Sventurata la terra che ha bisogno di eroi, diceva Bertolt Brecht. Ma si potrebbe aggiungere anche sventurata la terra che ha bisogno di antieroi. E noi italiani ne abbiamo, di eroi e di antieroi, soprattutto quando si tratta del nemico numero uno per eccellenza dello Stato italiano e della sua storia: la mafia. Al netto delle congratulazioni per aver portato a termine con successo un’operazione complessa, come può essere la caccia e l’arresto dell’ultimo latitante stragista – l’ultimo antieroe – Matteo Messina Denaro, la cerchia vociante di alcuni analisti dell’antimafia – una nutrita compagine di magistrati, giornalisti, accademici, portavoci e analisti specializzati (inclusa chi scrive) – non può non lasciare perplessi e anche un po’ sopraffatti.
Messina Denaro, eroi ed antieroi
Abbiamo tutti troppo da dire per nessuna ragione, oppure c’è davvero troppo da dire? È appurato che sappiamo in questo caso chi è l’antieroe, l’incarnazione del male e l’obiettivo del disappunto e della rabbia (giustificata certamente) di un popolo che ricorda le stragi degli anni ’90. Ma siamo sicuri di sapere chi sono gli eroi di questa storia, a parte ovviamente il procuratore capo Maurizio De Lucia che, da grande conoscitore del fenomeno mafioso nella sua Palermo, ha dimostrato di avere il polso insieme al suo sostituto Paolo Guido e a tutti le forze dell’ordine dispiegate, di completare tale operazione. Sicuramente non ci sono eroi politici, ma ci sono eroi della memoria, coloro che, anche per la memoria, sono stati sacrificati. Ed è difficile districarsi tra complotti, speculazioni e scarsa memoria storica.
La storia si ripete
Scriveva Leonardo Sciascia in A ciascuno il suo (1966): «Ma il fatto è, mio caro amico, che l’Italia è un così felice Paese che quando si cominciano a combattere le mafie vernacole vuol dire che già se ne è stabilita una in lingua… Ho visto qualcosa di simile quarant’anni fa: ed è vero che un fatto, nella grande e nella piccola storia, se si ripete ha carattere di farsa, mentre nel primo verificarsi è tragedia; ma io sono ugualmente inquieto». I «quarant’anni fa» di Sciascia non sono i nostri “quarant’anni fa” ovviamente, eppure la citazione ancora vale.
Nella cattura di Matteo Messina Denaro ci sono tragedie e farse, corsi e ricorsi storici, che rimandano alla memoria di quel che accadde in seguito alla cattura di Totò Riina, e in parte a quella di Bernardo Provenzano. Ma c’è soprattutto la lingua, la lingua che si accompagna all’antimafia contemporanea che non è nata ovviamente il 16 gennaio 2023, al momento della cattura del super latitante stragista, ma che in seguito a quest’arresto è quanto di più visibile e riconoscibile.
Messina Denaro e le zone grigie
Ad esempio, si parla molto in questi giorni, ragionevolmente, delle protezioni che avrebbero – che hanno – permesso a Messina Denaro di nascondersi praticamente a casa sua per 30 anni. Ritornano nomi e cognomi di politici, regionali e nazionali, delle donne intorno al boss (aiutano i dettagli sulla presenza di viagra e preservativi nel covo di Campobello di Mazara…) e si fa un gran rumore parlando di poteri occulti, zone grigie e zone proprio nere, che avrebbero aiutato il boss a muoversi fuori dalla Sicilia e poi a proteggerlo sull’isola.
Ritorna, prepotente, il tema delle massomafie, entità invisibili, potentissime proprio perché dai confini imperscrutabili, popolate da classi dirigenti e dalla ‘borghesia mafiosa’, e che si proteggono grazie ad agganci più o meno regolari, spesso spurie, alla massoneria (deviata). Ha dichiarato per esempio Teresa Principato, magistrata oggi in pensione, a Repubblica, che è grazie a un network (non meglio specificato) di massoni che Messina Denaro sarebbe stato protetto; sull’Huffington Post abbiamo conferme, ma anche note critiche a questa tesi, sollevate da Piera Amendola; e ricorda il Quotidiano del Sud, che Messina Denaro era originario – e si nascondeva – in uno dei ‘feudi massoni’ per eccellenza, la provincia e la città di Trapani. Dulcis in fundo, il medico Tumbarello, indagato per aver curato il boss, era pure massone ed è stato già espulso dal Grande Oriente d’Italia.
Ma che cos’è questa massomafia?
Ma siamo sicuri che tale linguaggio sia neutro, oppure utile? Che esistano segmenti della politica, dell’imprenditoria e delle professioni coinvolte in attività criminali anche di matrice mafiosa, è innegabile. Innegabile anche la densità di strutture massoniche (regolari, riconosciute) o para-massoniche (spurie, irregolari o coperte) in certi territori, soprattutto del Sud Italia, come – tra le altre cose – rivelato dalla Commissione Antimafia in una relazione del 2017. Sono comprovati i legami di una certa classe dirigente con i clan mafiosi; alcuni mafiosi sono stati anche massoni; alcune strutture massoniche o para- (o pseudo) massoniche sono stati luoghi di incontro e camere di compensazione di comitati d’affari illeciti a partecipazione mista.
Ma usare questa terminologia vaga, imprecisa quanto suggestiva, per imboccare dietrologie e poteri occulti alla base dei grandi segreti inconfessabili e soprattutto inconfessati (che a pensar male si fa sempre bene in Italia…) ha come risultato solo indebolire il discorso ed eventualmente dire niente. Chi sarebbero poi i massomafiosi? Cosa fanno, se esistono? Ma soprattutto, siamo davvero sicuri che l’appartenenza alla massoneria, regolare o spuria che sia, abbia davvero un peso nelle scelte che alcuni ‘potenti’ fanno di avvicinamento alla criminalità organizzata?
La confusione aumenta
Non sarà che un incrocio tra comportamenti, aspettative legate al territorio, voglia di affari e soprattutto disponibilità a trafficare favori, non siano molto più utili come criteri analitici che non uno status vacuo e vuoto come quello della ‘massomafia’? Esistono relazioni tra soggetti, individui (massoni e mafiosi) come organizzazioni, ad esempio clan e logge (coperte o no) – che convergono per interessi, scambi e alleanze di vario genere: ma spesso, quasi sempre, le logiche, le strategie, e gli obiettivi di tali soggetti rimangono distinte: bisogna leggere le (non tante ma dense) indagini che fanno un po’ di luce su queste realtà composite e complesse.
Parlare di massomafia per spiegare i segreti d’Italia – come la cattura o la protezione di un boss stragista – attiva e consolida una narrativa ammantata di originalità e segretezza, ma che effettivamente altro non fa che nutrire una confusione concettuale: ammettere che un aggregato, la massomafia – impossibile da vedere, da studiare, da generalizzare – abbia poteri occulti e come tali non misurabili perché fonde due poteri spesso allineati (mafia e massoneria) che sulla segretezza e l’evasione hanno costruito fratellanze, è sostanzialmente un fallacia logica e metodologica.
E poi c’è la massondrangheta
Si confondono organizzazioni e comportamenti, criminali e non, fintanto che appaiono insieme, in unico calderone, invocando una realtà che non esiste se non in alcuni suoi attributi. Cum hoc vel post hoc, ergo propter hoc, si dice in logica, “dopo questo, dunque a causa di questo”. Si basa sull’idea che, quando due cose, vaghe, si presentano insieme, vengono pensate come correlate, ma in fondo così non è. La correlazione è forse probabile, ma non ci aiuta a capire alcuna verità sostanziale.
Se poi oltre alla massomafia esce anche la massondrangheta – perché è ‘naturale’ che la mafia calabrese, oggi considerata e definita la più potente, abbia la propria formula individuale di massoneria deviata mischiata con mafia – comprendiamo che la confusione sulla lingua della mafia è dunque sistemica.
La massondrangheta è tornata alla ribalta recentemente nelle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Marcello Fondacaro durante il processo ‘Ndragheta Stragista: consolidata è oggi la narrativa autonoma della ‘ndrangheta rispetto alla mafia (siciliana), ergo anche quella della massondrangheta rispetto alla massomafia di siciliana memoria. Sicuramente vertici di Cosa nostra e ‘ndrangheta si sono incontrati, parlati, alleati. Sicuramente ci sono state delle sinergie, e direi, anche ovviamente è così: ci si aspettava forse che ai vertici di due organizzazioni criminali di questo calibro ci fossero uomini che non vedessero il beneficio di allearsi gli uni con gli altri? Sarebbe contraddittorio della loro ‘potenza’ e lungimiranza.
Messina Denaro e «un’unica famiglia»
Ed ecco che non sorprende che nella storia dell’arresto di Matteo Messina Denaro, dove si è già parlato dei rapporti del boss con la Calabria, alle commistioni di mafia, massoneria, massomafia e politica, non potevano mancare ‘ndrangheta e eventualmente massondrangheta. Avrebbe detto, Matteo Messina Denaro, nel 2015 che Cosa nostra e ‘ndrangheta dovevano «lavorare assieme per diventare un’unica famiglia»; Messina Denaro, consapevole o meno, va ad aggiungersi a quella schiera di analisti che, partendo da indubbie sinergie tra le mafie italiane (o tra i capi, o tra singoli clan) parlano da qualche anno di un’unica grande mafia a regia unica.
Il processo ‘Ndrangheta stragista ci racconta certamente di una regia intenzionata a essere unica nel periodo stragista. Ma vale tale intenzione di alcuni a cambiare i connotati della ‘ndrangheta? A giudicare da quel che è venuto dopo, direi di no. Di nuovo calderoni dai confini impossibili, di nuovo gli aggregati dall’impossibile concettualizzazione che rischiano di far dimenticare non solo le specificità (territoriali quanto storiche) dei fenomeni, ma anche che le alleanze e le sinergie portano semmai a fenomeni terzi, plurali e integrati, di nuova fattezza, non a fenomeni ibridi e dall’identità confusa.
Più sostanza, meno suggestioni
Ricordiamo le parole di Pasquale Gallone, storico braccio destro del boss Luigi Mancuso, mandate in onda da LaCNews nel programma Mammasantissima; «Messina Denaro? È buono, fa sempre cose buone ma i siciliani… i siciliani hanno ‘a vucca, specialmente i palermitani e i catanesi. Per fare un calabrese ce ne vogliono 10 di siciliani!». Per quanto siano solo frasi in libertà queste parole consolidano comunque una precisa narrativa: riaffermare le identità d’origine (di ‘ndrangheta) e i confini della sinergia (tra ‘ndrangheta e Cosa nostra).
Quindi, aspettiamo di carpire ulteriori dettagli inutili quanto suggestivi su borghesie massomafiose, protezioni, e alleanze calabresi dell’ultimo boss stragista di Cosa nostra. Aspettando di capire se costui è intenzionato a parlare almeno un po’ di tutti quei segreti che si dice si porti dentro. E proviamo – anziché cadere vittima del pourparler che fa sempre piacere a chi vive di eroi ed antieroi – a chiedere un po’ di sostanza alle cose che vengono dette. Nomi, cognomi e condotte delittuose se si può, fino a prova contraria ovviamente. E nei limiti dello stato di diritto e non solo della morale.