Ogni città con la sua storia, con i suoi simboli, con le sue architetture, con il suo via vai, ci parla di sé come luogo sociale, perché è la casa di molti. Ma ogni città, e in Calabria non sono parecchie, nello stesso tempo è un luogo dell’immaginazione e della costruzione dell’avvenire. Le città più dei paesi ci mostrano un tempo in movimento. Dove comincia Cosenza? Per me Cosenza, e tutto quello che rappresenta, comincia da Paola. Il posto in cui sono nato. E da cui sono sempre fuggito.
A portarmi via era, da ragazzino, la vecchia littorina della cremagliera, poi il bus di Preite, poi l’autostop, anche due volte al giorno. Cosenza per me era come una calamita di irrequietezza pura. Era Cosenza in my mind. Eppure i mei primi ricordi di Cosenza non sono affatto simpatici, anzi.
La prima volta che ci sbarcai, in treno, avevo al massimo otto anni, dopo la metà degli anni ’60. Era per passare una visita oculistica all’Enpas, negli ambulatori tetri di Via Miceli. Ero un bambino miope e i primi occhiali li misi proprio a Cosenza. Comprati dopo la visita con la ricetta dell’oculista dell’Enpas che si chiamava Cozza. E che mi mandò a prendere montatura e lenti da un ottico che si chiamava Cozza-Le Pera, su Corso Mazzini.

Ma il ricordo di quelle prime volte a Cosenza era anche scendere dalla littorina che sbuffava lenta e vedere ancora davanti alla stazione in centro le carrozzelle con i cavalli alla stanga e i cocchieri di piazza che davano la biada e le carrube da secchi di latta e sacchi di iuta alle bestie ferme coi paraocchi di cuoio in mezzo al traffico del primo mattino, già fumoso e strombazzante di 600 e vecchie Fiat Millecento. Si faceva sempre con mio padre una passeggiata e io mi incantavo davanti alle vetrine fornite di tutto dei negozi di Corso Mazzini. Era la cosa più vicina al cinema che avessi mai visto. Ma l’incanto più grande era quando si entrava nei “grandi magazzini”, i primi templi provinciali del consumo nati negli anni del Boom.
Delizie di Cosenza
Sul corso c’erano Bertucci e, soprattutto, la Standa. Quando si entrava alla Standa non era solo per comprare qualcosa che a Paola non c’era. Alla Standa c’erano le “Signorine”. Le mitiche commesse, giovani e belle, con le divise color pastello all’ultima moda e una specie di crestina o foulard in fronte. Erano tutte ben pettinate, con le unghie laccate di rosso e un bel rossetto vivace sulle labbra che sembravano attrici. Le voci e gli accenti flautati risuonavano ai microfoni per le chiamate alla cassa. Era un paradiso di delizie la Standa.

Fuori si passava davanti a un chiosco di cravatte fornitissimo e poi ad un altro dove c’era una specie di pasticcere-acrobata, Ciccillo u caramellaro, che dietro un bancone fabbricava al momento caramelle. Stendeva la pasta di zucchero bollente e colorata manovrando spatole e attrezzi con l’abilità di un funambolo, poi quel serpente coloratissimo si trasformava in bastoncini di zucchero. Il resto lo tagliava con una forbice e spezzava in tocchetti grossi le caramelle che si vendevano a dozzine. Io prendevo sempre quelle frizzanti al limone, colorate a strisce di verde e di giallo. Poi c’era la fermata all’edicola vicino al Comune, dove per consolazione dei pianti che mi facevo per gli occhiali che non volevo mettere, papà mi comprava gli albi a fumetti del grande Blek e di Capitan Miki e pure le bustine delle figurine Panini. Prima o dopo il passaggio dall’ottico, che nel frattempo era diventato Ambrosio.

Due personaggi da cinema
A quei tempi si incontravano per strada altre due strane attrazioni cosentine, personaggi eccentrici che ricordo nitidamente, come fossero usciti da un film. Il primo era un tizio dal fare dimesso con una cassetta di legno e dei santini in mano che chiedeva con molliccia e querula insistenza un’offerta per Sant’Antonio. Erano dieci lire, dieci lire: «Picciri’. mi ci metti dieci lire pe’ piaciri?». La richiesta mi metteva sempre a disagio.
Poco più avanti si parava una donna grassa con i capelli giallissimi, vestita con stoffe colorate, collane vistose e grandi orecchini. Aveva sul marciapiede del corso una specie di banchetto per le riffe dietro cui stava seduta come una matrona, e un pappagallo sulla spalla che se compravi un numero l’uccello a un suo comando tirava via col becco da una specie di rastrelliera di carta il biglietto corrispondente.

Poi c’era l’immancabile visita di devozione (mia madre ci teneva che lo facessimo) alla chiesa di San Francesco di Paola, appena sopra il ponte Garibaldi. E prima di tornare a piedi alla stazione a riprendere la cremagliera per Paola, papà comprava un pane caldo e fragrante insieme a una guantierina di paste da riportare a casa. Era tutto buonissimo. Così, da quei primi viaggi, presi da ragazzo l’abitudine, anzi il vizio, di Cosenza.
Il richiamo della città
Era un posto pieno di richiamo: aveva l’aria della città, Corso Mazzini, il Rendano, i palazzi grandi, i bar sempre pieni e i negozi con le vetrine e le commesse eleganti, le automobili nuove. Una delle scuse per salire a Cosenza erano i traffici con gli zingari accampati tra le baracche di Gergeri e via Popilia. Io e una banda di lucignoli del quartiere ferroviario nei giorni di filone salivamo sul trenino per Cosenza e passavamo da loro a vendere il rame raccattato lungo i binari della stazione e dai resti avanzati dai lavori sulla ferrovia sotto casa.
Ne ottenevamo in cambio un po’ di soldi e meglio ancora: fibbioni di ottone molto beat (quelli erano gli anni dei Beatles e dei teddy boys). Oggetti bellissimi di artigianato che in realtà erano per loro solo finimenti per cavalli, o anche le bellissime zingarole, gli scacciapensieri, forgiate da un fabbro al momento, con la linguetta di ferro che se non la sapevi suonare bene ti tagliava la lingua come una lama di rasoio.
Pane e rose
Poi quando divenni ancora un po’ più grande Cosenza la frequentai per la vecchia libreria Feltrinelli di Corso Telesio. Qualche volta, complice un vecchio funzionario del Psi messo lì a fare da libraio che chiudeva un occhio, rubavo i libri di letteratura e filosofia che non potevo comprarmi.
Dopo il pane, le rose. Le rose erano le scorribande a Piazza Kennedy e quel formicaio di ragazzine vocianti che si aggrappavano sotto le ali del monumento di Baccelli. Poi venne il tempo del Teatro dell’Acquario e il Centro RAT, gli spettacoli di prosa impegnati di Antonante, i seminari del Living di Julian Beck e Judith Malina, di Eugenio Barba e dell’Odin Teatret, Mario Martone e Memé Perlini, la musica e le parole colte del teatro al buio, e quell’aria da off-Broadway di provincia che si respirava lì intorno.

E poi lì, accanto alla sala dell’Acquario, c’erano le ballerine della scuola di danza della Sisca. Giravo sempre lì intorno. Le ragazze della scuola erano belle, sottili, diafane, eleganti, allegre e garrule come rondini di primavera. Poi per me venne il tempo serio e pensoso dell’Università di Arcavacata, Arca, la nostra Macondo. L’Arca di Noè del nostro diluvio generazionale. Arca fu l’incubatore della mia metamorfosi da figlio di ferroviere scapestrato e sognatore a studente modello di sinistra-incazzato-impegnato e, infine, professore.
Tempi moderni
E intanto mi accorgevo che anche Cosenza un anno dopo l’altro dilatava i suoi confini, cambiava di fisionomia. Diventava grande, sempre più grande e piena di palazzoni di cemento, nuovi, grigi e colorati, attraversati da strade piene di auto. Tutti segni che si vedevano già dai finestrini della Littorina prima di scendere alla stazioncina-capolinea di Cosenza-Piazza Bruzi. Di mezzo c’era passata altra storia e gli effetti della politica, i grandi cambiamenti, la “modernizzazione”. La fame di terra e la crescita del cemento in alto e in basso, dopo l’ininterrotta spinta urbanistica e speculativa iniziata negli anni del Boom, giunge al suo apice a Cosenza dopo che una richiesta di “depennamento dall’elenco delle zone sismiche di secondo grado” trova accoglimento alla fine degli anni ‘60.
Il limite di prudenza che aveva stabilito sino ad allora la sopraelevazione dei nuovi edifici in città “sino ad un massimo di cinque piani” fu innalzato con un provvedimento ad hoc approvato dai governi di centrosinistra dell’epoca. Decisivo l’accordo dei due massimi dioscuri della politica cosentina, Giacomo Mancini e Riccardo Misasi. Sono entrambi alfieri della modernizzazione calabrese al cemento e dell’espansione clientelare del terziario assistito, settori che infoltiranno le fila della pubblica amministrazione e della piccola borghesia urbana che in quel momento rappresentano il contingente più significativo della nuova popolazione inurbata che affollerà la Cosenza in espansione di quegli anni.

Il sacco di Cosenza
L’elevazione delle nuove costruzioni oltre il limite del quinto piano, svecchiando l’aspetto urbanistico della città, “avrebbe inoltre reso accessibile alle classi meno abbienti l’acquisto dell’alloggio”. Gli amministratori cosentini dell’epoca salutarono la rimozione del fastidioso vincolo sismico come “uno strumento idoneo per il ribasso dei prezzi delle aree fabbricabili”. In realtà risulterà presto chiaro che quell’abolizione, determinando “una sensibile riduzione per i costi dell’edilizia”, avrebbe favorito le crescita delle rendite immobiliari. S’intensificò l’attività di speculazione edilizia nelle aree in piano, un tempo agricole, ai piedi del centro storico. E si diede così la stura all’abbandono dei vecchi quartieri del centro storico e delle prime addizioni urbanistiche tardo ottocentesche e novecentesche.
Fu l’inizio del sacco edilizio della città. Da quel tempo dura ancora oggi in modo inarrestabile. Cosenza fu tutto un fiorire di gru e di cantieri. Quella poderosa spinta alla speculazione partita negli anni ’60 e non ancora arrestata dalla crisi si è rivelata una manna per cementisti, costruttori e palazzinari. Già nel 1971 Cosenza raggiunge di gran carriera la quota di quasi 118.000 abitanti residenti nel circuito della città nuova che si dilaterà ben oltre il limite del Campagnano. Un record che neanche la ricorrente retorica della “Grande Cosenza” di oggi sfiora, se non raccogliendo i cocci sparsi della cosiddetta area vasta formati dai comuni limitrofi, oramai conurbati.
Una zuppa di città
Nel frattempo sono cresciuti quartieroni sempre più nuovi e più grandi, nuove zone residenziali, periferie e suburbi, svincoli, rotatorie, semafori e incroci, bretelle, viali attrezzati, aree commerciali e dirigenziali. Tutto tenuto insieme solo dal traffico e da strade che spesso si perdono nel vuoto. Un groviglio più o meno fitto e disunito, che forma tutt’al più una zuppa di città. Per ora c’è solo il simulacro, il fantasma scheletrico del cemento armato, a disegnare le linee interrotte della Grande Cosenza. Ma non gli abitanti, i cosentini. Anzi i cusendini. Gli abitanti degli avamposti della nuova Cosengeles, sono invece sempre di meno: oggi assommano poco più di 65mila, da 118 mila che erano cinquant’anni prima. Cosenza però, pur se gonfia di ormoni consumistici e cemento da metropoli post moderna, non è ancora diventata una vera città metropolitana, nonostante le sue ambizioni provinciali.

Dove comincia e dove finisce Cosenza adesso? Non è mica davvero Cosengeles. Eppure non si capisce che geografia abbia, che volto voglia mostrare, che postura voglia tenere. Strade, e Cosenza in mezzo a un groviglio di strade: la 107 Silana-Crotonese, che valicando l’Appennino congiunge Paola all’autostrada del Mediterraneo (che una volta era semplicemente la Salerno-Reggio Calabria) e poi risale verso la Sila fino a toccare lo Ionio a Crotone; il lungo stradone che conduce ai Cubi Gregotti dell’università di Rende e a quella striscia slineata e disarmonica di grigi quartieri dormitorio che scende dalle colline presilane e dai suoi antichi casali e si salda come una frana che un chilometro dopo l’altro inghiotte tutto il fondovalle costeggiando le due sponde del Crati, fino alla soglie di Montalto, Taverna, Rose.
I quartieri sul Tirreno
È la Cosenza capitale del cemento facile che vorrebbe intitolarsi “area urbana”, dove l’urbano altro non è che il prolungamento isolato e zeppo di casermoni in cui la vita scorre ai lati della 107, della vecchia e nuova 19 delle Calabrie, prima di confluire nel traffico che si dirama ininterrotto sull’asse nord-sud, fino a scendere di nuovo verso Paola, sulla traccia tortuosa della statale 18, la prima Salerno-Reggio Calabria della storia. Per spegnersi poi a rivoli di sudore, polvere e catrame diuturni sulle spiagge del Tirreno.
In mezzo, quel vasto e sfrangiato compound delle vacanze pendolari e low cost che è fatto di fitti di fortuna e delle seconde e terze e quarte case dei dannati dei bagni con famiglia al seguito. Vacanze al mare che sono i cubicoli all’implacabile calura d’agosto e le scatole da imballaggio delle due settimane con le famiglie al mare, in fila sotto i cavalcavia e i binari della ferrovia tra Torremezzo, San Lucido, la marina di Paola, Fuscaldo, Acquappesa, Sangineto: i quartieri d’estate dei cosentini.
(le immagini d’epoca all’interno dell’articolo sono pubblicate sul gruppo Facebook “Il senso del tempo, il valore di un posto. Cosenza.”)