Nel 1907 in Italia circolavano in tutto circa 4mila automobili. A Torino era da poco nata la Fiat, che aveva costruito la sua prima auto solo otto anni prima, nel 1899. In quello stesso anno la prima macchina stradale che toccò la mirabolante velocità di 100 chilometri l’ora sfrecciava invece su una strada della campagna francese.

Otto macchine sulle strade calabresi
Sulle strade calabresi all’alba di quel secolo cruciale, il secolo della mobilità e delle strade, di “automobili e velociferi” se ne dovevano vedere in giro davvero pochi, pochissimi esemplari. Mosche bianche, arnesi favolosi e infernali. Roba da signoroni. In effetti i calabresi proprietari di un’automobile circolante erano pochissimi. Solo otto i veicoli a motore immatricolati e censiti dal Touring Club per quell’anno 1907.
Una, fieramente esibita in occasioni ufficiali e raduni mondani, era quella che apparteneva ad un vecchio colonnello garibaldino, il nobile catanzarese Achille Fàzzari. Figura tra l’eroe e l’avventuriero, dopo le imprese garibaldine, passato alla politica ed eletto deputato, titolare di fortune leggendarie, Fazzari si era fatto costruire sul modello delle ricche magioni rinascimentali delle famiglie fiorentine, un palazzo di lusso sul corso principale della sua città, Catanzaro. Non era la sua unica eccentricità. Occupato il nuovo domicilio, invece della solita carrozza a cavalli, il barone Fazzari, eliminata la stalla, nel palazzetto alla moda mise un’auto in garage. Una stravaganza passata alla storia.

Calabrie per stranieri e viaggiatori
Per il resto ancora in quegli anni di Belle Époque in giro sulle strade carrozzabili della Calabria, allora rare quanto le auto, spesso inservibili, sgangherate e polverose, andavano ancora le diligenze postali, carrozze di nobili e reparti militari, cavalcature di medici, carri agricoli e traini di asini, buoi e muli. La strada ferrata correva solo sul Tirreno, unendo col filo sottile delle sue lame di coltello Napoli a Reggio Calabria. Anche quello un viaggio incredibile. Undici ore filate di treno, dalle remote Calabrie alla bella Napoli, come quelle che impiegò lo scrittore vittoriano George Gissing nel 1897.
Sulle marine solo minuscole stazioncine isolate come oasi nel deserto, spiagge ventose, paesaggi mozzafiato e plaghe malariche e disabitate, intorno solo mare e montagne a perdita d’occhio. I paesini stinti e dai colori giallastri restavano arretrati, in alto, con la gente stretta intorno a chiese e castelli e alle case fitte come presepi, a debita distanza dal mare. La vita si rifugiava lontano dall’incertezza delle poche strade, dalle rare automobili e dalla novità della ferrovia.
Un altro mondo, lillipuziano, capovolto nel giro di un secolo. Tutte cose accadute sugli stessi luoghi slabbrati di adesso, impensabili con gli occhi di adesso. In quegli anni la gente minuta si muoveva poco, ancora prevalentemente a piedi, anche per viaggi molto lunghi e faticosi. A quel tempo nessuno in Calabria si doveva preoccupare delle auto, delle strade e del traffico, e nemmeno di cose come lo scempio delle coste, l’abusivismo, l’inquinamento, allora. Altri guai, ma non questi.
Addio Grand Tour
Il paesaggio era lì, quasi intoccato, lì come sempre. C’era e basta. Il paesaggio casomai esisteva solo per gli stranieri. Venivano apposta da lontano. Loro sì se ne accorgevano, ne parlavano, ne scrivevano, lo dipingevano con meraviglia a parole e a colori il paesaggio delle vecchie Calabrie. E la sua visione potente e aspra suscitava sempre una certa estenuata incredulità, una svenevolezza. Svenevolezza da cui sono affetti quasi tutti i racconti dei viaggiatori stranieri del Grand Tour, sempre alle prese con le sensazioni esotiche e primitive che avvincono certe loro visioni naturali e umane della selvatica natura calabra. Sarà l’avvento dell’automobile a mettere fine anche all’epopea del Grand Tour attraverso i rischiosi confini delle Calabrie, a quegli sguardi un po’ troppo estenuati e sdolcinati, carichi di uno stupore sempre misto a degnazione.
Ma c’è ancora qualche eccezione significativa, qualche pezzo buono, anche nel finale inglorioso di questa epopea letteraria sterminata per mano della tecnica, prima dell’avvento del turismo di massa, prima che arrivino le file di automobili di vacanzieri e pendolari a incasinare una statale rovente, così come adesso, in mezzo a un paesaggio calabrese scolorito e rotto al disincanto del turismo di massa.

Granturismo Calabrie
Accade proprio in quegli anni, su quelle stesse strade di Calabria ancora incerte e polverose. Immagini pur sempre sorprendenti, anche dal bordo di una delle prime automobili, nel corso di un viaggio al Sud effettuato nella primavera del 1908. Il diario di bordo è tenuto da due stranieri in viaggio per le strade della, ancora per poco, “vecchia Calabria”. I nuovi granturisti macchinizzati sono una curiosa coppia di ricchi ed eccentrici signori anglo-americani.
Assieme all’americana Mary Smith, una signora elegante e piuttosto avvenente, a bordo di una grossa berlina che arranca sballottata per le rare carrabili a macadam, sconnessi e spesso interrotti, tra curve e saliscendi polverosi, viaggia un uomo. Il suo già famoso e autorevole sposo è un uomo piccolo, con gli occhi vispi e la barbetta a punta. È il critico e collezionista d’arte più famoso al mondo, Bernard Berenson. Entrambi vengono giù da Firenze, dove hanno una magnifica villa sulle colline di Fiesole, “I Tatti”. Intorno a loro abita l’arte italiana del Rinascinamento. La loro è una vita raffinata e discretamente peccaminosa, che si svolge tra gli studi di storia dell’arte, i viaggi esotici e la frequentazione il bel mondo internazionale. Chissà perché la Calabria.

Calabria, Berenson e il diario
Un viaggio faticoso, pieno d’imprevisti e in fondo senza grandi attrattive, interessa ancora a gente così ricca e bennata? Forse sì, a dispetto delle apparenze. Un certo gusto per l’esotico, il primitivo. Durante il viaggio in macchina sta di fatto che scrivono e annotano entrambi. La Calabria è stupore allo stato puro, anche per loro più abituati alla perfezione rarefatta delle forme e all’ingegno dell’arte che non alle visioni all’aperto, agli incontri rustici e inconsueti.
Infatti. Bellissimo paesaggio e quasi, nulla “nulla come Arte”, è la formula che il più volte chiude le loro note di viaggio. La natura indomita, per ora -fino ad allora-, l’ha avuta vinta sulla storia, sulla meravigliosa fragilità umana dell’arte, e anche sulla tecnica e sugli artifici umani, che con i ripetuti terremoti e catastrofi che da queste parti riportano di continuo e bruscamente indietro l’orologio del tempo. Per una singolare circostanza il viaggio dei Berenson accadeva pochi mesi prima del terremoto del 28 dicembre 1908, il cataclisma che rase al suolo Messina e Reggio, distruggendo anche alcune delle località e dei rari monumenti appena visitati dai Berenson in Calabria e nella città siciliana.
Sei giorni da Lagonegro a Reggio Calabria
Compiono un lungo itinerario stradale, che inizia in Sicilia, a Messina (nella cui università insegnava allora Gaetano Salvemini, amico dei Berenson) termina poi a Napoli alla metà di giugno, col favore della bella stagione. Poi per i coniugi Berenson è poi la volta dell’aspra Calabria. Sarà un’impresa. L’attraversamento automobilistico della regione segue la traccia delle poche strade carrozzabili a disposizione. L’unica strada da e per la Calabria è sempre la vecchia Nazionale delle Calabrie, tortuosa come un filo imbrogliato, non ancora afsfaltata. Un solco stradale solitario e spesso impervio che anche rimontato a bordo di una grossa auto resta un’avventura molto molto faticosa. Sei giorni, da Reggio Calabria a Lagonegro.

I Berenson in cerca d’arte e di vestigia, in Calabria, a parte qualche eccezione di rilievo, dicevamo, ne vedranno ben poche. Anche se passano per località segnate dalla storia e dall’arte come Gerace, Monteleone (Vibo Valentia), Serra San Bruno, Stilo, Squillace, Santa Severina, San Giovanni in Fiore, Cosenza, Sibari. Il viaggio dei Berenson si chiude in gloria solo al loro ritorno a Napoli, con lo sbarco mondano a Capri, hotel “La Floridiana”. L’intero viaggio per le strade della Calabria si era svolto a bordo di una grossa automobile, una pesante berlina, che i Berenson non guidano e che pur servendosene, amabilmente detestano. La loro è ancora la condizione elegante ed elitaria del viaggiatore colto, non del semplice turista, a cui si rende “intollerabile l’esibizione personale” e gli strepiti del “mondo meccanico”.
L’amico di Marcel Proust
Li accompagna per un tratto un amico fiorentino molto intimo di entrambi i Berenson, personaggio bislacco, prefuturista fanatico dell’automobile, il giornalista Carlo Placci. Sempre spazientito da curiosi e abitanti che si fanno intorno nei paesi e nelle contrade più isolate per osservare con meraviglia il nuovo prodigio meccanico: l’automobile. Questo Placci ogni volta sbotta altezzosamente: «È un martirio arrivare in quei posti ed essere alla lettera aggrediti dalla folla. Non se ne può più». Dell’equipaggio dei Berenson fa parte anche il giovane nipote francese di Placci. Lucien Henraux, giovane amico di Marcel Proust, che guida anche lui l’automobile – di cui è di fatto il propietario – è giunto appositamente da Parigi per l’impresa. Insomma uno strano quartetto di eccentrici perdigiorno percorreva la Calabria del 1907.
Il diario tenuto da Mary Berenson è assai scarno: spicca per l’attenzione alle atmosfere dei luoghi. C’è il fascino dei paesaggi mutevoli, ci sono i silenzi degli attraversamenti in mezzo al magico e tormentato paesaggio calabrese, sensazioni da angina pectoris. Poi un’interesse divertito più per i pigri e difficoltosi collegamenti stradali che per il valore artistico e culturale delle mete locali così faticosamente raggiunte. L’automobile viene usata dai Berenson senza frenesia, come nei lenti viaggi a piedi o in carrozza passati alla storia della tradizione classica del Grand Tour. È così che Mary e Bernard attraversando lentamente le strade delle regione possono assaporare quello che appare loro ancora «l’aspetto più incantevole del viaggio in auto, le lunghe ore di sogno in un panorama di meravigliosi scenari incontaminati».
Old Calabria
Un viaggio indisturbato, unico, dato che dove passa la loro auto ancora non passa nient’altro. Per i Berenson l’automobile con cui attraversano nel 1907 le contrade più impervie e spettacolari della vecchia Calabria, è ancora un mezzo elettivo, una specie di cocchio di gala. Ed è così che la usano, come una carrozza di lusso. L’automobile posseduta da pochi eletti consente ancora in quegli anni di ritrovare la libertà del viaggiare da soli sulla strada e in luoghi sconosciuti. Un nuovo privilegio meccanico che già appariva perduto, compromesso dalle ferrovie e dalla nascita dei viaggi organizzati. Una libertà effimera e in fondo illusoria, che per un breve intervallo motorizzato fa ritrovare ai viaggiatori più eccentrici il gusto esotico del Grand Tour.
Sono gli ultimi spiccioli del viaggio di formazione che in Calabria i Berenson affidano ad un’estetica delle suggestioni sensuali e alla sensazioni energetiche del paesaggio, più che alle sparute e non molto sensibili prove dell’arte. Non immaginano che, immersi come sono in un miracoloso intervallo di tempo e di luogo, faranno appena in tempo a godersi dai sedili di pelle capitonné della loro scoppiettante e voluminosa berlina a motore quegli stessi panorami intoccati della Calabria dei primi del ‘900, presto colmati anche qui proprio dalla diffusione di massa dell’automobile fordista e dai guasti raccapriccianti del cemento, continuata sino ad oggi nell’apocalisse dagli stupri infiniti del contemporaneo.
Le bandiere blu ante litteram
Da buona americana Mary Berenson, attribuisce un punteggio a ogni cosa che vede dalla macchina. A ogni paesaggio assegna un punteggio. Il gradimento per i luoghi attraversati nel suo tour automobilistico calabrese è espresso con gli asterischi. La signora Berenson in fondo mette asterischi come si farà più tardi con alberghi e ristoranti consigliati da guide e gourmet, come noi oggi mettiamo bandierine blu e verdi che pretendono di assegnare meriti ecologici e di indicare le mete del turismo sostenibile consigliato ai vacanzieri più responsabili. La differenza sta nel fatto che all’illusione di pulizia e di bellezza a un tanto al metro di adesso, corrispondeva l’oggettiva visione del bello segnata allora da una signora americana di buon gusto.

Comunque risultava vincitrice di questa hit list dei paesaggi calabresi del 1907, con tre asterischi, «la vista sulla piana di Sibari, bagnata dal Coscile e dal Crati”, ammirata dalle colline di Terranova. Una visione panoramica vasta e nobile, “degna dell’in¬tero viaggio”, dice Mary. E c’è sicuramente da crederle.
Se la signora Berenson li rivedesse adesso questi posti di magia ridotti a voragine autostradale, magari da un bordo trafficato della 106 gremita dai mostruosi villaggi-vacanze che grandi come caserme ingombrano la piana vicino ai laghi di Sibari, o dalle parti del bivio di Cantinella di Corigliano, con i supermercati, i ristoranti per banchetti e le case abusive piantate tra le rovine del parco archeologico di Sibari, con le puttane nigeriane e i braccianti rumeni sfruttati che vivono alla macchia negli aranceti e tra le casupole di lamiera delle piantagioni di clementine, chissà che orrore, che offesa per il senso del bello della povera signora Berenson. Noi invece ci stiamo facendo l’abitudine. Vivere nel brutto, dentro case brutte, sulle strade del brutto, senza accorgersi del brutto, è possibile, eccome.
Il reportage di Berenson sulla Calabria
Il vecchio Berenson allo scrittore Guido Piovene, altro venerabile custode dellle memorie belle del fu paesaggio italiano, appariva come un nume, a cui «si direbbe che l’età, consumando tutto l’inutile, abbia portato in lui l’estremo della perfezione. È uno dei pochissimi uomini nei quali la lucidità della mente anziché corrompersi si definisce, e ritorna a una specie d’intatto carattere verginale». Forse ancora con quegli stessi occhi e con lo stesso acume, molti anni dopo, nel 1955, ormai novantenne, il celebre storico dell’arte -sorprendentemente- a sorpresa decide di affrontare un nuovo un viaggio in Calabria.
Berenson è così davvero l’ultimo dei grandi viaggiatori ad aver visto la Calabria. L’intero reportage esce sulle pagine del Corriere della Sera, proposto dal giornale in tre puntate. Siamo alle soglie dell’Italia del Boom, il miracolo economico è alle porte e anche la mutazione antropologica e fisica del paese sta per compiersi, finanche in Calabria. Quando ho riletto le brevi e veloci note dei diari di viaggio per il Sud dei Berenson, davvero mi sono chiesto cosa potesse spingere un uomo originale, ricco e appagato come il vecchio e aristocratico Berenson, già vecchissimo e infragilito, ad affrontare nel 1955, per giunta da solo, nuovamente un viaggio in Calabria.
La Calabria che non c’è più
Ad eccezione di una breve visita a Reggio negli anni ‘30, Berenson non era infatti mai più tornato a mettere piede nella regione. Forse una certa magia dei luoghi e delle atmosfere che durava, e doveva aver funzionato intatta a distanza di quasi mezzo secolo sulla sensibilità del vecchio esteta, come una calamita. Alla fine della vita, alla vigilia del suo secondo viaggio per la Calabria, si chiede, alla stregua di un mistico: «Mi ritroverei forse a sopportare fatiche, scomodità, e talvolta a soffrire di tedio, se non fossi incalzato dalla spinta di compiere, a mio modo, un pellegrinaggio?».
Fascino esotico e misticismo ben ricompensato, se è vero che Berenson ha avuto la fortuna, come pochi altri grandi viaggiatori del passato di vedere in tempo la Calabria che davvero non c’è più. Le ultime bellezze, ormai quasi cancellate. Restava vivo il ricordo dei panorami vasti e ammalianti, e di strade incerte e polverose. Ma per il ricorso alle taverne «neolitiche» dall’ospitalità grossolana ben sopportata nel 1908, teme invece di aver progettato il viaggio «durante un accesso di ottimismo».
L’esteta edoardiano troverà la regione rivisitata dopo il tour di mezzo secolo prima, profondamente cambiata nel paesaggio, modellato proprio dall’avvento della mobilità e dal tracciato di nuove strade. Resterà sorpreso dall’opera incipiente di una modernizzazione già molto spinta, persino efficiente. Ci sono «belle strade asfaltate», costruite e finanziate della Cassa per il Mezzogiorno, istituita cinque anni prima. Strade vere al posto dei tratturi sconnessi del suo primo giro in macchina per la Calabria, fatto nel 1908 assieme alla moglie Mary.
Tempi di mezzo
Sono ancora tempi di mezzo ma la strada e già protagonista di quella modernizzazione post-bellica. Dopo quasi mezzo secolo, due guerre mondiali, il fascismo e la prima la veloce e disordinata ricostruzione del dopoguerra, la Calabria è già un’altra cosa. La Calabria già scende dal lungo medioevo dei vecchi paesi-presepio e si raduna sulla strada. E la strada, il nastro d’asfalto, che raccoglie e incammina già un popolo eterogeneo e sciamante, «gente venuta da più parti: i vecchi cavalcando gli asinelli, gli altri inforcando biciclette, motociclette, vespe e lambrette».
Accanto alle strade nuove, spuntano le prime marine per i turisti, gli alberghi nuovi, i primi casermoni appena costruiti, che pure gli apparvero «alti e portentosi, in quella campagna senza abitanti». Il vecchio studioso è sorpreso dalle nuove comodità conquistate, si compiace dei nuovi alberghi. Erano gli anni dei Jolly Hotel, la prima catena a basso costo di hotel per il turismo e il commercio che l’industriale veneto Gaetano Marzotto aveva sparso nei principali capoluoghi di provincia del Sud e nei maggiori centri di snodo, anche in Calabria.
Di fronte ai mutamenti in atto negli anni ’50 Berenson in Calabria è convinto di avere sotto gli occhi «un esempio di come la spola vada avanti e indietro sul telaio del tempo». Se povertà, emigrazione e disagi avevano respinto per secoli le popolazioni lontano dalle coste, ora la ferrovia, le strade e il turismo richiamavano di nuovo gli uomini in riva al mare, il mare della storia mediterranea.
Prima della cementificazione
E tuttavia, allo stesso tempo, Berenson resta compiaciuto da un paesaggio che negli anni ’50, a lui che è un esteta raffinato, sembrava – tutto sommato- ancora integro, lontano dalle compromissioni e dalle brutture insanabili di adesso. La poesia e la forza suggestiva della Calabria, per lui, risiede ancora nel paesaggio, la cui forza magnetica restava sostanzialmente intatta, pur dal veloce sguardo del suo nuovo attraversamento automobilistico. Percorrendo infatti verso Nord «la strada che da Reggio volge a settentrione», la medesima strada che oggi si accompagna allo spettacolo del caos affastellato lungo la statale 18, Berenson si trova ancora ad ammirare «una riviera bella quanto quella la ligure o la francese».
Una sensazione che dura con certi tratti più belli riparati della riva tirrenica calabrese, che sembrano anticipare ai suoi occhi la più famosa costiera che va da Amalfi a Ravello fino a Sorrento. Berenson osserverà, persino compiaciuto, che buona parte del territorio costiero tirrenico era all’epoca ancora miracolosamente indenne, lontano dalle aggressioni e dagli abusi rovinosi della modernità: sarà l’ultimo a poterlo affermare. «La Calabria sfugge, per ora, ai guasti di un’edilizia con caratteri suburbani, non soffre la contaminazione delle cartacce e degli involucri da sigarette buttati per ogni dove, né subisce l’onta di affissi pubblicitari contro l’azzurro del cielo e del mare, come avviene in molti tratti della strada litoranea da Marsiglia a Livorno».

Praia a Mare: fine del viaggio
L’ultimo tratto è il percorso che dal Pollino scende a Mormanno, e poi verso la costa tirrenica che appare luminosa «attraverso una stretta gola di montagne». Sulla costa tirrenica, a Scalea, la strada apre ancora a «un teatro di bellezze magnifiche», paesaggi e sensazioni degne del viatico di un esteta appassionato al suo ultimo viaggio. L’addio alla Calabria viene dato dal vecchio Berenson, in una giornata di completo riposo, dalle sponde di Praia a Mare. Praia a Mare degli anni ’50, in una cartolina che – oggi – sembra incredibile e nostalgicamente evocativa: «Un prospero luogo di villeggiatura, con un’isola omerica di fronte e l’incantevole veduta dei monti che cingono il golfo di Policastro». La strada SS 18 ha stravolto e ridisegnato quei luoghi della costa tirrenica sino alla nemesi, rendendo irriconoscibili le tracce “omeriche” di quel paesaggio, che Berenson contemplò, seduto «all’ombra di rocce favolosamente romantiche».
Un’oretta di un giorno qualsiasi sulla statale 18 di adesso, in mezzo al traffico, tra le casette tirate su alla brava ai lati della strada, in mezzo al caravanserraglio degli alberghi vuoti e delle pensioni di mare, e il vecchio e sofisticato allievo di Walter Pater si sentirebbe catapultato in un girone dell’inferno dantesco. Una catastrofe del paesaggio che a lui, esteta incantato dalla poesia di una Calabria ruvida e frugale, il tempo a venire risparmierà di vedere. Quella inevitabile e corriva che invece resta a noi, sulla nostra strada.