L’intervista del nostro Pietro Spirito al professor Alessandro Bianchi pubblicata oggi squarcia il silenzio sul grande problema dell’Unical e della Mediterranea: l’autoreferenzialità. Un fenomeno che vede coinvolti entrambi gli atenei calabresi, così come la Magna Graecia di Catanzaro, ma che nell’ateneo rendese brucia ancora di più. Cinquanta – o poco meno – anni fa, Beniamino Andreatta e gli altri fondatori del campus di Arcavacata lo immaginavano come un luogo capace di contaminare in positivo il territorio circostante. Uno spazio in cui formare gli studenti migliori affinché le loro conoscenze contribuissero allo sviluppo della Calabria, insomma.
La terza missione
E di menti brillanti dall’Unical ne sono uscite parecchie, grazie a una didattica che spesso ha raggiunto livelli di eccellenza, in particolare nelle facoltà scientifiche. Molti di quei laureati però hanno preso strade che li hanno condotti anche a migliaia di chilometri dalle aule in cui si sono formati. È stato così da principio ed è ancora così oggi, nonostante la recente riforma Gelmini abbia molto insistito sulla necessità di valorizzare la cosiddetta terza missione delle università italiane.
Per un futuro migliore
L’Unical ha finito per isolarsi erigendo mura simili a quelle di Gerico. Così come è capitato a Reggio, secondo Bianchi, quando si è smesso di guardare con l’attenzione del passato a quel Mediterraneo da cui l’ateneo prende il nome. A farne le spese, le rispettive comunità, sulla cui arretratezza economica, culturale, sociale pesa – e non poco – quanto accaduto in questi anni. Ma per dare un futuro degno di questo nome alla Calabria è fondamentale che il mondo accademico inizi a collaborare, al suo interno e con l’esterno.