Il risveglio, quel 26 febbraio, uno dei tanti risvegli: uno sguardo annoiato al tablet per aprire la testa al mondo e alle notizie dopo un sobrio festeggiamento, la sera prima, del mio compleanno. E qualche bicchierino di troppo che annebbia la testa; entrano immagini già viste tante volte: di mare e di pezzi di legno, di pezzi di legno e di mare. Ennesima tragedia di migranti che non ce l’hanno fatta. Accendo la radio ed entrano parole: Steccato, Cutro, Crotone. Steccato, Cutro, Crotone. Capisco che la tragedia si è consumata in questa regione. Testa annebbiata: ennesima tragedia, che differenza fa se è accaduta in questa terra? In una località dove vado spesso e dove ho pure insegnato? I morti sono tutti uguali! Perché questi dovrebbero colpirmi di più? E i morti a migliaia di chilometri di distanza? Non sono forse degne di dolore quelle morti? Non sono forse inappropriate tutte le morti che cercano vita e salvezza? Se è così, se ogni vita ha lo stesso valore, quella tragedia e quei carichi possono continuare a residuare nella coscienza.
Tragedia di Cutro: il carico residuale
Quei carichi possono continuare a residuare nella coscienza. È una delle tante tragedie. È il solito scandalo. Mi apro e mi chiudo in una comoda celebrazione del valore della vita; e pure scandalo riesco a provare per quelle ennesime morti ingiuste; mi rigiro nel letto (è domenica) e ogni tanto sorseggio la mia tisana appena preparata.
Un momento: è accaduto qua… E che vuoi che conti? La vita è vita a ogni latitudine. E anche la morte è morte a ogni latitudine. Carico residuale di morte. Ma forse non può essere così se questi carichi residuali sono a poche decine di chilometri; sono bambini, giovani uomini e donne, Cazzo! Sono qui e residuano a poca distanza.
«Al momento si stima una ventina di morti e un numero imprecisato di dispersi, forse cento» – dice la radio. Forse i chilometri contano: se non riesco a provare qualcosa di più per i morti in prossimità, se non riesco a scacciare il mio torpore assuefatto neanche di fronte a corpi che muoiono così vicino, forse ho un problema, più di un problema.
Direzione Crotone
Passa comunque qualche ora, in questo rigirarsi della coscienza e ciondolare domenicale per la casa. Alla fine decido, i chilometri contano perché quei morti e quei dispersi sono nel mio mare, dove faccio il bagno! È la stessa sabbia quella sopra la quale vedo adagiati corpi coperti con teli malamente recuperati. La mia sabbia, quella che ho toccato e che toccherò. Quella che faccio scorrere tra le dita come sono solito fare, a mo’ di annoiato scacciapensiero, tra un bagno e l’altro. Ora accoglie il peso della morte quella sabbia. Sento il bisogno di dare consistenza alla tragedia. Devo recuperarne la dimensione persa nel piattume della pluralità di schermi che ho intorno. Devo andare!
Andare a fare cosa? Non so fare cose immediatamente utili. La mia vita è fatta di insegnamento. Credo di farlo benino, ma ho competenze goffe quando serve aiuto per alleviare il peso di una tragedia. Vabbè vado lo stesso, inutilmente. Ma forse è meglio essere inutili là che qua. O forse no. Ma chi se ne frega, vado!
“Al momento si contano trenta salme e un imprecisato numero di dispersi, forse novanta” – aggiorna la radio. Vado. Andiamo. Qualche telefonata e ci ritroviamo in macchina. Amici-colleghi, amiche-colleghe. Attraversiamo la Sila diretti verso la costa ionica, dove si apre il mare crotonese.
Non sappiamo neanche dove andare. «dove è successo precisamente?» «Steccato di Cutro, conosci?» «No. Metto il gps». Arriviamo a Crotone e prendiamo la famigerata 106, che in quel punto si allarga e sembra moderna. Avanti, subito dopo Crotone, verso Steccato. Vediamo delle luci venirci incontro sul lato opposto della strada: sembra un albero di Natale il corteo di macchine con i lampeggiatori bluastri accessi che luccicano in modo alternato, creando un curioso gioco di luce. Quel corteo veloce ci annuncia che il luogo della tragedia ora è un altro, in direzione opposta.
«Ma che andiamo a fare su quella spiaggia? Forse hanno ormai portato le salme altrove; ormai è quasi buio e certo non ci faranno avvicinare». «Dove le portano le salme?» «al Pala malone, ho sentito, o melone, fai una ricerca, per favore» … «Ahhh PalaMilone». Scrivo quel nome sul gps.
Milone era il più famoso lottatore della antica città di Crotone – era il sesto secolo avanti Cristo – che sette volte vinse le Olimpiadi e che aiutò a sconfiggere l’esercito della vicina Sibari. Ora questo eroe dà il nome a una piuttosto grande cupola di legno e vetro sotto la quale è stipato un numero montante di salme. Non possiamo entrare, ma qualche immagine ce la rimanda il telefonino (cazzo! ancora la vita e la morte a due dimensioni!): bare ancora vuote di mogano e di legno dipinto di bianco, queste ultime accoglieranno i corpi dei più piccini. Non ci fanno entrare. Lo sappiamo, è giusto così. La scientifica deve fare i rilievi di routine.
Il freddo della morte nella tragedia di Cutro
Siamo lì; fa freddo. Forse è il freddo di quelle morti. Il web: «Ritrovato un altro corpo. Il numero delle salme è salito a cinquanta». Fa ancora più freddo. Vediamo persone in composto silenzio di fronte al PalaMilone. Depongono fiori, legandoli o incastrandoli su una recinzione di ferro: commemorare sorelle e fratelli sconosciuti che non ci sono più, che hanno fatto irruzione con i loro corpi esanimi nella nostra vita. Altri fiori, qualche bambino con dei disegnini e un orsacchiotto di pezza o una bambolina: «hanno perso tutto quei bambini affogati, anche i loro giocattolini; gliene portiamo di nuovi».
Vediamo tante persone ora. Alcune di queste sembrano stanche. Hanno lavorato tutto il giorno: sono nostre ex studentesse e studenti ora professionisti del sociale. Ci vedono e si avvicinano. Una scoppia in lacrime, in un pianto liberatorio. «Grazie di essere venuti; è stata una giornata faticosa. Troppi corpi, troppi morti. E bambini sopravvissuti da sistemare. Sono escoriati neanche le cremine avevamo». Ci sentiamo utili. Ma è solo un momento.
Restiamo umani
Raccontano; si sfogano. «Troppe cose brutte abbiamo visto!». Si stempera quel freddo. È un calore fatto di umanità: ma, porca miseria, servono i morti per ricordarci che siamo umani? Altri fiori; altra gente. Movimento e agitazione tra le guardie e la polizia che presidiano il cancello del PalaMilone: arrivano le autorità, il ministro, il presidente della Regione. Un corteo di lussuosi macchinoni, un corteo di enormi coccodrilli: stridono di arroganza e cinismo di fronte alla compostezza di chi non può entrare ma è tanto vicino. Si leva qualche grido di protesta verso il corteo. Ma in fondo nessuno se ne occupa.
Siamo lì, dolore diffuso. Fatto di freddo interrotto da improvvise folate di tiepido calore. Una nostra ex studentessa: «È scattata tanta solidarietà, i pescatori sono stati tutto il giorno con la speranza di raccogliere vite, ma hanno raccolto soprattutto morti; i cittadini dei paesi ci vogliono dare tutto».
C’è pure la solidarietà dei loculi tra i paesi perché non basteranno per le salme che non verranno rivendicate dai parenti: chi offre otto posti, chi dieci, chi cinque. Anche questa è solidarietà; anche questa è disgraziata e generosa accoglienza. È venuta ora di rientrare. Attraversare la Sila di nuovo per tornare nelle nostre confortevoli case. Ciascuno di noi in macchina è in silenzio. È il momento di bilanci interiori: ha avuto senso andare? Ero adolescente, a Pizzo, e amavo immergermi in quel mare per raccogliere telline. In una di quelle immersioni ricordo di avere visto una medusa fatta a pezzi da qualche motoscafo; e intorno c’erano tante meduse in cerchio che sembravano impegnate in una danza.
Ercole Giap Parini
Direttore dipartimento Scienze politiche e sociali Unical