«Il Futuro è passato e noi non ce ne siamo nemmeno accorti», dice Vittorio Gassman nel 1974 in C’eravamo tanto amati di Ettore Scola. Un film tanto profetico quanto definitivo sulle “progressive sorti” dell’impegno politico e della visione della storia, del suo divenire, dei destini pubblici e privati di generazioni che volevano tutto e subito.

Cesare Luporini, a proposito di progressive sorti, afferma che «Leopardi condanna la ragione come facoltà umana sviluppatasi e conquistata col progresso e genitrice di progresso, la ragione che è, nel senso illuministico della parola, filosofia. Questa ragione è facoltà di analisi, calcolo e riflessione. E secondo Leopardi, come riflessione essa arresta l’immediatezza dell’azione e le toglie il carattere eroico; come calcolo produce l’egoismo caratteristico del moderno uomo civile, in opposizione allo slancio, agli impulsi naturali, alle generose illusioni che guidavano i liberi cittadini antichi; come analisi essa scompone le cose (e i sentimenti) e per lei ciò che è grande diventa piccolo e le illusioni si rivelano per tali».
Il futuro e l’inarrestabile progresso
Il fluire del tempo, il futuro noi lo si concepiva in un sol modo: come positivo e inarrestabile progresso, certi, forse solo speranzosi o indottrinati, che le contraddizioni economiche e sociali che tale sviluppo avrebbe portato con sé avrebbero rinvenuto nella definizione di un nuovo uomo, di un nuovo sistema di relazioni e gerarchie la sintesi perfetta e lo sbocco del naturale esito delle cose.
L’impegno, lo strumento, l’orizzonte, la meta, in una sarabanda che incrociava eventi ed esperienze, confronti e soliloqui, certezze e scazzottate: non come eravamo, ma come saremmo stati.
Uno sguardo a misura d’uomo
Quando insorse il dubbio, si incrinò la speranza, si abbassò la linea dello skyline? Ciascuno di noi ha un proprio datario, qualcuno anche quello generazionale: alcuni si incrociano, si sovrappongono, altri divergono. Per certo, quando i paradigmi dell’elaborazione, della fede, quella laica, si avvitano su se stessi e il labirinto delle tesi e delle premesse finisce di cozzare di volta in volta contro muri ciechi sempre più respingenti, qualcosa subentra, qualcosa cambia, in corrispondenza altresì di anagrafi e di aggiornamenti, dell’irrompere di nuove culture.
Magari all’inizio impercettibilmente, poi piano piano in crescendo, si appalesa come sbocco naturale e ineludibile uno sguardo che definire maturo è scontato quanto inadeguato, consapevole altrettanto che maturo: non rassegnato, cioè, e né tantomeno liquidatorio, solo meno ideologico. Insomma, a misura d’uomo.
L’incarnazione del potere
Todo Modo di Elio Petri è del 1976. Ed è, ridotto all’osso, una rappresentazione algida del potere e degli uomini che lo incarnavano in quei decenni, dell'”imperativo categorico”, di scardinare quel sistema, di sconfiggere quegli uomini.
C’è Sciascia, dietro, logicamente, e un uomo di cinema che il cinema lo concepiva come militanza e strumento di cambiamento e di proselitismo, poco importano i rischi di autoreferenzialità, in una sorta di circuito chiuso con spettatori e cultori autocompiacenti.

Lo presentammo esattamente cinque anni fa. Solo cinque anni fa, già cinque anni fa, accompagnandolo con una ricca discussione, Ugo Caruso, Alfonso Bombini, Franco Plastina e io in un luogo che non c’è più, almeno fisicamente, all’Acquario, a Cosenza.
Avvertimmo l’esigenza di farlo, forse l’urgenza, e parlammo, davanti a un pubblico devo dire non particolarmente numeroso ma in tutta evidenza molto coinvolto, non solo di cinema.
Volevamo capire.
Se e in qual misura ci riuscimmo non so dire, per certo è una esperienza da riproporre, oggi, ovviamente aggiornata: materiale nuovo ce n’è in abbondanza.
Massimo Veltri
Professore ordinario all’Unical ed ex senatore della Repubblica