La vecchia ‘ndrangheta dei don ‘Ntoni Macrì, di don Mico Tripodo, spazzata via dal nuovo che avanza, dalla famiglia De Stefano, soprattutto. Ma anche dai Piromalli di Gioia Tauro. Negli anni ’70 si registra il cambio di passo della ‘ndrangheta. I vecchi capi, ancorati al traffico di sigarette e contrari a quello della droga, cadono uno dopo l’altro. Si apre così una delle stagioni più oscure della storia recente del Paese. Con manovre torbide tra uomini delle ‘ndrine, faccendieri e pezzi dello Stato.
La ‘ndrangheta vuole darsi una svolta. È, in particolare, don Mommo Piromalli, leader carismatico di Gioia Tauro, a tracciare la via. E, immediatamente, la seguono in molti. In particolare Paolo De Stefano, boss dell’omonima, potentissima, cosca di Reggio Calabria.
La lungimiranza di don Mommo mostra alla ‘ndrangheta quanto possano essere redditizi i sequestri di persona (oltre cinquanta dal 1970 al 1978). E, soprattutto, quanto sia conveniente investire i proventi di questi nell’edilizia. È una vera e propria escalation. E, in Aspromonte, segregato, finisce anche Paul Getty III, nipote del celebre magnate americano.
Le parole dei pentiti
«Per quanto mi risulta, la morte di Antonio Macrì ebbe una duplice motivazione: la prima, più generale, dovuta al fatto che egli si opponeva al riconoscimento della Santa entrando per questo in conflitto con Mommo Piromalli; la seconda perché aveva protetto e continuava a proteggere a Mico Tripodo e quindi si era creato quali nemici coloro che si opponevano al potere del Tripodo a Reggio Calabria» dice il collaboratore di giustizia Gaetano Costa, in un interrogatorio del 12 marzo 1994 confluito agli atti dell’indagine “Olimpia”.
Un pensiero ribadito anche da un altro pentito, Giuseppe Albanese, nel tratteggiare la nascita della “Santa”, la sovrastruttura della ‘ndrangheta che permette di gestire i rapporti con mondi occulti come quelli della massoneria e dei servizi segreti deviati. «La “Santa” si proponeva qualunque forma di illecito guadagno, la commissione di delitti che in passato la ‘ndrangheta non consentiva (sequestri di persona e traffico di droga) e il santista aveva l’opportunità di avere contatti con esponenti delle istituzioni, contrariamente con quanto avveniva in passato».
“Due Nasi”
Personaggio emblematico di questo nuovo modo di fare è ‘Ntoni Nirta, detto “due Nasi” per il suo vezzo di portare sempre con sé un’arma a doppia canna. Nirta sarebbe stato anche un confidente dei carabinieri in contatto con il capitano Francesco Delfino, che poi farà grande carriera all’interno dell’Arma dei Carabinieri. Chiaramente entrambi hanno smentito tale circostanza.
Nirta è tra i principali imputati nel processo per il sequestro di Paul Getty junior (nipote del magnate statunitense, ma naturalizzato britannico, Paul Getty), rapito a Roma il 9 luglio 1973, ma viene assolto per insufficienza di prove.
Il ragazzo, sedici anni, viene liberato dopo 158 giorni: il riscatto costa alla famiglia 1 miliardo e 700 milioni, a Paul Jr il taglio del lobo di un orecchio.
Quello è forse il sequestro di persona più celebre: a Bovalino, nella Locride, esiste un intero quartiere denominato “Paul Getty”, proprio perché sarebbe stato interamente edificato con i soldi del riscatto pagato dal miliardario.
Il caso Paul Getty
Dai primi anni ’60 alla fine degli anni ’70, la ‘ndrangheta avrebbe rapito quasi 500 persone. Sono gli anni in cui la ‘ndrangheta fa i soldi in quel modo: sequestri di persona e traffico di sigarette. Sarà la prima guerra di ‘ndrangheta, con l’uccisione dei boss Macrì e Tripodo a sancire il cambio di rotta sugli affari, con l’ingresso, prepotente, del traffico di droga, voluto dal “nuovo che avanza”, rappresentato dai De Stefano, soprattutto.
Ma tra gli anni ’60 e gli anni ’70, il business è quello: furono nel mirino dei sequestratori i professionisti e gli imprenditori più benestanti della ‘ndrangheta; unico sequestro avvenuto in un arco temporale diverso, quello (tra i più celebri) del giovane Cesare Casella, del 1988 e durato 743 giorni. Le persone sequestrate venivano nascoste nel territorio aspromontano, le ‘ndrine coinvolte erano quelle di Platì e San Luca che operavano in Piemonte, quelle del reggino e del lametino in Pianura Padana e infine quelle di Gioia Tauro e della Locride a Roma.
La stagione dei sequestri: la ‘ndrangheta e i servizi segreti
La stagione dei sequestri, comunque, non sarebbe stata solo una questione delle ‘ndrine. Ancora una volta, le cosche calabresi e i pezzi deviati dello Stato si sarebbero seduti allo stesso tavolo. È il collaboratore di giustizia Nicola Femia ad aprire nuovi inquietanti scenari. Femia, da ex uomo forte della ‘ndrangheta in Emilia Romagna, decide di collaborare dopo essere stato pesantemente condannato in primo grado per i propri affari illeciti al nord, fatti soprattutto di gioco d’azzardo. Femia ricorda gli anni calabresi e racconta del ruolo avuto da poliziotti, 007 e mediatori per porre fine a quella fase, che ha terrorizzato l’Italia. I protagonisti hanno tanti nomi. Molti, soprattutto se di rango istituzionale, occulti. Altri noti. Come quello del boss Vincenzo Mazzaferro, di cui Femia si definisce “uomo riservato”.
«Mazzaferro – spiegherà Femia in un’udienza pubblica – si incontrava con uomini dello Stato o mandava il suo autista, Isidoro Macrì». Un rapporto, quello tra il boss e gli 007, che sarebbe servito per acquisire informazioni reciprocamente, ma anche per permettere allo stesso Mazzaferro di mantenere l’impunità.
Una lunga stagione, che verrà interrotta perché quelle azioni attiravano troppo l’attenzione dei media e dello Stato che in quel periodo portò in Aspromonte anche l’esercito.
Dove finiscono i soldi?
Femia ricorda gli incontri a casa di don Paolino De Stefano e della famiglia Tegano, delle rapine commesse in gioventù e per le quali avrebbe dato una parte a un maresciallo dei carabinieri. Parla dei miliardi portati a Milano e in Vaticano: «Sono andato dentro le mura praticamente. Portavo i soldi a lui e c’era un garage, in una specie di alberghetto… portavo la macchina là e se la vedeva tutto lui». Quelli non sono solo gli anni dei sequestri, ma anche dello sviluppo delle rotte del narcotraffico con il Sud America. E così, in Colombia, i miliardi delle cosche si sarebbero trasformati in tonnellate di droga.
Il sostituto procuratore antimafia di allora, Vincenzo Macrì, ipotizzò che il motivo dietro la brevità dei sequestri, a parte casi eclatanti, fosse probabilmente una presunta connessione diretta fra Stato, “organi occulti” e criminalità che si accordavano sul pagamento. Una circostanza che ha confermato, molti anni dopo, lo stesso Femia: «Hanno fatto in modo che non si dovevano fare più sequestri. All’epoca erano iniziati i traffici con la droga e calcolate che a Mazzaferro gli arrivavano 1000 chili di droga, 2000 chili di droga ogni tre mesi. Lui la pagava un milione e ottocentomila lire. La dava a tutte le famiglie a 10 milioni al chilo».
‘Ndrangheta, servizi e sequestri
Femia parla anche di Roberta Ghidini, sequestrata il 15 novembre 1991 a Centenaro di Lonato, in provincia di Brescia, e liberata in Calabria dopo 29 giorni. Un sequestro per il quale è stato condannato il boss Vittorio Jerinò: «Dopo il sequestro Casella, i capi si riunirono per far cessare la stagione dei sequestri, per via della troppa attenzione da parte dello Stato. Ma Vittorio Jerinò fece ugualmente il sequestro Ghidini per fare un dispetto al fratello Giuseppe, di cui era sempre stato invidioso».
Una liberazione non facile, quella della Ghidini, avvenuta dopo un periodo molto intenso di trattative tra la ‘ndrangheta e pezzi dello Stato: «Vincenzo Mazzaferro fu scarcerato velocemente dal carcere di Roma dove era detenuto per risolvere la situazione». Tra gli uomini dello Stato coinvolti nelle trattative, Femia ricorda poliziotti, carabinieri organici ai servizi, avvocati, ma anche giornalisti.
La liberazione sarebbe costata 500 milioni di lire. Soldi che, a dire di Femia, avrebbero diviso tra loro Mazzaferro, Jerinò e i Servizi Segreti: «Il coinvolgimento dei Servizi Segreti nei sequestri è una cosa che nel nostro ambiente sanno anche i bambini» afferma Femia. Una trattativa Stato-‘ndrangheta inquietante, anche per quello che sarebbe avvenuto in seguito. Vincenzo Mazzaferro verrà ucciso pochi anni dopo: «Nessuno della ‘ndrangheta voleva la sua morte», afferma Femia. E allora, il sospetto: «I protagonisti di quelle vicende sono tutti morti, ma senza una spiegazione di ‘ndrangheta».