«Tenemos muchos otros problemas!», «abbiamo molti altri problemi», mi sorride un agente della Fiscalia General de la Nación, l’ufficio del procuratore nazionale della Colombia, quando iniziamo a parlare della ‘ndrangheta in America Latina. Della serie: sicuramente la ‘ndrangheta è un problema, per l’Italia, l’Europa, il mondo intero, ma di guai legati alla criminalità (organizzata, violenta, strutturata), in Colombia, ce ne sono molti altri.
I-Can: quattordici polizie contro la ‘ndrangheta
La mattinata è iniziata presto: riunione alle 8.30 alla sede della Direzione per le indagini criminali della Polizia di Stato Colombiana, dove anche Interpol ha i suoi uffici.
La Colombia fa parte del progetto I-Can (Interpol cooperation against the ‘ndrangheta), fondato e finanziato dal Dipartimento di pubblica sicurezza in Italia, guidato dalla Polizia di Stato.
A quest’iniziativa aderiscono altri dodici Paesi, europei e non. La parola chiave di I-Can è cooperazione: cioè condivisione dei dati più veloce, coordinamento delle azioni di contrasto più fluido, e sicuramente un’armonizzazione della conoscenza sul fenomeno ’ndranghetista. Contenuto, accesso e azione.

La ‘ndrangheta? In Colombia è diversa
È la prima volta che parlo di ’ndrangheta formalmente con autorità di un Paese sudamericano. Ora che sono qui – soprattutto dopo il commento dell’agente della Fiscalia – mi ricordo come mai c’è voluto più tempo per venire in questo territorio e non, per esempio, in Canada o negli Usa.
La ’ndrangheta qui è altra cosa rispetto ad alcuni Paesi europei e del globalizzato Nord (allargato anche all’Australia, per ragioni economiche e sociali).
Già dall’inizio di questa riunione – organizzata dalla sottoscritta a fini esplorativi e di ricerca (e dunque senza contenuti protetti e confidenziali), presenziata da unità scelte di Interpol, Fiscalia, e altri membri delle forze dell’ordine – si inizia parlare di chi è chi, nella ’ndrangheta contemporanea, e soprattutto di chi non è chi.
La ’ndrangheta, qui in Colombia è un’organizzazione per lo più astratta di cui si conosce poco la struttura – e poco serve conoscerla ai colombiani – la quale ogni tanto si presenta con individui di origine italiana che si muovono in un mercato degli stupefacenti largo e complesso. La criminalità calabrese partecipa da anni a questo mercato, i cui protagonisti assoluti sono però tutti del luogo.
Salvatore Mancuso: dalle Auc al narcotraffico
Una persona su cui si è tanto detto negli anni, per esempio, è Salvatore Mancuso. Salvatore Mancuso Gómez – nato a Monteria, in Colombia, e di origini familiari di Sapri, è stato uno dei principali leader dell’Auc – Autodefensas unidas de Colombia.
L’Auc è stata un’organizzazione paramilitare, dedita al narcotraffico, insurrezionista di estrema destra che durante il conflitto armato interno in Colombia ha combattuto contro Farc, Eln e Epl, altri gruppi di guerriglia organizzata.
L’Auc smobilitò nel 2006 dopo aver goduto del supporto di vari pezzi dell’élite colombiana. Dalle sue ceneri sono nati altri gruppi criminali: ad esempio il famigerato Clan del Golfo, altrimenti detto degli Urabeños, uno dei principali cartelli della cocaina del Paese. Almeno fino a qualche anno fa.

Il re della droga
Questo Mancuso, è bene chiarirlo, non c’entra niente con i Mancuso del Vibonese, protagonisti negli ultimi mesi e anni di svariati processi istruiti dalla Procura antimafia di Catanzaro.
L’omonimia però, non mancano di notare i miei interlocutori, è stata spesso notata e ha portato a una serie di fraintendimenti su chi è chi, e chi non è chi.
Salvatore Mancuso non è certo uno ’ndranghetista, sebbene tra i suoi clienti ci siano stati anche i clan calabresi, quelli delle origini, come rivelato da ultimo da un’inchiesta giornalistica di InsightCrime.
Giorgio Sale, il mediatore di Mancuso
Mancuso ai tempi dell’Auc era a capo di un’organizzazione che controllava un vasto territorio dove si produceva la coca. «Ma veda, professoressa, c’è spesso qualche grado di separazione tra i broker della produzione e gli acquirenti».
Detto altrimenti: Mancuso aveva altri che lavoravano per lui e che gli portarono, negli anni ’90, i clienti calabresi.
Tra questi c’era Giorgio Sale, un imprenditore del Molise, morto nel 2015, semi-sconosciuto in Italia (dove poi verrà condannato per narcotraffico), che in Colombia però aveva ristoranti, bar, proprietà immobiliari, utilizzati per riciclaggio di denaro, legati a Mancuso.

Calabresi e paramilitari: il rapporto perverso
Questa storia già la si sa – è la storia d’inizio del legame tra alcuni clan calabresi e i gruppi paramilitari (e poi criminali) colombiani. Il legame esiste ancora oggi, nonostante l’arresto (e nel 2020 la scarcerazione) di Mancuso, e lo smantellamento dell’Auc e della rete di interessi di Sale.
Infatti, al tavolo della riunione gli sguardi scorrono complici quando si fa il nome del prossimo uomo “di interesse”, che prima lavorava con Sale portando gli acquirenti calabresi – e non calabresi qualunque, ma i platioti – fino a Mancuso: Roberto Pannunzi.
Pannunzi, L’Escobar della ‘ndrangheta in Colombia
Romano ma di famiglia originaria di Siderno, Pannunzi è definito un po’ da tutti il Pablo Escobar della ‘ndrangheta, di cui è il broker più influente di tutti i tempi. Ai suoi reiterati arresti (l’ultimo nel 2013 a Bogotà) hanno lavorato la Procura di Reggio Calabria, la Guardia di finanza, la Dea americana, la Polizia colombiana.

Pannunzi non fa ovviamente affari solo con Mancuso: i suoi rapporti con i cartelli colombiani sono radicati e segnano un salto di qualità di una parte della ’ndrangheta nel mercato della cocaina: mandare i propri emissari, direttamente, in Sudamerica, per negoziare meglio con i produttori.
Come si farà ancora con Rocco Morabito, in Uruguay (ma di fatto coordinava la negoziazione dei prezzi e delle provvigioni di coca per conto di clan ‘ndranghetisti per tutta l’America Latina).
Oltre a Pannunzi e in tempi più recenti a Morabito, si fanno i nomi di altri broker italiani, come Enrico Muzzolini, friulano, attivo più o meno negli anni di Pannunzi e in contatto anch’egli con alcuni esponenti dell’ex Auc.
Il mercato maledetto
È passata solo una mezz’ora di questa riunione mattutina a Bogotà e stiamo ancora parlando di storia. Non della ’ndrangheta, ma del mercato della cocaina in Colombia, al cuore del conflitto armato e al centro delle negoziazioni per la pace che il governo colombiano ha attivato (e in parte raggiunto con alcuni gruppi) negli ultimi anni.
I nomi degli ’ndranghetisti che compravano da Pannunzi fino a 10 anni fa, non li conoscono o non li ricordano. Ma in fondo poco conta che fossero i Barbaro-Papalia oppure i Nirta con i loro traffici dalla Spagna, oppure i Commisso per i loro traffici dagli Stati Uniti: «Tenemos muchos otros problemas!», appunto.

Però l’interesse per la mafia nostrana c’è eccome: anche se i tempi sono cambiati da Pannunzi in poi, ogni tanto compare ancora qualcuno che porta contatti coi calabresi.
«Se qui le cose sono cambiate, saranno cambiate anche li in Calabria, no?». Questa domanda è l’argomento di un’altra parte della nostra conversazione.
Ad esempio, mi chiedono, se ricordo l’arresto nel febbraio 2021 di Jaime Eduardo Cano Sucerquia, alias J, che fungeva da link con la Colombia per la mafia calabrese.
Strani traffici a Livorno
C’entravano il porto di Livorno e 63 chili di cocaina. Nel 2021, a Livorno, in alcune indagini sul narcotraffico – ad esempio l’operazione Molo 3 – si parlava di un certo Henry, in Colombia, a cui alcuni clan del Catanzarese e del Vibonese si rivolgevano per l’approvvigionamento dello stupefacente.
Sempre nel 2021, l’operazione Geppo aveva invece raccontato di un certo Leonardo Ferro, alias Cojak, che si era recato da Reggio Calabria a Medellin nel 2017 per trattare gli affari direttamente lì, grazie anche all’aiuto di un soggetto di origini colombiane, ma nato nel Regno Unito: “Alex” Henriquez. Insomma, al pari di J, altri broker condividevano quella rotta su Livorno, e soprattutto, abbiamo concluso, il modus operandi è diverso anche in Calabria.

Atomizzati i cartelli – «A Medellin ora ci sono 12 gruppi, invece di un cartello” – e arrestato qualche grande leader – Dario Antonio Úsuga, alias Otoniel, a capo degli Urabeños, che lascia una situazione complessa nel suo gruppo – adesso serve saper fare affari con tutti, perché ci sono più affari da fare. E questo lo sanno anche i calabresi.
Una mafia senza nomi
La riunione continua, ma appare chiaro che la ‘ndrangheta a questo tavolo non ha nomi e cognomi. È un’organizzazione “piatta” di cui contano poco i connotati specifici.
La si conosce, la ‘ndrangheta perché offre dei servizi, ma ne compra di più – primo fra tutti la cocaina – e, diversamente da altre strutture, ha una ramificazione internazionale che permette di “cadere in piedi”.
‘Ndrangheta in Colombia? Solo compratori potenti
Non si parla di riti, di doti, né di capi-mafia e uomini d’onore. Qui – nel Paese che ha il triste primato di esportatore di cocaina verso il ricco Nord del mondo e la ricca Europa – la ’ndrangheta è un gruppo di acquirenti stranieri che, a monte come a valle, ha il potere di influenzare il narcotraffico.
Cosa dobbiamo sapere, chiedono, della struttura della ’ndrangheta? E cosa dobbiamo sapere noi, chiedo io, dell’attuale situazione colombiana? Lo chiariremo nella prossima puntata.
(CONTINUA…)