Tropea d’estate è caput mundi del turismo calabro. La meta più cercata.
Te ne accorgi dalla frequenza delle targhe di auto tedesche e straniere. Dal traffico che intasa la Ss 18 verso Pizzo Calabro. Intorno scorre il paesaggio sinistro e desolato della zona industriale, dopo il porto di Vibo Valentia.
Del sogno della fabbrica restano i cocci, le scorie indigeste: la Nuovo Pignone, la sagoma tetra dell’Italcementi, le ciminiere di Snam e Agip, capannoni dismessi e arrugginiti. Poi restringimenti e interruzioni mal segnalate, la strada impolverata, i resti delle frane e delle distruzioni dell’alluvione di Bivona del luglio del 2006. Ferite vive inferte al territorio, mai medicate.
La riva sotto il sole
Superato lo sfacelo di Bivona, c’è un altro bivio che indica Tropea. La statale si dirada e in qualche tratto torna gradevole. Fino a quando gira a mezza costa e si bagna della luce accecante del mare di Parghelia. Che dal greco significa “riva sotto il sole”.
Tropea si fa aspettare ancora, preceduta dai grandi alberghi nascosti dai recinti nella macchia verde che si avviluppa sopra la scogliera, dai resort di lusso affacciati su alti dirupi marini: i panorami più belli della Costa degli Dei.
Poi all’improvviso la rupe di tufo spugnoso. Il borgo fitto aggrappato sul mare davanti allo scoglio del monastero dell’Isola, la chiesa della Michelizia, le balconate barocche dei palazzi aristocratici, le vecchie case torreggianti tarlate dal salmastro.
La Tropea di Escher
Da lontano Tropea sembra ancora la gemma preziosa di un Mediterraneo da favola immortalata nella litografia di Maurits Cornelis Escher.
Il grande artista olandese autore della Casa delle scale, l’immagine inquietante che Einstein elesse a simbolo della sua teoria della relatività generale.
Escher arrivò qui nel 1931 e davanti al mare del mito scoprì Tropea. Incantato dal panorama dedalico e decadente dedicò a Tropea una magnifica veduta dal vero, degna delle sue più stralunate costruzioni fantastiche.
La metamorfosi del turismo
Oggi Tropea vive un’altra metamorfosi: quella del turismo.
Sempre molti i nordici e gli stranieri, Tropea oggi è piena di rumori, di giovani e di fretta. Disco-Bar e ristoranti alla moda aperti sul corso e nei vicoli del centro storico fino all’alba.
Per i più esigenti c’è ancora il Pim’s, incastonato in un vecchio palazzo sulla rupe. Era il locale stile dolce vita di Raf Vallone, nato e cresciuto qui, gloria tropeana.
Una finestra orlata da un merletto di tufo racchiude il più bel panorama di Stromboli, ed è la meta preferita dei vip di passaggio. Il porticciolo turistico da cui si salpa per un’ora di mare verso le vicine Eolie, d’estate è piano di barche milionarie.
Nella penna di Berto
Non lontano da Tropea altre tracce ricordano la parabola di un grande scrittore italiano. Uno che molto amò e scrisse di questi luoghi, quando però tutto era ancora scomodo e selvatico.
Giuseppe Berto scoprì con anticipo la meraviglia di Capo Vaticano e questo spicchio di Calabria tirrenica, appena intravista dai finestrini di un treno.
Lo scrittore veneto se ne innamorò fanaticamente, come qui può fare solo un forestiero, uno straniero. Tanto che finì per abitare e scrivere sei mesi all’anno nei paraggi del paesino, allora disperso, di Ricadi.
Berto a Ricadi si trasformò in una specie di agrimensore della psiche e scelse un luogo isolato, a picco sulle rocce. Il lembo estremo del belvedere ventoso in cima allo strapiombo di Capo Vaticano, una delle formazioni geologiche più antiche del mondo. Era il fatale promontorio dei vaticini custodito da un oracolo.
Tropea, Capo Vaticano e la sibilla
La sibilla che gli antichi e i naviganti dei tempi omerici consultavano prima di affrontare Scilla e Cariddi.
Davanti solo la maestà delle Eolie e «infinite visioni di mare». Berto costruì lì con le sue mani un suo piccolo buen retiro. Una casa minuscola, «un rifugio di pietre», e tra le pietre e i fichi d’india «un pezzetto di terra, giusto per farne un orto».
La casa di Berto a Capo Vaticano c’è ancora. Un cancello di ferro e un muro bianco vicino al faro.
Tutto il resto dopo qualche decennio si è mostrificato, come dentro le metamorfosi visionarie e malate incise da Escher.
Una casbah ’nduja e cipolla
Intorno adesso è tutto un formicaio. Un assedio di autobus, di turisti in ciabatte, di venditori improvvisati di ’nduja e cipolla rossa.
L’intero pianoro di Capo Vaticano è un dedalo di strade effimere e senza nome che si perdono nel nulla, un eclettismo da nomenclatura turistica lussureggiante di tabelle per resort, villaggi turistici, alberghi, residence.
Ovunque scheletri di cemento, l’incubo del non-finito tra i campi di terra rossa ferrigna e gli uliveti impolverati, villette, speculazioni rampanti e abusi di ogni genere.
Meno male che Berto nel frattempo è morto (1978). Si è risparmiato grandi dolori. Morto prima di vedere quello che hanno combinato quaggiù i continuatori e gli eredi di quel suo paradiso.
Cosa resta di Berto
Berto uomo e scrittore, oltre alla casa dell’anima sul costone del promontorio e un premio letterario a lui intitolato, qui ha lasciato una memoria declinante.
Ormai lo ricordano in pochi. Per alcuni resta un incompreso. E, come per tutti i miti, controverso. Qualcuno lo ricorda distante, tenebroso e ostile. Altri, invece conservano un bellissimo ricordo dello scrittore: appartato ma sempre gentile, confidente e alla mano con tutti.
Il ricordo della barista
Ho incontrato una donna del posto che dagli anni ’50 ha il bar della frazione di San Nicolò, dove c’era l’unico telefono pubblico della zona. «Ogni volta che Berto veniva qui e parlava dal telefono pubblico con la gente del cinema e con quelli di Roma, lasciava aperta la porta del gabbiotto. Lo sentivamo sempre dire col suo bell’accento veneto, «Sai da dove ti chiamo? Io sono nel Paradiso, in Calabria, a Capo Vaticano, nel posto più bello del mondo».
Già allora Berto qui combatteva, inascoltato e irriso, le prime battaglie ambientaliste per conservare e difendere la bellezza, la terra e il mare di questi posti millenari azzannati dal cemento.
Berto, un reazionario illuminato a Tropea
Berto ai suoi tempi fu scrittore controcorrente, noto per le sue polemiche contro la modernità.
Da reazionario illuminato identificava proprio nei calabresi dei tempi nuovi il prototipo italico di un fanatismo dello sviluppo acritico e funesto. Un fanatismo tipico degli immemori e dei nichilisti impegnati nella dissacrazione e nella distruzione di ogni patrimonio ereditato dal passato: «L’antica civiltà contadina, che si era tenuta in piedi sugli stenti, è crollata di colpo: al suo posto non è nata alcun’altra civiltà, è rimasto un vuoto di valori le cui manifestazioni visibili, sono, a dir poco, incivili. La conoscenza dell’alfabeto, se non diventa cultura, dà forza all’ignoranza, e la disponibilità di mezzi rende più potente il disonesto, il furbo. Ora, la civiltà contadina era sì miseria, ma era anche grandissima onestà e nobiltà d’animo popolare, quasi una sacralità che la gente povera esprimeva nel parlare, nel gestire, nel coltivare un campo, nel costruire un muro o una casa. I risultati di quella civiltà, sia nel fare che nel preservare, erano arrivati fino a noi: un patrimonio proprio come capitale, la povertà degli antenati che finalmente diventava ricchezza per i posteri, preziosa materia prima, in quantità incredibile. I calabresi si sono messi con grande energia e determinazione a distruggerla. In questo sono infaticabili e, a modo loro, geniali».
Il riposo
Berto, veneto di Mogliano, scelse di vivere qui, lontano dai clamori, in una sorta di grazia angosciosa gli ultimi vent’anni della sua vita.
Ha voluto farsi seppellire a Ricadi. Anche da morto voleva restare davanti allo spettacolo del suo paradiso a picco sul Tirreno. Voleva farsi seppellire come un vecchio aedo omerico sotto le radici di un olivo millenario della sua casa, sul promontorio degli oracoli. Ma non fu possibile.
Lo scrittore ha una tomba nel minuscolo cimitero di San Nicolò, in mezzo ai sui vicini, gli amati e odiati calabresi. Il cimitero è poco più giù del baretto. Non è indicato nella segnaletica. Mi aiuta solo la signora del bar: «Vedete che adesso la tomba giusta la trova. Non si può sbagliare. È l’unica a terra, senza lapide. C’è cresciuto un cipresso».
Abusivi e kitsch: i vivi come i morti
Sono ritornato nel recinto del cimitero di Ricadi per la quarta volta: la tomba e lì. Il cipresso, stretto e scuro come una lancia, è cresciuto nella sepoltura e svetta oltre il muro di cinta. Niente cappelle, niente lapidi di marmo, nessuna retorica del ricordo. È in un cantone di questo cimitero di campagna, che sembra anch’esso un tempio all’abusivismo. Cappelle esagerate e kitsch, colombari non finiti, tombe divelte e fatiscenti come le costruzioni di cemento affastellate qui intorno.
Vivi e morti. Stesso stile. Case dei vivi e dimore dei morti qui si somigliano. Costruzioni identiche.
Questa involontaria Spoon River della indecenza mortuaria sembra solo un trasloco all’altro mondo, fatto troppo in fretta.
La tomba di Berto
Un caos colonizzatore in mezzo alla natura mai doma che in questo recinto dei morti sembra già sul punto di poter ingoiare tutto.
Gli abusi edilizi, gli ingombri del cemento che anticipano i segni corrivi di una storia che qui, morto Berto, non ha mai smesso di correre verso la “modernità”.
Questa storia non si concilia con la bellezza che appassiona e turba, con la frugalità meridiana di un tempo, con le tracce millenarie di memoria lasciate su questa terra antica.
Cascami di un’onda di cemento che pare inarrestabile. Come quelli che ormai quasi tolgono il respiro alla casetta francescana e minimalista costruita da Berto davanti all’orizzonte fatidico del Tirreno.
Invece Berto è davvero lì per terra, sulla terra nuda, in un recesso dimenticato del piccolo cimitero sotto il sole di San Nicolò. Riposa al bordo del recinto dei morti, appartato, sotto il muro che delimita il camposanto. È lì sotto, aggrappato alle radici di un cipresso scuro che gli fa un po’ d’ombra magra. Intorno solo un mucchietto di sassi di mare a fare da cornice.
Un disegno infantile
Ma sembra anche questo un disegno infantile, impreciso, svogliato.
Sopra ci cresce liberamente un prospero groviglio selvatico e profumato di gerani e di erbacce. Un desiderio originale di confondersi con la terra stessa, con l’oblio di questa riva atroce ed esaltante che già allora cominciava sommergere tutto, i vivi e i morti.
Questo, come il luogo essenziale dei suoi ultimi tempi, davanti al mare, sotto quel cielo magnifico e implacabile, sempre presente, alla fine amato più del resto del mondo.
«Penso che dopotutto questo potrebbe andare bene come luogo finale della mia vita, e anche della mia morte». Così Berto ha scritto di Capo Vaticano ne Il male oscuro. Non disturbiamolo oltre. Solo una larga scheggia di legno ruvido e consunto, simile nella forma alle lapidi musulmane, ricorda chi sta sotto il cipresso. C’è il nome, raschiato a malapena con un chiodo. Appena visibile: Giuseppe Berto. Più in basso, piccole, quasi illegibili e scorticate, due date: 1914-1978. Nient’altro.