Caro Direttore, caro Franco,
ho seguito la discussione sulle università calabresi che ha preso il via sul tuo giornale fin dall’intervista a Sandro Bianchi, e poi si è sviluppata con interventi che hanno arricchito il quadro con ulteriori elementi e da diverse angolazioni.
Mi è parso di capire che se l’aspettativa era alta, sul ruolo e l’incidenza che il sistema universitario calabrese avrebbe potuto-dovuto avere rispetto alle condizioni sociali e culturali oltre che politiche, oserei aggiungere antropologiche, della nostra regione, tale aspettativa, da quel che leggo è rimasta in buona misura disattesa. Il rettore emerito Gianni Latorre è più cauto e sottolinea gli aspetti positivi e per talune considerazioni che svolge dirompenti: lui conosce bene l’Unical e la vischiosità dei tanti anfratti in cui si cela la nostra identità, il nostro essere cittadini calabresi, con tutte le ambasce, i condizionamenti, i retaggi.
Se posso aggiungere la mia voce alle tante, e mi auguro anzi auspico si moltiplichino, inviterei a rimuovere le valutazioni che, sottotraccia o esplicitamente, attribuiscono o attribuivano virtù taumaturgiche alla nascita, al sorgere, allo stabilizzarsi del mondo accademico qui da noi. E non è una diminutio o una sottovalutazione, la mia posizione, quanto l’evidenziare che cinquant’anni di vita di una istituzione – che per lo stesso fatto di irrompere in un quadro preesistente fatto di relazioni, patti, accondiscendenti e mutui laisser vivre, ha comportato sconvolgimenti nel concepire la vita associativa – sono poca cosa. Poca cosa per mutare o curvare secoli di indolenza, autosufficienza, più presunta che reale, un predominio della politica o per dir meglio del politichese sovra ogni altro comparto.
È questo mio dire una giustificazione o addirittura un’assoluzione delle università calabresi, in primis dell’Università della Calabria, che meglio conosco rispetto alle altre, e che nacque, appunto come università regionale, anticipatrice della riforma, a numero chiuso e residenziale, con la missione di servizio al territorio da assolvere-tutto scritto e sottolineato nel suo Statuto? Certamente no, e lo dico dalla prospettiva e a posteriori, di chi ha vissuto fra i cubi di Arcavacata per quasi cinquant’anni, sovente occupando posizioni dentro gli istituti di gestione e di governo. Non perché i suoi doveri istituzionali Unical li ha ottemperati egregiamente e doverosamente per quanto attiene ricerca e didattica (inutile dilungarsi qui: è sufficiente constatare le migliaia di laureati nostri cosa fanno e i report delle ricerche contenuti nei files accreditati). E nemmeno perché non abbia spinto, motivato e proposto tante e tante volte e nei modi più diversi tavoli e incontri, contatti e relazioni con il mondo della politica e delle professioni, della produzione e del commercio. Anche qui ha fatto, lo ha fatto a lungo.
Il muro, le resistenze, l’opacità e la viscosità che ha incontrato, laddove il fondatore Beniamino Andreatta aveva immesso elementi di forte e dichiaratamente impattante stridore per provocare una shocking wave in grado di risvegliare un corpaccione dormiente, non erano facili scalfire. Non lo era nemmeno, però, introiettare per molti versi e in diversi ambiti un modo di fare, un ritrarsi, un ‘autogiustificarsi’ quasi omologatorio al sistema circostante.
Non è questa, ovviamente, la sede per ricordare episodi, fatti, accadimenti, che si sarebbero potuto dipanare in altri modi, che forse avrebbero potuto condurre a soluzioni di interesse generale più ampie e profonde, ma forse si può, qui, iniziare a fornire un quadro di lettura, una traccia almeno, di come e perché altrove, un qualsiasi altro altrove, dove però ci sono città di dimensioni medio-grandi, ospedali funzionanti, servizi efficienti, infrastrutture adeguate, modelli organizzativi di condivisione, ritrovo, scambio, dove c’è un sistema imprenditoriale che dà e riceve secondo un patto non per forza di cose scritto, dove il weberiano ‘controllo sociale’ mostra ancora segni di vitalità in vece dell’ossequio dell’appartenenza, in questo altrove, dicevo, le università, l’università rappresenta e costituisce un elemento aggiuntivo e premiante, un valore supplementare al contesto. Senza reclamare o invocare predomini della politica su tutt’il resto, senza, per converso, trincerarsi dietro paraventi di autonomia.
Si può lavorare per tutto questo?
Massimo Veltri
Professore ordinario all’Unical ed ex senatore della Repubblica