RITRATTI DI SANGUE | Sangue, droga, veleni e impunità: la leggenda di Franco Muto

Dalla guerra di mafia ai delitti eccellenti (e impuniti). E poi i rifiuti tossici inabissati: un giallo internazionale finito in niente. La vita e il potere del "re del pesce", che ha condizionato la storia di Cetraro e non solo

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Lo chiamano, da sempre, “il Re del pesce”. Già, perché spesso in Calabria l’affaccio sul mare non significa vocazione turistica. Vuol dire che le cosche del luogo sono capaci di sfruttare anche gli specchi d’acqua per fare affari. E di affari, Franco Muto ne avrebbe fatti molti.
Muto è uno dei boss più longevi della ‘ndrangheta. A inizio anno ha lasciato il 41bis, dove era ristretto, per motivi di salute legati all’età: 82 anni suonati.

Franco Muto da Cetraro

Da Cetraro, il suo regno indiscusso della provincia di Cosenza, la cosca Muto, retta da Franco Muto per decenni, avrebbe controllato il settore turistico dell’area. Soprattutto il mercato ittico.
Soldi che vanno e vengono, tra strutture ricettive e carichi di pesce, ma anche grazie al traffico di droga, che la cosca Muto sarebbe riuscita a controllare anche nell’area campana del Cilento.
Forse proprio grazie a questa leadership, mai messa in discussione da nessuno, la cosca è riuscita a entrare nel gotha della ‘ndrangheta. Ed è rimasta sostanzialmente immune al già marginale fenomeno del pentitismo, da cui la ‘ndrangheta è sempre riuscita a difendersi meglio rispetto a mafia e camorra.

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Franco Muto da giovane e in un’immagine più recente

La leggenda del re del pesce

Franco Muto è un boss leggendario. Un po’ perché è vissuto tanto a lungo da superare varie epoche. Un po’ perché le inchieste solo in parte hanno fatto luce sui suoi affari. Molto, in realtà, è rimasto avvolto nel mistero, nella leggenda, appunto. Dagli interessi nel campo della sanità (l’ospedale di Cetraro è, da sempre, considerato cosa sua) ai rapporti con i “colletti bianchi”: dalle forze dell’ordine alla magistratura. Tutto, come sempre, all’ombra dei cappucci della massoneria deviata.

Un regno nato a colpi di pistola

Come tutte le storie dei grandi clan di ’ndrangheta, anche quella della cosca Muto ha radici lontane nel tempo. Già negli anni ’70, infatti, quei territori sono teatro di conflitti armati in cui la famiglia Muto si distingue in termini criminali. Sono gli anni in cui la ’ndrina costruisce la propria egemonia.

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Franco Pino e Franco Perna. boss rivali della Cosenza di quegli anni

Alla fine degli anni ’70 la famiglia si schiera con i Pino-Sena in faida con i Perna-Pranno-Vitelli. Più o meno gli stessi anni in cui anche la provincia di Reggio Calabria è scossa dalla prima guerra di ’ndrangheta. E sono gli anni in cui le cosche si modernizzano e sostituiscono le proprie fonti di guadagno.
Ovviamente, il cambio di gerarchie e di equilibri non può essere silenzioso e indolore. La faida tra i Pino-Sena e i Perna-Pranno-Vitelli termina solo alla fine degli anni ‘80 con un totale di ventisette morti ammazzati.

Chi denuncia muore: il delitto Ferrami

Come detto, le attività investigative solo in parte hanno tratteggiato la vera entità degli affari di Franco Muto e della sua cosca. Allo stesso modo, il “re del pesce”, sebbene coinvolto in diverse inchieste, è uscito spesso “pulito”. Su tutti, gli omicidi di Lucio Ferrami e Giannino Losardo.
Il primo, nativo di Cremona, aveva spostato la propria attività imprenditoriale di ceramiche nel Cosentino. Per la precisione, nell’area che ricadeva, già tra la fine dei ’70 e l’inizio degli ’80, sotto l’influenza dei Muto. Proprio dagli ambienti malavitosi legati al “re del pesce”, Ferrami avrebbe ricevuto le richieste estorsive. Non solo tutte rispedite al mittente, ma anche con nomi e cognomi messi a verbale in denunce circostanziate.

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Lucio Ferrami

Ma quelli sono gli anni in cui nessuno parla, in cui una denuncia significa condanna a morte certa. E, infatti, il 27 ottobre del 1981 Ferrami rimane vittima di un agguato mentre rientra a casa in auto dal lavoro. La sua vettura e il suo corpo vengono crivellati di colpi e la moglie, Maria Avolio, si salva solo perché Ferrami le fa scudo con il corpo.
Per il delitto di Lucio Ferrami, il boss Franco Muto, il figlio Luigi e quattro scagnozzi del clan che avrebbero materialmente effettuato l’agguato, saranno condannati in primo grado dalla Corte d’Assise, ma assolti in secondo grado, con la formula dubitativa, allora prevista dal Codice.

Franco Muto e il caso Losardo

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Giannino Losardo

Grida (e forte) voglia di giustizia anche l’omicidio di Giannino Losardo, membro del Pci e segretario giudiziario della Procura di Paola.
Losardo viene ucciso circa un anno e mezzo prima di Ferrami. Sindaco di Cetraro tra il 1975 e il 1976, Losardo cercò di contrastare lo strapotere della cosca Muto, che già in quel periodo imperversava.
Poi, nel 1979, ricopre il delicato ruolo di assessore comunale ai Lavori pubblici. Proprio negli anni in cui la speculazione edilizia arricchisce le cosche un po’ dappertutto in Calabria.
Nella zona di Cetraro, la cosca Muto vuole fare man bassa di concessioni edilizie, per sviluppare i propri affari sulla ricettività e sul mercato ittico.
Losardo denuncia più volte in consiglio il malaffare e le connivenze di cui possono godere Franco Muto e i suoi.

Proprio al rientro da un consiglio comunale due killer in motocicletta affiancano la sua 126 azzurra e lo colpiscono gravemente. È il 21 giugno 1980.
Losardo muore poche ore dopo in ospedale, non prima di aver pronunciato l’ormai celebre, ma inquietante, frase: «Tutta Cetraro sa chi mi ha sparato». Forse per sottolineare che, però, nessuno avrebbe parlato. E, di conseguenza, nessuno avrebbe pagato.
Anche per questo omicidio, Franco Muto sarà imputato come mandante. Mentre come esecutori finiranno alla sbarra Francesco Roveto, Franco Ruggiero, Antonio Pignataro e Leopoldo Pagano. Ma anche in questo processo Muto e i suoi saranno assolti.
Il delitto Losardo è tuttora impunito.

Franco Muto e la Cunski

È lunga l’epopea criminale di Franco Muto. Il suo nome spunta anche nelle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Francesco Fonti.
Uomo della ’ndrangheta di San Luca, Fonti si autoaccusa di traffici di rifiuti radioattivi e dell’affondamento di alcune carrette del mare al largo delle coste calabresi.
Tra queste, parla anche della Cunski, la nave che sarebbe stata colata a picco al largo di Cetraro. Ovviamente con il placet e la complicità di Muto.
Il caso scoppia tra il 2009 e il 2010. E la ricerca della verità va avanti, in quel periodo, grazie alla pervicacia dell’allora assessore regionale all’Ambiente Silvio Greco.

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Il relitto della Cunski

Fonti racconta di aver chiesto un aiuto logistico alla famiglia Muto nel 1993 al fine di affondare imbarcazioni cariche di rifiuti tossici o radioattivi affidati alla famiglia Romeo di San Luca da alcune società estere.
Inoltre, Fonti racconta di aver fatto saltare in aria le navi, azionando un telecomando da un motoscafo a 300 metri dall’imbarcazione abbandonata in mezzo al mare. Il tutto sfruttando l’oscurità, già incombente dal pomeriggio, del mese di gennaio. In cambio dell’appoggio e dell’aiuto, la famiglia di Cetraro avrebbe ricevuto circa duecento milioni di lire.

Molto rumore per nulla?

L’affaire Cunski si sgonfia: l’allora ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, insieme ad altri soggetti istituzionali, chiude la vicenda. Quella al largo di Cetraro – sostiene la tesi del governo – non sarebbe la Cunski, ma un piroscafo, residuo della prima guerra mondiale. Un dato inoppugnabile è dato dal fatto che, in quelle settimane di caos, le vendite di pesce a Cetraro diminuiscono dell’80%, con diversi commercianti costretti a chiudere le proprie attività. Certo non una bella situazione per il “re del pesce” Franco Muto.

Franco Muto torna libero

Ma Franco Muto ha superato questo e altro. Dal febbraio scorso è anche uscito dal carcere, forse quando nemmeno se l’aspettava.
Muto aveva subito una condanna definitiva a vent’anni di reclusione nel processo “Frontiera”, che aveva ricostruito diversi anni di affari criminali della ‘ndrina. Tra questi, lo sfruttamento delle attività economiche del luogo e il traffico di droga (cocaina, hashish e marijuana) sia nel Cosentino che nel Cilento.
Ma, in ragione dell’età avanzata e delle precarie condizioni di salute, il magistrato di sorveglianza ha autorizzato l’uscita di Muto dal carcere di Tempio Pausania, dove era detenuto.

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Il porto di Cetraro

E così, dopo la sentenza definitiva sancita dalla Cassazione, ha potuto far ritorno nella sua Cetraro. Sua, senza le classiche virgolette.

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