IN FONDO A SUD | Cosenza, la città con un grande futuro alle spalle

Da Atene delle Calabrie a luogo svuotato di simboli e princìpi che ne avevano caratterizzato l'identità, tra cultura ridotta ad eventi ultra pop, urbanizzazione selvaggia, classi dirigenti di dubbio valore e sacche di resistenza che combattono per non annegare nel mare della retorica

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Prima che Cosenza diventasse lunga e scheletrica com’è adesso, l’Unical di Arcavacata, la prima Università dei calabresi, fu per molti di noi provinciali un incubatoio di vite in movimento. L’università è stata la nostra Utopia. Oggi è semplicemente il serbatoio di Cosenza, il suo unico motore sociale, la linfa vitale che nutre tutta l’area vasta. Tra quei cubi da paesaggio surrealista ha messo radici il progresso disunito di questa Calabria, e anche buona parte della vita di sponda della Cosenza di adesso si gioca lì. Un progresso che per noi generazione di arcavacanti si è affacciato sull’orlo della Storia, e subito si è dato via con un risucchio, attratto all’indietro da una forza d’entropia.

Ora gli studenti del campus sono circa quarantamila. Ma l’università sembra un altro pezzo sfuso del domino di periferie senza centro che si allarga oltre il villaggio totale di Cosenza e di Rende. Ordinata ed efficiente in apparenza, ordinaria, spenta e molto normalizzata vista da dentro. Se quel posto ha cambiato da giovani la vita di molti di noi, non ha però cambiato granché Cosenza e la Calabria intorno. È andato tutto poco oltre la sua cerchia. Fuori è arrivato poco. Ma dopotutto, qualcosa di quello che è accaduto lì ad Arca ancora resta significativo: in fondo è la storia di un sogno. E un sogno frantumato si espia lungo la storia come una pena.

L’Arca di Cosenza
Studenti sul ponte Bucci all'Unical prima della pandemia
Studenti sul ponte Bucci all’Unical prima della pandemia

L’affresco post-meridionale della sua parabola è diventato l’allegoria capziosa di un’antropologia del casino calabrese. Dove il casino è tutto contemporaneo, ma stratificato e multiforme, una sinossi della storia che ancora sale di spessore come un soufflé ma non cancella nessuno degli strati irrisolti che vengono a galla dal bolo di un passato mai veramente oltrepassato, rubricato e digerito. L’Arca di Cosenza è un’erma bifronte, un sistema perfetto. Doveva essere l’inizio di un tempo nuovo. La rinascita, il meridionalismo applicato bene, il riscatto dei figli delle plebi, il trionfo della cultura meridionale.

Delle facoltà di un tempo oggi sono rimaste le sigle da app alla moda, i Cal park, l’innovescion solo digitale, un recinto di poteri convergenti controllato da vecchi e nuovi lupi d’accademia. Ma quelli di adesso non fanno sogni d’utopia e non sanno insegnare come i buoni e i cattivi maestri di una volta, non sanno amare e non sanno scrivere bei libri. Sono lupi senza nulla di seducente, famelici e basta. In fondo in lingua calabra Arcavacata, il posto in cui è cresciuta l’università, significa “arca-vuota”, vacante, svaligiata. Un luogo dissacrato.

Vecchie e nuove diarchie

E a Cosenza da dove si ricomincia? Come si ricostruisce l’idea di un orizzonte comune, un’immagine di città? Cosenza oggi fa fatica a ritrovare i suoi simboli dopo il tramonto della sua grandeur provinciale, che si trascina ancora nella retorica un po’ stucchevole di “Atene delle Calabrie”, difficile da rinverdire. Come rimettere in piedi una classe dirigente credibile e adeguata ai tempi, dopo i fasti della Prima Repubblica, scandita da personalità discusse ma di grande rilievo come Mancini e Misasi.

Dopo i due dioscuri cosentini, ministri della modernizzazione, del rigonfiamento terziario, delle opere pubbliche e del cemento, gli ormoni che hanno ingrandito a dismisura la nuova Cosenza senza farne però un organismo urbano dalla fisionomia compiuta, gli anni più vicini a noi sono stati quelli di una diarchia minore che ha però comandato da Cosenza sulla Calabria intera, regnando sui palazzi della politica cittadina, provinciale e regionale.

Mario Occhiuto e Mario Oliverio a Palazzo dei bruzi
Mario Occhiuto e Mario Oliverio a Palazzo dei Bruzi

L’era dei due proconsoli, oggi tramontati e superati dai successori (anche in linea dinastica). L’età dei “due Maruzzi”, Occhiuto e Oliverio, di cui restano a futura memoria le feroci contrapposizioni e gli incroci di interessi trasversali, lo sciupio di luminarie e concertoni, i rodeo di cowboy in Sila e altre discutibili imprese. Da viale Parco incompiuto al tentativo abortito della metropolitana di superficie, fino alla celebrazione dei fasti di seconda mano dell’isola pedonale e del museo all’aperto su corso Mazzini.

Il tramonto della cultura

Una città che dall’avere avuto in passato un assessore alla Cultura di prestigio come Giorgio Manacorda, opta per non averne più(ancora oggi, sotto il neosindaco Caruso) neanche uno. Un movimento musicale e teatrale ormai privo di riferimenti, con la crisi cronica del teatro di tradizione Rendano, con la fine della leggenda off del Teatro dell’Acquario (diventato un bistrot) e con lo stop definitivo dato alla prosa pubblica, cessata a Cosenza con il Teatro Stabile di Produzione, il Morelli (oramai disabilitato, ma diretto in passato da uno scrittore come Enzo Siciliano), la vita culturale della città di Telesio è scesa dalle poltrone di velluto della cultura dei salotti buoni di un tempo alle parodie postmoderne dell’impegno.

La Fiera di San Giuseppe a Cosenza
La Fiera di San Giuseppe a Cosenza

Il declassamento è presto approdato ai surrogati ultra pop degli “eventi” e degli happening piccoli e grandi, come la fiera di San Giuseppe, i concertoni di Capodanno, la Festa del cioccolato sul corso. E anche peggio alla quota dei festivalini celebrativi dell’eclettismo post-tutto intitolati a invasioni e re barbarici, fino alle celebrazioni elevate a idoli identitari farlocchi. Mentre servizi pubblici, scuole, istituzioni e centri culturali con alle spalle tradizioni centenarie presenti in città rimangono orfani e languenti, la Casa della Culture sbarrata, biblioteche e importanti archivi pubblici disertati e allo sbando.

La città tra resistenza e retorica

Qualche residuo fermento antagonista e qualche punto di resistenza culturale e civica sopravvive comunque o ha fatto in città storia recente: l’eredità del collettivo Gramna, Radio Ciroma, i gruppi di lotta per la casa, gli attivisti per il centro storico e i beni pubblici, un po’ di associazionismo laico e di solidarismo cattolico, una piccola casa editrice indipendente, CoEssenza, che anima il centro storico abbandonato, e una casa editrice senior che nonostante la crisi festeggia i settant’anni di vita (Pellegrini, la più antica fondata in Calabria e attiva a Cosenza dal 1952, con più di 5.000 titoli in catalogo).

Ironia e devozione al cuddrurieddru sui muri di Portapiana a Cosenza

Pochi simulacri di gusti popolari, trasversali e bipartisan, facilmente assimilabili al neofolklore cittadino, sopravvivono strenuamente all’omologazione. Superimposti, aldisopra di tutto e sempre presenti nella fiorente retorica identitaria che a Cosenza abbonda e celebra gli sparuti simboli eredità di una presunta autenticità e di un passato metastorico in cui si fatica a riconoscersi. Fin troppo elementari però, anzi alimentari, se il richiamo di consolazione sempre più sbiadito da opporre alla crisi di valori e al caos dei tempi nuovi è quello offerto dalla insuperata triade gastronomica di tradizione locale formata da scirubbetta invernale (neve e miele di fichi), dal must silano delle patate ‘mbacchiuse (patate al tegame), e infine dal trionfo incontrastato dei sempiterni cuddrurieddri, le ciambelle fritte (prodotto non originalissimo in verità) presenti in ogni stagione e in ogni dove, assunte in funzione totemica, autentiche e insuperabili colonne d’ercole della più autentica distinzione cittadina.

Un patto civico

Ma quel che difetta oggi in città è, soprattutto, il tratto culturale, una tradizione di stile che contraddistingueva un tempo non solo le elìtes vere, ma segnava il carattere stesso dei cosentini. Una sorta di principio fondativo, di patto civico. Doti che certo non facevano difetto tra gli intellettuali e le diverse famiglie politiche cosentine del passato, intorno alle quali si tenevano circoli e cenacoli culturali come quelli che si formarono intorno a personalità di opposte appartenenze ideologiche, ma di pari valore cultuale e peso politico.

Dario Antoniozzi
Dario Antoniozzi

Figure colte e appassionate come quelle dei comunisti Gino Picciotto (che fu il primo a sollevare le questioni del centro storico abbandonato già alla fine degli anni ’80) e di Umile Peluso; di democristiani interpreti delle istanze del solidarismo cattolico e popolare come Riccardo Misasi e Dario Antoniozzi; di fuoriclasse della politica ragionata in forma di diritto e di azione riformatrice come Fausto Gullo e Giacomo Mancini, a cui si deve nel 1949 l’istituzione del prestigioso Premio Sila, riesumato dall’oblio nel 2010 per volontà della Fondazione Premio Sila, attiva in città con appuntamenti letterari e un premio nazionale.

Ritratto di un califfo

Quello stesso Mancini a lungo idolatrato come idealtypus weberiano del cosentino da esportazione, il cui carisma di grande politico, insieme all’indubbia caratura culturale, risaltano anche da un indimenticabile ritratto a firma di Gianpaolo Pansa (in una pagina de La Repubblica del 1987). Quando Pansa lodando la raffinata retorica della “orazione manciniana”, definiva Mancini «Califfo di Calabria». Poche righe, ma balza fuori prepotente la sua personalità da ottimato, il notabile di un Sud giunto al successo della scena politica nazionale.

Giacomo Mancini
Giacomo Mancini

Il socialista modernizzatore e l’uomo di Stato che non perde però – nelle più pastose pennellate del dipinto di Pansa- il suo tratto aristocratico e l’aura da gran provinciale, con quel suo parlare lento e colto e le sz arrotate da cosentino di lignaggio, con «quel profilo da gran signore che tutto ha visto e tutto ricorda, quelle occhiate di sbieco che suggeriscono tante cose, quell’eloquio lento e solenne, senza impennate, le parole bene incise dalla voce nasale ma ricca di zeta che son lame di rasoio».

La classe dirigente dei galoppini

Pansa senza saperlo metteva in enfasi in Mancini anche quel tratto di vanità colta e di autorevolezza affluente che tutta l’intellighèntzia cosentina di un tempo aveva ereditato o appreso a forza di educazione colta e di buoni studi, senza i quali non si faceva politica e non si diventava classe dirigente. Una classe dirigente tutta passata, sino agli anni del boom, dalle severe e pensose aule neoclassiche del prestigioso liceo-ginnasio Bernardino Telesio.

A sostituirla sulla scena politica cittadina di oggi, sbriciolati i partiti e le ideologie novecentesche, è il rampantismo social di un generone politico ignorante e rozzo, specie antagonista naturale di libri e sensibilità culturale, ma sempre in primo piano, fungibile e riposizionabile a piacere, che vanta gli addottoramenti dell’università della strada e carriere veloci percorse all’Asp o a Calabria Verde, per lo più formato da galoppini ed ex portaborse, tenutari di clientele spesso eredità di notabili di terza fila della vecchia politica non ancora in disarmo.

Princìpi condivisi

Gli ultimi testimoni di quella stagione trascorsa della buona politica cosentina, raccontano invece un tratto colto e dialogante che, dalla politica al costume, quale che fosse poi il colore di queste élite cittadine, improntava lo stile della vita collettiva sino agli strati più popolari. Formando una solida comunità di presupposti di convivenza e di princìpi civici e culturali condivisi. Significava saper stare al gioco della dialettica, saper tollerare e comprendere le ragioni opposte alle proprie.

C’era un peso per la cultura e i per i ragionamenti. Le parole spese nella dialettica che alimentava la cultura e il dialogo politico tra questi grandi cosentini del secolo appena trascorso che frequentavano i libri e parlavano un italiano di buon gusto erano un contributo devoluto sempre alla causa della convivenza civile. Anche nella polemica più aspra c’era il sapore della civile conversazione, della conoscenza progredita, del pensiero alto e della buona critica.

Lo stile smarrito

Era un costume, una postura di stile a cui la città aderì fino a quando si sentì provincia colta e civile, ancora lontana dalle smanie degli arruffapopolo in cerca d’autore e dei palazzinari speculatori con la fissa della Grande Cosenza. Ora Cosenza è una città che ha smarrito lo stile, la misura di una terza via che non sia quella punzonata dal potere avventizio degli snob dialettofoni e ignoranti al potere, dei radical chic con risvoltino e premio letterario prêt-à-porter.

Auto sul ponte di Calatrava
Auto sul ponte di Calatrava

Quella dei nuovi ricchi col Suv, della cricca dei populisti più rozzi che fanno la gara ai quattrini con gli ipermercati e il nuovo cemento spalmato in giro dagli immobiliaristi d’assalto. Quelli della Cosengeles dei grattacieli tirati su ben oltre i 15 piani, gli artefici della stesa di cemento sterile e privo di socialità che ha stampato la stecca di casermoni stile eclettico e finto international style che adesso corre ininterrotta dal nuovo land marker artificiale del più recente ponte sul Crati, opera modaiola e seriale dell’archistar Calatrava. Un blob di conglomerati edilizi che, scivolando da Macchiabella di via Popilia primo lotto, oltrepassa abbondantemente la frangia di Quattromiglia, fino a spandersi oltre gli ultimi compound dei capannoni di concessionarie di auto di lusso e dei lotti dell’area industriale di Rende-Castiglione Cosentino-Montalto.

Il fantasma della città

Di notte il fantasma scheletrico della nuova Cosenza sbiadisce nel gelo umido della valle del Crati distesa nelle luci fatue di questa Cosengeles disciolta nel buio intermittente dei suburbi. L’oblunga città-stradale, cullata da un’inquietudine che lentamente illumina il paesaggio fuori dalle auto che sfilano tra le cortine di costruzioni nuove e gli scheletri di palazzine mezzo abitate sorte tra gli spigoli di campagne smangiate, ormai guaste e desolate. Così per evitare la sensazione disunita e precaria che si apre sulle albe insonni di certe strane giornate, qualche volta cambio strada e vado a guardare la città dall’alto.

Dalla rotabile che dai quartieri in collina porta dentro la città dal canalone di Laurignano, fin dentro le vecchie case della Riforma, vicino ai padiglioni scorticati dell’ospedale dell’Annunziata, e poi si perde dentro il labirinto dei cantieri non finiti, tra le strade provvisorie e senza nome dei nuovi lotti dietro via Popilia e Malavicina.

Sotto la luce stordita di pochi lampioni la città nuova si macchia di una consistenza fatua e polverosa, ha qualcosa di stregato. Già dalla strada di mezza costa verso la città, i grossi pezzi del Lego che compongono i quartieri nuovi distesi come una colata di lava rappresa nella lunga valle del Crati, diventano immagini inutilmente vaste, imprecise e sfocate. I semafori si illuminano esitanti sul giallo, qualche corriera di linea parte per destinazioni più lontane dalla stazione degli autobus e qualcun’altra si infila stancamente lungo il viale degli arrivi, già carico di studenti e pendolari raccolti dalle pensiline dei paesi della provincia.

L'autostazione a Cosenza
L’autostazione a Cosenza

I piazzali della stazione dei bus già molto prima del mattino sono fitti di impiegati partiti nel cuore della notte per arrivare in tempo negli uffici. Le facce smunte e intontite dal sonno delle donne ucraine che vanno a prendere servizio nelle case borghesi, o che staccano da una notte passata a fare le pulizie nei condomini. Il resto della ressa sono migranti, operai e manovali dei paesi che devono ancora arrivare a destino, comandati come me ad aprire svogliatamente il turno della vita del mattino.

Hinterland, traffico e casermoni

Poi il traffico si riversa di nuovo alla periferia nord di Cosengeles, dalle parti di Roges, dove si distende l’hinterland assiepato di enormi casermoni squadrati e di crocevia illuminati da grandi lampade che guidano come rastrelliere il traffico dei viali verso l’imbocco dell’autostrada. Ancora oltre, il traffico va a sfiatare verso l’università e la statale che riporta alle colline scure della vecchia Arintha e alla branca della 107.

Il Tirreno visto dal valico della Crocetta, tra Cosenza e Paola
Il Tirreno visto dalle montagne tra Cosenza e Paola

Lì la strada si lascia alle spalle le ultime sagome della Grande Cosenza, e risalendo prende la rincorsa per prepararsi a scavalcare tra una spira di tornanti la sella più alta dell’Appennino, precipitando subito dopo dall’altra parte della costiera fino a Paola. Solo in quel punto gli ultimi sentieri della grande periferia sembrano assottigliarsi e scomparire, dileguando i loro confini contro il buio denso e magnetico della montagna che separa Cosenza dal Tirreno, col mattino che si apre già davanti al presagio del mare e ai suoi spazi smisurati. [continua…]

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