, questa volta prodotto da SkyNews, propone 20 minuti di riprese in Calabria per spiegare How To Fight the Mafia, come combattere la mafia (nello specifico, la ‘ndrangheta).
Il fermo immagine del video è immancabilmente la figura del procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri. L’inizio è una marcia dei carabinieri con scudi protettivi e bastoni minacciosi su cui si inserisce la giornalista. Dice «This is Mafia Land», «questa è la terra della mafia», a braccia aperte verso l’alto.
Con un inizio così terribile ci si auspicherebbe un miglioramento nel contenuto che segue, ma il documentario purtroppo non migliora. Se l’obiettivo era spiegare all’audience come si combatte la mafia, chi guarda non può che uscirne confuso.
La Calabria tutta ‘ndrangheta di SkyNews
La giornalista visita San Luca e Platì. Parla con i carabinieri locali, le fanno vedere qualche bunker e delle foto in caserma con su scritto “catturato”, molto sceniche. Gli stereotipi arrivano subito a «Mafia Land», con commenti sulla gente di San Luca e Platì che guarda curiosa e torva dalla finestra. Seguono i soliti numeri mitologici della ‘ndrangheta: il controllo dell’80% del mercato della cocaina europea e il fatturato annuale di 60 miliardi di euro. Entrambi appaiono periodicamente sui media senza una vera spiegazione su come si ricavino.
Si passa poi ad un volo panoramico coi Cacciatori d’Aspromonte, la squadra speciale dei carabinieri a cui la giornalista chiede «Quanto è difficile il vostro lavoro?».
Poi, senza soluzione di continuità né spiegazione del cambio di passo e luogo, ecco il racconto di una vittima di mafia, a Lamezia Terme. È l’assist all’ultima parte del programma sulla ‘ndrangheta di SkyNews, centrato sul processo Rinascita-Scott e sul procuratore Nicola Gratteri.
A onor del vero bisogna menzionare un raro momento di illuminazione nel dare spazio a un commento del comandante della stazione dei Carabinieri di San Luca, Michele Fiorentino. Il militare ricorda come non solo ci siano persone oneste a San Luca ma anche come il ruolo dello stato sia di proteggere loro, gli onesti, e non solo arrestare gli ‘ndranghetisti.
Altro momento interessante è la risposta finale di Gratteri alla domanda sulla possibilità di sconfiggere la ‘ndrangheta. Il procuratore dichiara che l’unica cosa che si può fare è tentare di indebolirla, sapendo che probabilmente, in questa vita non la sconfiggerà.
Romanzo criminale
Nicola Gratteri, da uomo intelligente e magistrato competente, conosce il potere della comunicazione e per questo investe in un’attività di divulgazione continua sul fenomeno che il suo ufficio contrasta. La sua figura, proprio perché capace di comunicare facilmente contenuti complessi, viene però spesso strumentalizzata da prodotti televisivi, mediatici, radiofonici che vogliono spettacolarizzare la mafia, amplificarne l’abnormalità, esacerbarne la difformità da una presunta normalità di altri. Questi altri sono però mutevoli: poco di frequente gli altri calabresi, a volte gli italiani, molto più spesso l’audience di riferimento dell’emittente estera, che siano gli inglesi, i tedeschi, i canadesi.
Ed ecco poi che invece di intavolare un discorso serio, che so, sullo stato della giustizia in Italia, sugli effetti nefasti che alcuni provvedimenti antimafia, anche quelli approvati coi migliori intenti, producono sul territorio, si finisce per raccontare di come il procuratore di Catanzaro non possa più nemmeno coltivare il suo giardino e accudire i suoi polli senza le telecamere (poveri polli senza privacy, verrebbe da dire).
Una spettacolarizzazione ad personam della lotta alla mafia operata soprattutto dai media esteri – ma, a dire il vero, qualche volta anche da quelli italiani – che sminuisce il lavoro delle (altre) procure, appiattisce l’impegno serio e di lungo corso del procuratore Gratteri a una narrazione da thriller. E ha onestamente stancato chi di noi vorrebbe contenuti con un minimo di spessore analitico.
1897-2023: cosa è cambiato?
Comunque, se anche lo spessore analitico non si potesse avere per ragioni stilistiche e di target/audience, che ci sia almeno una correttezza di narrazione nel prodotto di “intrattenimento”.
L’assenza di voci di contrasto – che siano i cittadini, i sindaci e le istituzioni amministrativo-politiche e le associazioni – rende documentari come questo parziali e non molto utili nel descrivere “come combattere la mafia”. Ma qui il mio lavoro da analista finisce, si entra in altri settori – la produzione televisiva e il giornalismo – che non mi competono. Quel che però un documentario come quello di SkyNews dovrebbe suscitare è un dibattito su come la Calabria viene raccontata anche quando si parla di ‘ndrangheta.
Siamo rimasti alla questione meridionale, dove l’arretratezza del Sud, la sua mafia, il malcostume e il malaffare, sono diventate caratteristiche non solo dilaganti, ma praticamente “razziali”, identitarie di un omologato meridione “diverso” che provoca stupore e quasi un’attrazione morbosa da circo in chi lo guarda da fuori.
Poco è cambiato da quando Lombroso, che il meridionalismo lo aveva riconosciuto ed anticipato di qualche anno, scriveva nel suo libro L’Uomo Delinquente, edizione del 1897: «Una prova, pur troppo evidente, che la formazione delle associazioni malvagie dipende dall’adattamento all’indole od alle condizioni di un paese, l’abbiamo nel vedere ripullulare spontanea la mafia e la camorra, anche dopo la distruzione od il sequestro dei suoi membri».
Ineluttabile fato affligge il calabrese a ripetere i suoi errori, tanto da non chiedersi più nemmeno perché accade. Ma anche estrema verità che Lombroso aveva colto: ci si adatta anche alla mafia nelle “condizioni del paese”.
Un problema complesso
Quando si arriva in Calabria e si sceglie di raccontare come SkyNews la ‘ndrangheta come onnipresente, ultra-fagocitante bestia che attanaglia una regione ineluttabilmente piegata al suo volere, si racconta infatti solo una parte del problema mafia. Si appiattisce il problema e lo riduce a un unico nemico. Raccontarne invece la complessità richiederebbe parlare dei calabresi che in convivenza con la ‘ndrangheta – in quei territori “controllati” aspromontani, per esempio – fanno invece altro, molto altro.
Come andare in pellegrinaggio di una giornata al Santuario della Madonna di Polsi, ignorandone le sue strumentalizzazioni mafiose, invocando le grazie della Madonna della Montagna. Magari suonando una tarantella che a provare a ballarla ti manca il fiato, tanto è dinamica, tanto è vitale.
No: non si tratta di proporre la solita narrazione della Calabria-folklore, che ignora la presenza della mafia e guarda solo al bello che qui da noi c’è. Si tratta di raccontare insieme la mafia che esiste e opprime e la gente comune che si adatta e ci convive. Conviverci non significa necessariamente piegarsi o approvare il comportamento mafioso, ma accettare che tutti i luoghi sono plurali e che esistono insieme tante dinamiche personali e sociali che esulano dalla nostra sfera di controllo personale.
Come bestie al circo
Si potrebbe dunque raccontare la tensione, in alcune parti della Calabria, nel vivere la presenza mafiosa al pari dell’immobilità sociale: ineluttabilmente. Scriveva ancor Lombroso nel suo saggio scritto dopo tre mesi in Calabria, nel 1863, «ogni lamento sarebbe lieve a deplorare lo stato in cui giace in Calabria l’educazione della mente e del cuore del popolo». Interverrebbero a mutare questi assetti sicuramente la fiducia verso lo Stato e la sua azione propulsiva, lo sviluppo economico, la coesione sociale promossa come strumento di questo sviluppo economico. Le colpe, in Calabria, si sa, non sono solo della ‘ndrangheta, che di questa terra è madre e figlia al tempo stesso.
Tornando al documentario di SkyNews sulla ‘ndrangheta a Mafia Land (e alle sue approssimazioni), si constata invece come il processo di “alterizzazione” – e cioè di additamento dell’altro come diverso, strano, pericoloso (in inglese si chiama othering) – sia ancora la normalità per molti media esteri. Ci guardano, a noi in Calabria, come “animali in gabbia” da strumentalizzare per il proprio intrattenimento.
Non si comprendono le radici profondamente sociali di certi fenomeni, inclusa la mafia, e soprattutto gli effetti dannosi di una narrazione centrata sull’alterità, l’abnormalità e il martirio di chi la combatte.
Così non si informa bene sulla mafia e non si aiuta l’antimafia. Anzi, la si confonde e la si mina dal basso, alienando proprio quella gente che a San Luca e Platì guarda fuori dalle finestre quando passano le telecamere. E si chiede, forse, quando andranno via gli spettatori del circo.