L’araldica di Calabria nasce anche dalle campagne. Volimento, Pirro-Malena, Inziti, Cicala, Fabrizio Grande, Fabrizio Piccolo, Coscia, Ricota Grande, Ministalla, Lattughelle.
Sono i nomi di alcune contrade tra Rossano, Corigliano – giù e su di lì – dove cominciano a sparpagliarsi vecchie ville rurali, casini ottocenteschi, a difesa e controllo delle rispettive piantagioni d’ogni ben di Dio.
“Terra quantu vidi, casa quantu stai”. Ovvero: “Accumula terre finché puoi ma case soltanto per lo stretto indispensabile”. Così recita un vecchio adagio calabrese evidentemente da aggiornare.

Araldica di Calabria: i rombi di Amarelli
Certamente questa fu zona di sfruttamento intensivo della terra, in ogni accezione se finanche la poverissima liquirizia ne uscì protagonista assoluta (nel bene e nel male).
Un nome, una leggenda dell’imprenditoria internazionale, Amarelli fa parte addirittura della ristrettissima cerchia delle imprese familiari almeno bicentenarie (le radici – è il caso di dire – di questa azienda rimonterebbero addirittura al Cinquecento…) e offre al pubblico un museo che vale assolutamente la pena visitare.
Forse pochi sanno che i “rombetti Amarelli” sono un omaggio allo stemma di famiglia, contenente appunto quelle che in araldica, non solo in Calabria, sono più correttamente dette losanghe.
Araldica di Calabria: triangoli british a Cassano
Ho detto araldica e mi viene in mente un’altra curiosità che scovai a una trentina di chilometri da qui: sul fonte battesimale della cattedrale di Cassano allo Ionio campeggiano tre diversi stemmi.
Due sono nella parte superiore: una è la fascia dei Sanseverino e l’altra la stella dei Del Balzo.
Il terzo stemma, sul piede del fonte, è nientemeno quello del vescovo Owen Lewis (1532-1594), all’epoca latinizzato in Audoenus Ludovisi o – indecisione di quei tempi –Ludovicus Audoenus: un canonista e diplomatico gallese divenuto intimo di Carlo Borromeo e, appunto, vescovo di Cassano.

Lo stesso che creò una sede del seminario cassanese a Mormanno e il Monte di Pietà a Papasidero. E proprio a Mormanno, su una parete esterna dell’antico seminario, è visibile un altro esemplare di questo suo stemma ‘triangolato’, inconsueto nella tradizione araldica italiana, e che solo da Oltremanica poteva giungere alle falde del Pollino. Ma, stavolta, niente liquirizie triangolari…
Pausa pranzo: strippata a Cerchiara
Semmai, pochi chilometri più su, nelle campagne di Cerchiara ci si può imbattere provvidenzialmente in un agriturismo gestito da una coppia di attempati contadini che mandano avanti la (gloriosa) baracca soli soletti, con una grazia e una simpatia impareggiabili.
La signora insiste per preparare, oltre che la camera, anche un pranzetto veloce ma imbandisce un pranzo che altrove potrebbe bastare per due-tre giorni.
Lungi da me la cosiddetta “retorica del fico d’India”, ma quando va detto va detto: queste sono ricchezze e, semmai, occorre rigettare quel sentimento che s’affaccia spesso anche a queste latitudini.
Siamo infatti terra fertile anche noi per quelli che l’insuperabile e pertanto sottovalutato Enrico Panunzio (L’idiota celeste, 1989) definiva «i miseristi in casco coloniale, che si sono fermati a Eboli, dietro i caciocavalli» (e ogni brillante riferimento è puramente intenzionale).

Araldica della Calabria lugubre: il cimitero operaio
Mi avvicino, lungo questo vagabondaggio, anche a un cimitero (non dirò quale).
I cimiteri raccontano di un paese più di quanto non facciano i monumenti, le strade, le chiese o l’elenco del telefono. C’è una grande cappella sbarrata, murata, puntellata. Appartiene a una vecchia Società Operaia di inizio Novecento.
In cima alla porta si apre un finestrino. Si può sbirciare e lo spettacolo è sconsigliabile ai delicati di stomaco: qualche frana o terremoto ha combinato, chissà quanti anni fa, un disastro.
Solo che tutto è stato lasciato così come si rovesciò per terra, così come si aprì, così come si scoperchiò. I particolari, alla fantasia del lettore. Necrofanie altoioniche…
I caduti della ferrovia e il mercato delle pulci
Più in là, nomi di ingegneri francesi deceduti a fine Ottocento, nel periodo in cui lavoravano alla nuova ferrovia sulla costa ionica, impiegati da quella Torino capitale non meno nepotistica delle altre capitali d’ogni tempo.
Ancora più in là, croci senza nomi, foto senza fiori, fiori senza lapidi, nomi senza date, foto di coppia anche senza commorienza (magari era l’unica foto), foto di N.N… Al riguardo, mi vengono in mente certi mercatini delle pulci dove si trovano interi album o ceste pieni di foto in bianco e nero, appartenute a chissà chi.
Roba da ispirare una nuova maledizione, più amara della vecchia «che ti cresca l’erba davanti alla porta!». Ovvero: «Che le tue foto finiscano al mercatino delle pulci!».
Un’altra lapide, degli anni Sessanta, le supera tutte: «La moglie e i figli, in memoria di XY. Nel bene e nel male». Accidenti, se non è damnatio memoriae questa…
La foto più vecchia
E, a proposito di foto, mi ha sempre incuriosito chi sia stata la persona più antica mai fotografata. Non intendo, ovviamente, la persona fotografata per prima, che in qualche modo si riuscirebbe pure a pescarla.
No, dico proprio quella più anziana tra le prime fotografate. Il primato è conteso, ma pare che spetti, per ora, a tale John Adams, nato nientemeno nel 1745 (qui la lista più accurata).

In compagnia dei pipistrelli nazi
Siamo privilegiati. Indirettamente superstiti: discendenti di sopravvissuti a guerre, epidemie, calamità naturali. Una marea di fortunati che dovrebbe baciarsi i gomiti. Basta, s’è fatto tardi, meglio uscire dal camposanto ora che è vespro. Già: arrivano i vespertiliones dei latini, gli spurtaglioni partenopei, i vespistrelli, i vipistrelli, ora più comunemente pipistrelli.
Oppure, come li chiamano da queste parti, lattarini (direttamente dalla nikterida magnogreca). Poi surici-lattarini che per mutazione fonetica diventano animali immaginari capaci persino di riunire in sé due bestie antitetiche: i surici-gattarill’, sorta di improbabili topo-gattini.
E pensare che nella maggior parte delle lingue straniere è sempre tradotto come topo-volante… Ne faceva una perfetta mappatura fonetica tale Emil Eggenschwiler, in un libro (Die Namen der Fledermaus ecc. ecc) edito nel 1934 a Lipsia, nel pieno della Germania nazista. E Rohlfs zitto (che è meglio, date le non poche cantonate che prese nella sua pur brillante carriera).