STRADE PERDUTE | Cavalli, cavalieri e magia ad Amendolara

Non solo veterinaria, ma anche esoterismo: le pratiche strane dell'allevamento equino nella Calabria del Rinascimento. Il tutto sotto l'occhio vigile dei Sanseverino

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Che Pomponio Leto fosse nato ad Amendolara e non a Teggiano – come ancora si legge da troppe parti – è ormai abbastanza assodato.
La paternità dianese dello stesso, se pure filologicamente plausibile, è però anche tarda: chi per primo parla di Leto amendolarese è il coetaneo Pietro Ranzano – mica uno qualunque –, e poi Sabellico, il Volaterrano e il calabrese Gauderino.
Soltanto una generazione più tardi, con Pietro Marso, avrà inizio la corrente dei “dianisti”. Ma lasciamo da parte l’improbabile quanto scottante certificato di stato civile di Pomponio (era pur sempre figlio illegittimo del conte Giovanni Sanseverino, che diamine!)…

Un maniscalco illustre di Amendolara

C’è un altro amendolarese al quale è stata attribuita spesso un’altra provenienza. È il meno noto Bonifacio Patarino, esperto maniscalco e autore nel Cinquecento del Receptario de mascalzia composto da mastro Facio Patarino da Lamigdolara a Bernabò da San Severino conte de Lauria et signore de Lamigdolara.
E rieccoci con i Sanseverino… (se non vado troppo errato, Patarino dovrebbe essere fratellastro del destinatario).

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Nanni di Banco: Miracolo di Sant’Eligio, 1420, Firenze, Orsanmichele

Il trattato di Patarino

Una copia del manoscritto, precedente all’ottobre 1545, è consultabile presso la Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna e forse è proprio di mano di Patarino.
Gli scettici sulle origini amendolaresi di Patarino potrebbero non contentarsi dell’indicazione del luogo nel titolo dell’opera.
Li serviamo con due o tre indizi sparsi qua e là: tra un «citrangolo» e il «butiro de bufalo o de vacha», troviamo i più tipici «zafarani», l’«assogna», la «riquilitia» e il «fiore de cardoni che fanno le cocozze».

Veterinaria e magia ad Amendolara

Ma bando, anche stavolta, ai dubbi anagrafici.
La cosa interessante di questo manoscritto di mascalcia è ben altra, ovvero l’espressione palese del connubio tra tecnica artigiana, pratica veterinaria e contesto magico.
Dopo aver spiegato come si debbano fare i ‘bagnoli’ ai garretti gonfi, mediante vino cotto con pece, incenso e cera, Patarino mescola la scienza – o quel che era – alla superstizione religiosa.

L’incantesimo santo ai chiodi del cavallo

Infatti, l’autore racconta un «incanto sanctissimo» da farsi «alla inchiodatura del cavallo»:
«Come hai trovato la inchiodatura cazerai lo chiodo e ficcalo sotto terra che non se veda e dirai sopra la inchiodatura queste parole…
Nicodemo cazzò li chiodi de la mano e da li piedi del nostro Signore senza dolore. Cossì sana questo cavallo da questa inchiodatura con lo padre con lo figliolo et con lo spirito santo. Como le pieghe del nostro Signore non colsero ne dolserà cossì questa inchiodatura non doglia con lo patre con lo figliolo e con lo spirito santo…
Fa una croce in ante, et una poi con le parole».

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Bottega del maniscalco, sec. XIV, seconda metà, Fabriano (Ancona), Palazzo del Vescovo

Due magie di Amendolara per guarire i cavalli

  • Il margine tra medicina e magia è labile fino al Cinquecento e anche oltre. Eppure, in pieno Novecento, Patarino s’è attirato le feroci critiche di uno storico della veterinaria, Valentino Chiodi (forse punto sul vivo dell’omonimia). Ancora, altri due brevi esempi… il vostro cavallo ha “il verme”? Oppure ha il “nervo attinto”? Ecco altre due formule:
  • «Incanto da verme de Cavallo
    Scrivite in carta +x pater noster +x alabia +x pater noster +x barco +x pater noster x acrai +x pater noster + ligato con un filo sotto lo collo del cavallo et serà sano.
  • Incanto de nervo attinto
    Imprimis dirai 3 paternoster cum 3 Avemarie con 3 croci sopra lo nerbo actinto et poi fate una cartocella de le parole sequente et ligalo sopra lo nerbo con una pezza nova. Le parole sono queste molto perfette
    + Ante parte + parte ante
    + Ante parte + parte ante
    + Ante parte + parte ante
    + Gion Grison + Tigris Eufrates».
La botttega di un maniscalco

Magno, Ruffo e Rusio: i precursori della magia equina

Nessuna fandonia: Patarino raccoglie l’eredità culturale dei più celebri Giordano Ruffo e Lorenzo Rusio, autori di altri trattati di mascalcia, stavolta duecenteschi, e forse forse addirittura dei trattati di Alberto Magno.
Perciò rischia d’essere pretestuosa una separazione troppo netta fra i contesti della magia colta e della magia popolare. L’analfabetismo connaturato alla seconda non impediva che il “mago” istruito, il cultore o l’esoterista erudito, potessero frequentarla con pari interesse.

Ci si mettono anche i preti

Guarda caso Giuseppe Battifarano, un prete, nella vicina Nova Siri di fine Ottocento, raccoglieva tra i propri manoscritti alcune formule magiche da utilizzare in ambito ippico:
«Per far ferrare un cavallo per quanto difficile possa essere, si gira tre volte intorno al cavallo percotendolo legermente con una coda di volpe femina, e si dica Io ti scongiuro in nome di Dio, e ti comando che tu ti facci ferrare, per portare uomini come Gesù fu portato in Egitto dalla Vergine. Un Pater ed Ave Maria».
(Copio dai Secreti di natura con l’ajuto divino, la sezione esoterica dei manoscritti dell’Archivio Battifarano, sui quali ora non posso dilungarmi…).

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“Secreti di natura con l’ajuto divino”, compilati dal parroco Giuseppe Battifarano.

Una scuola di equitazione

Cavalli, magia, Alto Jonio, Cinque e Ottocento… ho detto tutto? Ora che ci penso, no. Infatti, il 19 maggio 1596 fu istituita una vera e propria scuola di equitazione a pochi chilometri da queste terre. Più esattamente a Senise, con tanto di ufficialissimo atto notarile. In quest’atto cui – oltre al futuro istruttore, tale Hectore Mazza di Taranto – si nominano anche tale Mutio, forgiere, e un immancabile Sanseverino (stavolta Scipione).
Mai più sentito tanto scalpitio in quel circondario.

I cavalli secondo il ministero

Il Censimento generale dei cavalli e dei muli eseguito alla Mezzanotte dal 9 al 10 Gennaio 1876 per conto dell’allora Ministero d’Agricoltura, Industria e Commercio, spiegava: «In questa Provincia [di Cosenza] per la difficoltà delle vie e per la conseguente necessità di servirsi di animali equini piccoli ed adatti a praticare luoghi anfrattuosi e valichi dirupati si sono sempre ricercate le specie dei muli detti bardotti e dei cavalli piccoli detti levatori, l’uso dei quali corrispondeva bene alle condizioni dei luoghi. Questo sistema accreditò le razze cavalline antiche degli Abenanti, del De Mundo, dei Coppola ed altri che oramai più non esistono, ed induceva i fittajuoli di terreni ad allevare chi una e chi due asine per produrre bardotti».

Cavalli amendolaresi davanti al palazzo Coppola, poi Andreassi

Il ricordo di Vincenzo Padula

Forse, l’ultimo a sentire tutto quello scalpitio è stato il patriota e storico Vincenzo Padula, quando da quelle parti registrava i nobili allevatori di mandrie equine: «Giumentieri: Andreassi d’Amendolara, Pucci d’Amendolara, Gallerano d’Amendolara, Mazario [sic] di Roseto, Chidichimo di Albidona hanno buone razze. Ottime le mule di Mazario, ottimi i cavalli di Andreassi, della razza di Coppola, piccoli, ben fatti, e forti, non sono però molto agili al moto, mancano di padre».
Non di padre mancò invece la progenie “umana” dei nobili di Coppola. Questi si imparentarono con gli Andreassi di Montegiordano e quindi si stabilirono Amendolara abbandonando Altomonte.
Da un “sanseverinato” all’altro e da un cavallo all’altro, tutto diventa più chiaro (del resto, non appartenevano ad altri Sanseverino i cavalli utilizzati come modelli da Leonardo da Vinci?…). Tutto torna.

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