Fu nella sua casa-museo che Giampiero Mughini mi raccontava, pochi anni fa, come la pensasse in fatto di Mezzogiorno, origini e appartenenze. E ricordo, in particolare, la sua contrarietà rispetto a quella che definiva «la retorica del ficodindia»: inutile, anzi nociva. Dalla parte opposta, Franco Arminio ad Aliano mi parlava di decrescita, ritorno ai paesi, tutela dell’Italia interna, quella «arresa».
Darwin a Belvedere
Personalmente temo più la retorica dell’urbanesimo spinto a tutti i costi: poteva andare bene cento anni fa, quando il Futurismo aveva un senso, e che senso! Ma, ad un secolo di distanza, cosa ne è diventato delle nostre città?
Vi chiederete cosa c’entri questa premessa con Belvedere Marittimo… la questione è buffa, a Belvedere resiste un cognome la cui origine deve essere stata necessariamente recente: Evoluzionista. Dunque, retorica del ficodindia vs evoluzionismo: come conciliare le cose? Incamminiamoci.
Un Belvedere anche senza mare
Come ci arriviamo a Belvedere? Abbiamo l’imbarazzo della scelta. Ma anche stavolta voglio arrivarci dai monti, dall’interno, a scongiurare la visione balneare del paese. La strada, anzi La Strada – ché merita tutte le maiuscole del caso – è quella che proviene da Sant’Agata d’Esaro, dalle frazioni Gadurso e Gadursello, dove cinghialesse con cuccioli hanno indiscutibile precedenza sul traffico. È una strada da fare dieci volte all’anno, anche a notte fonda (conosco addirittura chi l’ha percorsa a fari spenti con la luna piena, e un po’ vorrei poterlo invidiare).
D’estate vi ripara egregiamente dal caldo, d’inverno offre paesaggi ripetibilissimi: neve sulle cime laterali, rami spezzati sulla careggiata, aghi e foglie ovunque, come se fosse passato un tornado. Si supera l’antica Masseria Pisani, una vecchia fontana, si passa in mezzo a Sant’Agata e, subito dopo il cimitero, si comincia a salire, dicendo addio ad ogni possibilità di inversione a U, di sorpasso e di uscita verso altre strade: così per circa 20 km, se si eccettuano la stradina sconsigliabile per il Lago La Penna, quella vicinale per Contrada Pantana e tre strade a fondo cieco.
“La Carrera del Diavolo”
Di questa meravigliosa strada panoramica ho già scritto a proposito di Sangineto e quindi non mi ripeterò. Mi limito a qualche aggiunta: appena si lascia Sant’Agata si sale lungo quella che, in maniera inquietante, nelle vecchie carte geografiche era definita “la Carrera del Diavolo”. Invitante. Un ripido rettilineo (l’ultimo da qui al mare) che si insinua lungo un costone a strapiombo su un canyon. Rocce da un lato, burrone dall’altro. Ma vale la pena buttare l’occhio sulla parete dell’altro fianco del canyon, un po’ in alto, e si scorgerà l’ingresso della Grotta della Monaca, sito minerario (e funerario) della nostra preistoria.
Di fianco a noi, invece, a pochi metri, nascosta dietro un muro di contenimento della rupe che ci sovrasta, c’è la Grotta del Tesauro, altro insediamento preistorico. Poi si lascia lo spazio a istrici, volpi, a un boscaiolo con l’ascia alla cintola che ho visto decine di volte camminare sul ciglio della strada col suo cane bianco, e – più pericolose – a vacche placidamente accoccolate in mezzo alla strada, anche in piena notte.
Fantasmi a Belvedere
Si sale ancora, tra tornanti, burroni e selve decisamente oscure (sadicamente, ai passeggeri che per la prima volta portavo su queste strade propinavo contemporaneamente la sigla di Twin Peaks): da ragazzino, un mio coetaneo mi raccontava storie spaventose sui fantasmi che la gente del luogo dice di aver visto spesso presso queste curve. Oggi fa il parroco.
A pochi metri da un bel ristorante due volte abbandonato, di cui restano i tavoli di legno in mezzo ai pini, finalmente si scollina: da qui partono due sterrate per gli escursionisti (è l’ingresso sud del Parco del Pollino) e si valica il Passo dello Scalone. Poi, ovviamente, tutta discesa, a zig zag indecisi sul confine tra Belvedere e Sangineto.
Le masserie abbandonate
Man mano che si scende, cominciano a intravedersi le prime masserie, quasi tutte abbandonate, alcune egregiamente riprese e in piena attività. Una di esse, evidentemente un’ex torre di avvistamento, è poggiata serenamente su un colle pietroso che guarda il mare, accompagnata da un vigneto su un lato, e da una cappelletta bianca sull’altro. Poco più giù, un’altra cappelletta bianca resta invece irraggiungibile, ed era la cappella annessa ad una lunga e imponente masseria ora diruta, sul ciglio di un poggio più scosceso.
Sono le pittoresche contrade di Campominore Alto e Basso, poco più giù di contrada Olivella, da dove invece fa capolino una minuscola stradina in salita tra alcune case, che timidamente non dirà nulla: fino a circa un secolo fa era l’unica strada per il centro storico di Sangineto. Oggi è chiusa per sicurezza, appena dopo le ultime case abitate.
Pochi metri più a valle, ormai quasi sulla SS18, resta qualche traccia del vecchio tratturo scavato nel tufo. Da qui, poco più a sud del miglior forno locale, è molto più soddisfacente prendere il vecchio tracciato della SS18, ignorando i brevi viadotti della nuova. Ci si porta così a uno dei chilometri più pacifici di questa vecchia strada: due curve e un rettilineo tra i canneti e il finocchio, il mare a portata di mano e infine il bivio che riporta sulla nuova SS oppure verso le alture amene di Contrada Palazza. Invece noi prendiamo la minuscola stradina che porta verso la spiaggia, e che passa sotto a un ponticello ferroviario, sul quale ancora resiste la traccia di un desueto fascio littorio. A sinistra per Sangineto, a destra per la Marina di Belvedere.
Le villette col pianoforte in giardino
C’era una grande barca, in costruzione per anni su questi prati vicini alla spiaggia, una costelliana Shipbuilding. Poi caseggiati vecchi e nuovi verso Serluca e Calabaia. Ville e villette, le prime costruite negli anni ’70, quando queste spiagge sono state considerate edificabili a tutto spiano, quando queste seconde case si riempivano – chissà perché – di ritratti tragici di donne bellissime, specie su carta grigia. O, nelle stanze dei bambini, di quadri con cani e gattini a rilievo. Poi c’era chi metteva il pianoforte a coda in giardino. Con buona pace delle corde martoriate dalla salsedine.
La stradina, sterrata e a tratti pietrosa, arriva faticosamente ad un’estremità del lungomare di Belvedere. Sull’altra estremità fa da guardia il cupo Palazzo De Novellis, a picco sulla non rassicurante scogliera di Capo Tirone. In questo palazzo svernava, a cavallo tra Otto e Novecento, il senatore Fedele De Novellis, ambasciatore a Belgrado, Lisbona, Costantinopoli, Berlino e Oslo. Ma sono certamente più note le discoteche della zona e le granite del centro storico, il borgo delle cliniche private, il più tipico prodotto locale. Meglio girarci intorno, ché le contrade qui meritano tantissimo.
Stracalabria tra porcili, vacche e vino
Basta prendere una stradina a caso e lasciarsi portare: sono di gran lunga preferibili le colline, le montagne, le masserie più o meno abbandonate, rupi, strapiombi, macchie; meglio scandagliare stradine di campagna, sterrate, mezze franate, quelle private in cemento, ripidissime, gli ex tratturi, quelle preistoriche, magnogreche, medievali, borboniche, tutte ugualmente dimenticate e ugualmente immerse nell’odore di fichi, angurie, pomodori, finocchio, porcili, ovili e plenarie padellate di vacca. Ci si può rimediare una bottiglia di vino dalla gradazione illegale, una pezza di formaggio o una salsiccia in via d’estinzione Più che uno Strapaese, una Stracalabria.
Dalla cima del paese si può scendere verso Contrada Oracchio e risalire verso Sant’Andrea, dove un’anziana signora resiste tenace nella gestione di un minuscolo negozio d’alimentari rimasto com’era circa 70 anni fa, e vende fichi secchi, neri e bianchi fatti in casa, rari come pepite. Da qui si può risalire verso i monti di Contrada Pantana, Piano La Poma, Case Chienchiero, ma perché non tornare al quadrivio in cima al paese e salire, superata la Torre Paolo Emilio, verso la frazione di Laise? È un paese nel paese, un abitato di montagna che a fine agosto gravita intorno ad una bucolica sagra della “crespella”, che si tiene davanti al sagrato dell’unica chiesetta.
Neve a Belvedere
Da qui si può e si deve risalire – rigorosamente in prima – lungo i ripidissimi tornanti che portano alla frazione più alta, Trìfari, giusto ai piedi della prime cime del Parco: Monte Cannitello e Monte La Caccia. Poche case sparse – là dove pure emersero reperti archeologici – e l’imbocco di un altro sentiero escursionistico (4 ore di salita incessante, senza sorgenti lungo il percorso) che porta al Rifugio e alla Cappelletta di Serra La Croce, già in mezzo ai primi pini loricati.
Il Rifugio è uno dei pochi della zona, il più vicino è quello dietro i monti, presso Fontana di Cornìa (coincidenza a margine: Trìfari e Cornìa sono anche i nomi di due storiche case d’oreficeria, una napoletana e una bolognese). Per arrivarci si passa, tra un capriolo e l’altro, dal luogo detto Gàfaro a Neve, dove ancora nell’Ottocento i belvederesi andavano a rifornirsi della neve migliore. Il Gàfaro a Mare è invece il torrente che ne nasce, e che a valle compete con i più ricchi Soleo e Cozzandrone. Da Trìfari si può proseguire verso nord, verso le contrade Previtelìo, Santoianni, Sabatara, Malafarina, Fontanelle e Piano delle Donne.
La prima conduce, ostica, a Buonvicino, le altre riportano giù, vertiginosamente verso la SS18 in direzione Diamante. Proprio sull’altura di Contrada Santoianni fa sfoggio di sé, lo scempio – inevitabile alla vista, come un faro indesiderato – di un’orrenda struttura in mattoni e cemento, rimasta incompiuta da decenni (doveva essere il pretenzioso Santuario dell’Emmanuele). Al Piano delle Donne, invece, si è appollaiato un ingombrante e antiestetico complesso turistico.
Monte Cannitello brucia
E anche il Monte Cannitello, il mio preferito, brucia. Spesso e malvolentieri. Anno dopo anno, le solite manine laboriose rovinano tutto, con una curiosa precisione nel rispettare i confini comunali. E mi ritorna in mente che l’unica prevenzione è quella utopistica di suddividere il territorio in microporzioni la cui salvaguardia sia responsabilità individuale di una singola guardia forestale aut similia e non di un intero nucleo. Finché la responsabilità sarà di troppi, non sarà di nessuno. E “ti saluto, piede di fico”, in tutti i sensi. Ora potremmo risponderci: meglio la retorica del ficodindia, o l’evoluzionismo tout court?