BOTTEGHE OSCURE | Cosenza da bere: dal Vetere a Bifarelli, i rifugi dei viaggiatori

Pochi alberghi, uno solo degno di questo nome. A cavallo tra '800 e '900 l'accoglienza nella città di Telesio lasciava parecchio a desiderare. Ma per chi, più che in un letto, cercava sollievo nel vino c'era un mondo di osterie e cantine da frequentare. Una era così leggendaria da essere ancora nell'immaginario bruzio decenni dopo la chiusura

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Per i viaggiatori che giungevano a Cosenza in treno via Sibari, l’accoglienza nella città dei bruzi non era delle più rosee. Ragazzacci di strada prendevano d’assalto l’ingresso principale della stazione proponendosi ai forestieri come facchini oppure offrendo accoglienza in alberghi, pensioni, locande e osterie. «È uno sconcio» scriveva nel 1896 un indignato redattore della Cronaca di Calabria dopo aver assistito a quel «pigia-pigia indiavolato ed i poveri viaggiatori spesso sballottati tra la ressa di tanti ragazzacci».

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La stazione di Cosenza a inizio ‘900

Tra «mmuttuni» e «male parole» ciascun giovinastro avrebbe “puntato” il proprio forestiero e conducendolo alla carrozzella libera gli avrebbe spillato qualche quattrino che si sarebbe bevuto nel giro di pochi minuti nelle fetide cantine di Santa Lucia. La carrozzella avrebbe cominciato allora la sua lenta ascesa su corso Telesio verso piazza Prefettura, dove sorgeva l’unico albergo della città degno di tale nome.

Don Ciccio Lupoli, lo chef che sfidò i big

C’era poco da fare: commercianti, uomini d’affari, artisti e soubrettes avrebbero soggiornato all’Albergo Vetere, a un tiro di schioppo dalla Villa Comunale. Ai primi del ‘900 era gestito da Francesco Lupoli, per tutti “Ciccio”, chef dell’annessa trattoria “Zumpo”. Oltre a preparare un sontuoso capretto al forno, Lupoli era rinomato per la torta di mandorle servita nell’ampio salone che si popolava di professionisti, gente di spettacolo e politici. Lo stesso Lupoli tentò la candidatura “autonoma e di protesta” alle elezioni amministrative del 1895 rispetto ai candidati del Partito socialista ufficiale. Si arrivò a dire che i 47 voti allo chef – “tolti” secondo alcuni ai due “big” Pasquale Rossi e Nicola Serra – furono dovuti alle laute pietanze somministrate e recensite sulla stampa locale.

L’Albergo Vetere e il teatro Rendano in piazza Prefettura

Tra i fan più accesi di Lupoli c’erano i redattori della Cronaca di Calabria. Nel 1911 il giornale diretto da Luigi Caputo scrisse che commercianti e professionisti si sentirono di offrire al loro chef «un pranzo per il modo signorile col quale erano trattati: un pranzo a chi aveva il merito di preparare ottimi pranzi». Nonostante la mancanza di un ascensore/montacarichi e di bagno, telefono e riscaldamento nelle camere private, l’albergo ai piedi di colle Vetere con le sue camere «ricche di sole e aria sana» era il meglio che si potesse trovare a Cosenza tra ‘800 e ‘900. Divenne persino un ricovero per famiglie sfollate durante la Seconda guerra mondiale. Fu infine demolito nella seconda metà degli anni ’60 per far posto al nuovo Liceo “Telesio”.

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Pubblicità dell’Albergo e Ristorante Vetere su un numero della Cronaca di Calabria di fine ‘800

Brutti, sporchi e cattivi

«Albergo buono anche se primitivo» scriveva del Vetere la storica dell’arte statunitense Mary Berenson nel suo diario di viaggio In Calabria (1908). Avrebbe dovuto soggiornarvi pure lo scrittore inglese George Gissing che in Sulla riva dello Ionio (1897) lo giudicò «veramente un albergo decente». Tuttavia non trovò posto. La guida Baedecker lo condusse allora all’Albergo Leonetti su Corso Telesio (erroneamente tradotto “I due lionetti”), un vero e proprio dramma per lo scrittore britannico: «Una terribile buca aperta e sporca al di là di qualsiasi cosa io mi sia giammai imbattuto». Il “puzzo” avvertito dall’ospite era forse dovuto alla trattoria gestita da don Ciccio Altalena, specializzata in fritti e arrosti.

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Cosentini in piazza Piccola, su corso Telesio: poco più giù, l’Albergo Bologna

Sognò il Vetere anche il giovane aristocratico austriaco Friedrich Werner van Oestéren che giunse a Cosenza una sera di primavera del 1908 intenzionato a riposare, quando gli si fece incontro un cameriere: «Mi accolse con la domanda se fossi io il signore che ha prenotato una stanza». La tentazione del disfatto viandante fu enorme: «Se non fossi stato per principio contrario alle bugie oggi ne avrei detta una e avrei risposto affermativamente. Non appena risposi secondo verità mi mandarono indietro per mancanza di stanze».

La solita guida spinse l’avventuroso austriaco in una “locanda di terz’ordine”, l’Albergo Falcone (in seguito Albergo Bologna): «Oh Dio Cane! – esclamò il viaggiatore – la camera nella quale mi condussero aveva un aspetto orribile […] pur con un senso di raccapriccio e paura rimasi in quel buco privo d’aria, sporco, maleodorante e con un’illuminazione elettrica ridicola». Nelle prime ore del mattino van Oestéren se ne tornò al Vetere dove nel frattempo si era liberata una camera e «dormii alla grande fino a mezzogiorno».

Tavernari di Cosenza

Più che alberghi il Falcone, il De Felice, il Gonzales e il Giglio d’Oro erano locande modeste o malfamate, con pareti nere e umide, odore di muffa, aria malsana, stanze buie e prive di suppellettili. Ce n’erano diverse anche tra piazza S. Giovanni, nei vicoli di piazza San Domenico e in via Sertorio Quattromani, frequentate da lavoratori dalle mani callose e, in generale, gente senza troppe pretese.
Piccole cantine e osterie popolavano i quartieri popolari della città. Massa, Garruba, Rivocati, Santa Lucia, Spirito Santo, ma anche la parte alta, ne ospitavano diverse. A differenza degli alberghi, visitati da ospiti illustri di passaggio, le cantine e le osterie hanno lasciato traccia soprattutto negli atti dei processi per i reati di cui furono teatro.

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Cantina Mazzei a Motta di Rovito. Foto dal gruppo Fb “”Calabria di una volta

Nelle cronache delle rivolte cosentine del 15 marzo 1844, ad esempio, si legge di come alcune taverne funsero da punti di raccolta per i rivoltosi in attesa di entrare all’opera. Nella Taverna di Stocchi, per esempio, posta nel territorio rendese lungo la strada maestra che da Nord portava a Cosenza, si diedero appuntamento i ribelli provenienti dai paesi arbëreshë.
«Un’ora prima dell’alba bussarono alla taverna vicino Emoli pria del signor Stocchi di Cosenza, ora di Spizzirri di Marano Marchesato e bevvero del vino; indi si avviarono per la volta di Cosenza, e sul ponte d’Emoli spararono dei razzi da fuoco […] e ciò per segnale da darsi a Cosentini» scrive lo studioso Stanislao De Chiara.

La figura dell’oste, costantemente attorniato da avvinazzati, tipi loschi, prostitute e tagliagole, era guardata con sommo rispetto. Lo spiega con il consueto tono canzonatorio l’apriglianese Domenico Piro, alias Duonnu Pantu, che nei suoi versi dissacranti ebbe a dire che avrebbe preferito fare il macellaio o il taverniere al letterato: «E si campu n’autru annu, e si nun muoru, o chianchieri me fazzu, o tavernaru!».

Dodici al litro: la cantina ‘i Bifarelli

Le cantine avevano le caratteristiche più disparate. Negli edifici erano poste in genere al livello della strada, spesso illuminate da poca luce e riscaldate da un camino. Botti, damigiane, tavoli traballanti ai quali ci si sedeva con sedie e sgabelli in attesa di gustare il vino locale nei classici bicchieri in vetro “da 12 al litro”, accompagnato da qualche tarallo e poco altro. Più in là con tempo sarebbe arrivata anche qualche gazzosa, prodotta magari da varie piccole industrie locali, ma questa è un’altra storia.

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Si beve vino e si gioca a carte in una vecchia cantina di Cosenza (foto Mario Zafferano)

A Cosenza è diventata proverbiale la cantina ‘i Bifarella (o Bifarelli secondo altri), che dalla vita reale di meno di un secolo fa è assurta alla mitologia cittadina divenendo un luogo tra il reale e il fantastico, posto nel quartiere dei Rivocati, ma anche alla Massa, a Santa Lucia. Insomma, ognuno ricorda che fosse un po’ ovunque. Il vino annacquato e le risse all’ordine del giorno l’hanno fatta diventare l’emblema del luogo caotico e popolare, frequentato da perdigiorno e dispensatori di “vino di cartella”, come soleva chiamarsi il vino adulterato con polveri varie. Magari nella realtà vi si poteva assaggiare del buon vino, chissà. Del resto il vino, comunque fosse, era un prodotto di largo consumo e gli si attribuivano anche virtù benefiche. Per restare nella cultura popolare: «Pìnnuli ‘e cucina e scirùppu de cantìna su la mèglia medicìna».

Vino e follia nelle cantine di Cosenza

Abitudinari delle malfamate cantine della Cosenza di fine ‘800 erano “Giacchino” e “Balletta”, due avvinazzati ben noti alle guardie di pubblica sicurezza. In perenne stato di «ubriachezza ripugnante e molesta» a tutte le ore del giorno e della notte i due, tremolanti e seminudi, si esibivano «nelle più loide espressioni, le più schifose invettive, le più triviali espressioni» che i più giovani ascoltavano e commentavano per ore. Nelle cantine di via Fontana Nuova, come quella gestita dall’oste Angelo Reda, nel 1895 si giocava a primiera. Una notte di primavera fecero irruzione le guardie che bloccati i giovani biscazzieri e sequestrate le carte «dichiararono in contraddizione il cantiniere che permetteva quel gioco, proibito dalla legge» si legge sulla Cronaca di Calabria.

Carabinieri a Cosenza all’inizio del secolo scorso in quella che oggi è piazza dei Bruzi

A sera i muratori della Massa e gli operai degli opifici di contrada Castagna si abbandonavano in una miriade di luoghi improvvisati di mescite illegali, oppure vere e proprie cantine aperte e poi chiuse nel volgere di pochi giorni per mancanza della relativa licenza. Qui si somministrava vinaccio di terza o quarta scelta, colmo di alcol, tagliato da osti e cantinieri truffaldini e prossimi alla malavita. Oltre al taglio discutibile, la vendita o la mescita a prezzo superiore a quello imposto dal calmiere era il tipo più diffuso di speculazione legata al vino.

Dal bicchiere alle lame

Per chi gradiva, di fianco a un bicchiere, non mancavano alici e sarde sotto sale, più raramente uova o frutta secca, chiamate per attagnare il carico della bevuta. Si giocava d’azzardo, si discuteva di donne e armi, e dagli apprezzamenti alle offese e da queste alle lame il passo era breve. Si girava armati di coltello a manico fisso o a molla, da far scattare alla bisogna. L’ubriachezza nelle sue varie forme – continua, manifesta o molesta – era spesso associata come aggravante o al contrario attenuante nei procedimenti penali per rissa, ferimento o mancato omicidio. Le guardie di pubblica sicurezza presidiavano gli avventori delle osterie da lontano, poi seguivano come ombre i giovani avvinazzati già segnalati e pronti a delinquere in una città ebbra di vino e follia.

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