Intanto ricominciamo a chiamarli paesi. Questa, non altra, è la geografia umana della Calabria. Anche oggi che in ogni sua angusta città provinciale si litiga per il primato tra periferie e va di moda darsi arie da area vasta, da città metropolitana. Reggio Calabria non arriva a 250mila abitanti; Cosenza, che nel 1971 superò i 100mila, oggi non raggiunge neanche i 70mila. Una regione di paesi e città secondarie, in costante emorragia, non meno che i piccoli centri. Una regione di paesi, paesoni e paesini, dunque.
Paesani anche se mandano i figli al Trinity
Sono in tutto 405, sparpagliati sulle due rive, e spruzzati, soprattutto i più esigui, lontano dal mare, sulle montagne. I comuni in Calabria sono più di quelli della grande Sicilia (390 comuni), che una volta valeva da sola un regno a parte. La vicina Puglia, più lunga, ricca e vasta, ne ha pure solo poco più di 250. Questo sono i paesi della Calabria. E pure i calabresi, piaccia o non piaccia: paesani, anche se comprano griffato, fanno la spesa al centro commerciale, mandano i figli al Trinity e hanno internet in casa e la parabola sul balcone.
La geografia estrema del margine
Paesani e paesi. Tanti. Paesi di quattro case, una chiesa e un forno (una volta): posti dispersi e gracili come Oriolo, Canna, Longobucco, San Lorenzo Bellizzi, Campana Calabra, o più giù come Nardodipace, Bova Superiore, Carfizzi, Cerva, Brognaturo, Stilo, Varapodio. Nomi dissolti su un foglio, nonostante la storia, qualche volta millenaria. Posti così sono i paesi della geografia estrema del margine, dell’osso rinsecchito dell’Appennino, sopraffatti dallo stigma della scarsità, dalle mancanze.

Troppo piccoli per sopravvivere
Sotto la soglia limite dei 1500 abitanti, lo sanno bene i demografi, in simili condizioni nel mondo contemporaneo cala drasticamente la possibilità di sopravvivenza delle piccole comunità. Qui sono le case appese al chiodo di coloro che covano vite esigue, che raccolgono la briciola che cade dalla polpa dell’economia. I tinelli dei rassegnati che brancolano nella nebbia delle illusioni di seconda mano. Il mondo dei vedovi, dei senza scuola, dei pensionati con la minima, degli spostati di ogni età che collezionano sospiri e vuotano i fondi di bicchiere in cui inacidisce l’ultima goccia del vino di lusso che cola dal mondo della città, della televisione.
E quei paesoni messi sottosopra dal cemento
Molti altri dei paesi di Calabria oggi non sono neanche questo. Non sono più né carne né pesce. Paesoni, tutt’al più. Un po’ più gonfi e dilatati, messi sottosopra dal cemento e dagli abusi, incistati dal malaffare e oppressi dalla noia e dal peso delle mafie. E sono luoghi, questi, diversamente poveri e arresi al peggio, illusi da un’idea di progresso sovraesposta e fasulla. Piccole città provinciali e poi cittadine; paesoni, con il caos ininterrotto e senza nome delle borgate nuove, dei centri sdoppiati e delle piazze in mezzo al nulla, delle marine-dormitorio, dei centri commerciali smisurati, delle teorie dei capannoni delle imprese finte, della monotonia delle villette a schiera, delle seconde e terze case per il mare degli altri, degli avamposti traballanti di amministrazioni improduttive. Delle cittadelle spaziali-albergo di lusso per burocrati e politici incapaci, degli ospedali senza cure, delle scuole rotte e senza bambini.
Un groviglio di strade
E paesoni delle strade. Un groviglio di strade che si perdono nel nulla. Che passano oltre e non legano più neanche un paese all’altro. Soprattutto strade. Riportare qui l’elenco di questi posti dove la strada sembra un ottovolante e dove il paese ha preso gli ormoni e ha assorbito i veleni del nostro tempo immemore e caotico sarebbe troppo lungo, inutile. Persino penoso.
Superano i 15mila per darsi arie
Li conosciamo tutti questi posti: stanno sui giornali, spiccano dalle cronache. Sono i circa 20 comuni che in questa regione (capoluoghi compresi) ancora superano il punto critico dei 15.00 abitanti, soglia demografica minima per darsi arie e coltivare l’illusione di sembrare qualcosa di più di uno di quei vecchi paesi di fantasmi a cui spesso quelli più grossi voltano sdegnosamente le spalle. Questi posti sono casa nostra.
Consolarsi con quel che rimane
La Calabria ridotta a poco più del suo milione e mezzo di abitanti reali, vive lì più che altrove le sue giornate provinciali. In questi posti in cui ogni cosa è ibrida e opaca, dove anche la gente non più quella del paese e nemmeno quella di città, si consumano le sue lotte e le sue sconfitte. Lì si accampano le pretese di chi comanda, lì si coltiva ancora qualche sogno, lì si scontano frustrazioni e si medicano dolori. Lì chi può lavora, e qualche volta, e ancora lì che ci si ritrova insieme per immaginare un po’ di futuro e consolarsi con quel che c’è, con quel che rimane.
Insomma, ci si campa la vita d’ogni giorno tra gli spigoli e le curve di questi paesoni rigonfiati, in questi posti della nuova terra di mezzo della Calabria di adesso; che sono pure le sue cinque, piccole, rissose città capoluogo di provincia. Le stesse che poi ritroviamo puntualmente nel sottoscala delle graduatorie nazionali della qualità della vita e dei servizi resi ai cittadini.
La retorica tossica dei borghi
Ma in Calabria questa antica e capillare geografia insediativa e umana, microfisica e maggioritaria, col suo irrisolto e crescente corteo di emergenze e problemi critici che gravano su cittadini e istituzioni, finisce oggi per intasare un meccanismo narrativo falsificante e autocelebrativo. La realtà della crisi viene puntualmente oscurata a più livelli da un discorso che coincide sempre più con la retorica altamente tossica dei cosiddetti “Borghi”.
Contro un’idea economicista dell’autenticità
Nessuno chiama più un posto col suo nome proprio, e “borgo” è così diventato un artificioso sinonimo buono per tutto. Una sorta di “apriti sesamo” che enfatizza e identifica indistintamente sia le borgate più fatiscenti e decrepite che le antichità; i centri storici come le realtà cittadine e i paesini più microscopici e isolati. Il trionfo dell’ignorante e ipocrita glorificazione di una certa idea confusamente economicista dell’“autenticità”, la mitologia urbana della grande bellezza sparsa a piene mani su -tutti?- i cosiddetti “borghi”, la favola delle loro enormi “potenzialità” per investimenti e sviluppo turistico, gli eccessi verbosi e le truffe mediatiche che si accumulano come strati in una narrazione effimera e a senso unico, anche in Calabria hanno ormai valicato ogni limite di buon senso, misura e realismo.
Chi condanna i paesi poi li vuole come risorsa
Chi conosce questa regione e ci vive sa bene che i vecchi paesi sono corrosi dal tarlo di vecchie e nuove povertà e da una crescente anomia sociale. Sono spolpati dall’emigrazione, che li priva progressivamente di energie giovani e di abitanti veri. Sono mortificati dall’abbandono e dall’incuria, che ne distrugge la bellezza di ambienti costruiti e paesaggi, cancellando un giorno dopo l’altro la dignità di secoli di storia per farne mucchietti di case vuote e pericolanti e posti per fantasmi. Lo stesso meccanismo che condanna i paesi all’agonia e li mette ai margini della vita sociale e produttiva della regione e del paese, d’un tratto ipocritamente li riscopre come risorsa. Ed ecco che spuntano “i borghi”.
Borghi buoni per ogni cosa, tranne per viverci
I borghi in Calabria sono oggi quei posti piccoli e sparuti di cui l’Italia ricca e affluente si è dimenticata, e che oggi diventano buoni per ogni cosa. Tranne che per viverci davvero. Sempre più evocati che vissuti, ritornano come motivo di interesse nel discorso pubblico su ripartenza e valorizzazione post-covid. Cablati per il telelavoro che impone il precariato a vita nella società post-pandemica, qualche grosso gruppo finanziario e qualche azienda multinazionale ha già scoperto che un paese in vendita in Calabria si può comprare per intero con meno di quello che costa delocalizzare un call center in Romania. O magari si indice la gara dei paesi belli e dei “borghi autentici”, dato che quelli brutti, che sono i più, sono già fuori gioco.
Il campionato farlocco dei borghi
Così, per inscenare ogni anno una specie di concorso di bellezza tipo “miss Italia dei borghi”, riparte una sorta di farlocco campionato tv con eliminatorie e finali, per arrivare addirittura a eleggere il “borgo dei borghi”(sic). Teatrino di invenzioni manageriali sempre spacciate come eventi epocali, scenario per improvvisati festivalini di tutti i generi, dal più pretenziosamente culturale alla sagra più cafona, i paesi nella realtà vivono solo i fuochi fatui delle vacanze degli altri. Fiammate che durano qualche settimana o due, giorno più giorno meno. Ridotti a quartieri d’estate o quartieri d’inverno per i cittadini oppressi dall’inquinamento urbano, dalle follie consumistiche e dai ritmi di vita delle metropoli. I paesi rischiano così definitivamente di essere annichiliti e asserviti, in un circuito chiuso di dipendenza e servitù.
Gli annoiati dalla città
Nei casi migliori qualcuno, annoiato dalla città, li scopre e li acclama, e ne fa un suo buen retiro personale. Ma si tratta di pochi misogini, ricchi eletti stregati proprio da ciò da cui la gente di qua oggi scappa via, sopraffatta dalle difficoltà: solitudini, isolamento, mancanza di lavoro e di prospettive per il futuro. Eccessi, eccentricità per pochi, che però alimentano incessantemente la retorica mediatica che ormai suborna soprattutto i cosiddetti borghi della Calabria e dell’Italia del Sud.
Un argomento elettorale
Di paesi-borghi si riparla a ogni tornata elettorale, con politici sempre a corto di idee e di programmi. Ma ad oggi la gran parte dei più di 400 paesi della Calabria restano luoghi spossati e pieni di malinconie, sospesi in una sorta di limbo, abitati (quando lo sono ancora) solo da poche centinaia di persone. Come accade a Fiumefreddo Bruzio, di recente segnalato come uno dei borghi più belli d’Italia, e certo non il più povero e isolato, e che però, nonostante gli sforzi di pochi volenterosi, mantiene nel suo magnifico e monumentale centro storico a picco sul Tirreno meno di 300 residenti.
Turistizzazione forzata
Quando spariscono dai media anche i borghi belli come i brutti, ripiombano nel grigiore e nella stanchezza del quotidiano. E a salvare i paesi non bastano le case a un euro, l’aria pulita, il pane buono e i panorami mozzafiato. Al più prevale un’idea di una turistizzazione forzata dei paesi e dello sviluppo delle aree interne della Calabria e del centro-sud da trasformare in un unico grande distretto turistico da vendere a un «turismo internazionale con grande capacità di spesa», come da proposta del ministro Dario Franceschini. Una specie di Disneyland per le vacanze en plein air, appaltata senza conoscere e rispettare il patrimonio dei paesi e le necessità di chi quei luoghi vive quotidianamente, legandone invece le sorti a speculazioni di grande scala e ad altissimo costo ambientale e sociale. Una sciagura.
Non tutto è perduto
Ma crescono anche progetti di recupero-rivitalizzazione dei vecchi paesi calabresi autocentrati e partecipati da giovani e associazioni che si segnalano già per equilibrio, buone prassi e intelligenza. Come dimostrano da vicino le esperienze di successo dei giovani della start up Fili Meridiani a Pallagorio (Kr) e l’associazione Campus del cambiamento-Borgo Slow a Civita (Cs). I progetti di ripopolamento dei paesi possono funzionare infatti solo se sono condivisi in prima persona da giovani innovatori e da gruppi di abitanti veri, vecchi e nuovi. Rianimati dalla cura di cittadini e persone attive e consapevoli. Non dal narcisismo effimero di event manager e dagli interessi di speculatori e mestieranti in cerca d’autore. Non puntando tutto sulla monocultura turistica (men che meno su quella che insegue il lusso). Ma lavorando con competenza e ostinazione su interventi di valorizzazione e riequilibrio di risorse ambientali, sociali e produttive, armonizzando lo squilibrio attuale tra aree interne e coste.

C’è sempre un paese in ognuno di noi
I paesi della Calabria hanno bisogno di sostegno, di immaginazione, di aiuto, di pianificazione, del riconoscimento della loro unicità. In fondo c’è sempre un paese in ognuno di noi. Nietzsche ci ricorda che ogni paese «è come un diario figurato della nostra gioventù, che comprende le mura, la porta con le torri, l’ordinanza comunale, la festa popolare; e dice di se stesso, dello spirito della casa, della stirpe, della città. Dice che qui si poteva vivere poiché si può vivere; qui si potrà vivere perché siamo ostinati». La salvezza può arrivare solo così. Arrivederci in Calabria, paisà.