Quanto sareste disposti a pagare per un chilo di neve? Probabilmente nulla, ma attenzione: la domanda non è così peregrina come si può immaginare. Fino a circa un secolo fa (prima dell’avvento dei mezzi meccanici per produrre il ghiaccio), la neve alimentava un discreto mercato anche fuori dai mesi invernali. Era pratica diffusa acquistarne quantitativi più o meno grandi da usare in casa per i motivi più svariati, dal più intuibile tentativo di rinfrescare l’acqua a realizzare bevande. Che ai nostri trisavoli piacesse gustare una scirubetta ad agosto, diciamocelo, non ce lo saremmo immaginati.
La pratica era diffusa non solo in Italia ma anche in Francia, Germania e in altri paesi europei. Certo, suscita curiosità come un simile settore economico abbia potuto prendere piede anche al Sud e in Calabria in particolare, visto il torrido clima estivo. Era necessario disporre di neve, o ghiaccio, nei mesi estivi, quindi bisognava trovare il modo per conservarne nei mesi invernali, quando ce n’era in abbondanza. E quale luogo se non la Sila poteva divenire la “miniera” calabra dove “estrarre” questo prodotto?
In Magna Sila
«Su i monti della Sila vi sono alcuni fossi, ne’ quali si ripone la neve, che con diritto proibitivo si dispensa alle popolazioni delle due Calabrie» scriveva nel 1788 l’avvocato Giuseppe Maria Galanti nella sua Nuova descrizione storica e geografica delle Sicilie. La Sila era tra gli “arrendamenti”, cioè le fonti di gabelle e imposte per il Regno di Napoli, che ne appaltava la riscossione a privati. La Sila generava allo Stato un gettito fiscale non indifferente perché forniva legname per le navi, pece bianca e nera di buona qualità, pascoli. E, appunto, neve in abbondanza.
Nello stesso periodo nella città di Napoli la neve si vendeva al minuto a tre grana il rotolo (circa 900 grammi). I venditori la compravano a 2,40 ducati al cantaro (circa 90 kg, dunque 2,4 grana al rotolo, con un guadagno di 0,60 grana a rotolo) e su questi dovevano pagare diverse gabelle. Una buona parte della neve “napoletana” arrivava in città via mare dalla Calabria e in particolare dalle neviere silane. Si trattava di cavità, a volte naturali ma molte altre volte opera dell’uomo, quasi sempre sotto terra, nelle quali d’inverno la neve veniva accumulata, pressata e compattata fino a formare un enorme blocco di ghiaccio. Le neviere venivano poi “foderate” con legname, foglie o paglia, creando, per quanto possibile, una sorta di isolamento termico.
A vineddra d’a nive
Dalla centrale (almeno un tempo) piazza del Duomo, si dirama a sinistra della Cattedrale l’attuale via Giuseppe Campagna, che scende verso il quartiere dello Spirito Santo. Siamo nel cuore del centro storico di Cosenza, a monte delle antiche mura romane che costeggiavano il fiume Crati, in quella che tutti conoscono come a vineddra d’a nive.
La delimitano in alto la piazza del duomo e in basso la pustìerula, la postierla, porta d’accesso secondaria nelle mura della città. Era conosciuta nel ‘500 come ruga dei Morti, probabilmente per via del vicino cimitero della Cattedrale.
Iniziò successivamente ad essere indicata come via della Neve perché divenuta intanto il punto di concentrazione delle neviere urbane e dell’attività di vendita di neve e ghiaccio, che generalmente avveniva da maggio ad ottobre. La via era adibita a questo uso probabilmente perché, essendo stretta e formata da edifici alti, il sole difficilmente riusciva a penetrare fino a giù. I bassi di via della Neve erano così perfetti per realizzarvi le neviere cittadine e replicare il sistema silano all’interno di grotte e cantine. Anche qui erano presenti delle cavità scavate nel terreno dove la neve veniva stipata, e coperta di paglia perché la temperatura rimanesse più bassa possibile.
Caterina a nivara
Dalle pergamene dell’Archivio storico diocesano di Cosenza apprendiamo come agli inizi del ‘700, ad esempio, vi operasse Caterina De Prezio alias a nivara, vedova di Francesco Santanna da Cosenza che nel 1709 vendette al Capitolo della Cattedrale di Cosenza la sua casa «sita in Cosenza alla Ruga dei Morti o dove si vende la neve». Il soprannome a nivara dato alla De Prezio e il toponimo rappresentano una testimonianza straordinaria del legame tra luogo, abitanti e attività commerciali: via dei Mercanti, degli Orefici, dei Cassari, dei Pettini, delle Conciarie, piazza delle Uova, del Pesce, dei Follari, della Neve e così via. Si trattava di attività spesso portate avanti dalle classi popolari, ma la vera partita si giocava molto più in alto.
Monopolio sulla neve
La possibilità di estrarre la neve era prerogativa del regio fisco, che ne appaltava la gestione a privati. Il conduttore della bagliva e delle neviere della regia Sila, aggiudicatario dell’appalto, aveva la gestione in monopolio della distribuzione della neve in tutta la regione. Non di rado sorgevano controversie tra questo, i baroni e le università demaniali, che pretendevano di mantenere alcune libertà sui loro feudi e territori. I “conduttori” avevano il compito di far realizzare le neviere in Sila e il loro monopolio subiva la concorrenza di feudatari e università con territorio in altre zone nevose, dove sorgevano altre neviere in genere per uso locale.
I problemi arrivavano quando feudatari e università calabresi posti in luoghi senza neviere non acquistavano la neve della Sila dal conduttore delle neviere ma da altri feudatari o università che le realizzavano per proprio consumo. Ne scaturivano dispute infinite per dazi e diritti vari, con “molestie” ai nevaioli che trasportavano e vendevano la neve in giro per la regione.
Appalti e multe
«La sera fui presa da un caldo violento; mandai a comprarmi un po’ di neve. Gesù! Che porcheria! Vi era paglia, vi era cenere, né potei spiccarne un po’ di netto per metterlo dentro il bicchiere e rinfrescarmi l’acqua». Così fa dire Vincenzo Padula a Mariuzza Sbriffiti nel 1864 su Il Bruzio, in una lettera-denuncia in cui accenna alla scarsa qualità della neve venduta a Cosenza. E non era un problema di poco conto. In città l’appalto per la vendita della neve era oggetto di dibattito nell’amministrazione comunale ancora nel 1869.
Per il municipio di Cosenza l’appalto della “privativa della neve”, come veniva in passato indicato il sistema di monopolio esercitato dal Comune sulla vendita della neve, era una risorsa finanziaria consistente. L’aggiudicatario dell’appalto aveva il compito di provvedere al trasporto della neve dalla Sila alla città, venderla pulita e scartare quella gelata. Nei mesi estivi la richiesta era tale che l’appaltatore doveva fare in modo di tenere le rivendite aperte giorno e notte «per ogni bisogno, almeno fornita di non meno di otto balle di neve». E per gli inadempienti erano previste pesanti multe.
U Zumpo
A dispetto dell’attuale rete idrica colabrodo e della relativa mancanza cronica in gran parte dei quartieri cittadini, nei tempi passati attorno all’acqua cosentina – pubblica, potabile e pure di buona qualità – gravitava tutta una serie di attività. La data più importante da annotare è il 14 marzo 1899. Centoventidue anni or sono, infatti, l’arcivescovo – che, scherzo del destino, di cognome faceva Sorgente – tenne a battesimo insieme al sindaco Salfi la fontana detta dei Tredici canali, così detta per il numero di “bocche” all’epoca tutte attive (che però all’inizio erano dodici). Quest’ultima era il simbolo di quel progresso che, finalmente, portò l’acqua corrente in città grazie alla rete idrica dello Zumpo. Lo stesso acquedotto che in epoca fascista sarebbe stato affiancato da quello del Merone per servire una città ormai lievitata a vista d’occhio.
La “belle époque” dell’acqua cosentina vide venire alla luce tre floride attività. Nell’estate del 1900 i cosentini andavano a fare i bagni nel fondo agricolo dei Frugiuele detto “la Castagna”, dentro una vasca d’acqua – «potabile» secondo le autorità sanitarie – che proveniva dallo Zumpo. A questa si aggiunse nel 1911 la gloriosa Risanatrice, una lavanderia a vapore che fungeva anche da stabilimento balneare. Ma, cosa più importante, fu l’impianto nel 1912, sempre alla Castagna, di una ghiaccieria o ghiacciaia, vale a dire una fabbrica per la produzione di blocchi di ghiaccio.
Una “dieci” di ghiaccio
L’acqua allo stato solido, in forma di neve oppure ghiaccio, conserva un posto speciale nelle memorie bruzie. Nei vasci della vineddra d’a nive, a un tiro di schioppo dal Duomo, la stessa veniva raccolta e conservata in apposite vasche e cummegliata con uno strato di paglia. Oggi la maggior parte di quei magazzini versa in uno stato pietoso, ricettacolo di macerie e spazzatura. Dell’antica pratica di conservare la neve per i più svariati usi non rimane la benché minima traccia.
Ma ancor più care nella memoria collettiva sono le due storiche e rinomate “ghiacciaie” cosentine: Cinnante, sempre ara Castagna, e Gervasi ara Riforma. Quest’ultima fino alla seconda metà degli anni ‘50 era ritrovo per grandi e soprattutto piccini, specie per motivi di centralità e densità abitativa. A pochi metri dalla salita dell’ospedale civile – oggi via Migliori – nello stabile che per molti anni ospiterà un rifornimento di benzina stava la rinomata ghiacciaia di Gervasi. Qui accorrevano torme di monelli armati di mappina pulita a comprare il ghiaccio. A quell’epoca con 10 lire te ne portavi a casa quasi 1 chilo e mezzo!
L’Anthony Quinn della Riforma
«Lo portavamo a casa e ccu u murtaru du sale o ammaccaturu si triturava per ottime granitine a base di mel’i ficu, mandorla o altri estratti che si aveva in dispensa» ricorda un nostalgico Ciccio De Rose. Qui pare che un tipo dallo sguardo torvo e dai lineamenti poco gentili desse quotidianamente vita a una danza del ghiaccio. Servendosi di uno spaventoso arpione, l’Anthony Quinn della Riforma tirava giù con vigoria gli enormi pezzi che si formavano per via di alcune serpentine poste nella parte alta del locale. Un movimento che ripeteva fino allo sfinimento, cadenzato dalla caduta dei pesanti blocchi che s’infrangevano su una sorta di tavolato. Qui li frenava lo stesso omaccione a colpi d’arpione, per poi ridurli con una serra a mano in “tagli” da cinque, dieci e venti lire per i più svariati usi ed esigenze.
L’Anthony Quinn bruzio appese il proprio arpione al chiodo intorno alla fine degli anni ’50. Le due ghiaccierie sopravvissero ancora per qualche anno, ma non ressero all’arrivo dei moderni frigoriferi e congelatori, una vera e propria svolta per quanto concerne la conservazione degli alimenti e le abitudini famigliari. Furono in breve gli altoparlanti Marelli, in vendita da Scarnati in piazza Ferrovia e da Caputo in via Sertorio Quattromani, a suonare il requiem per neviere e ghiacciaie cosentine.